Santo Peli

 

Sindacato e lotte dei lavoratori a Padova e nel Veneto(1945-1969):

 appunti di lettura

 

 

I

 

Il titolo non va preso alla lettera; l’Annale è per sua natura un contenitore di saggi, diversi per metodi, temi e periodi analizzati; così come il Veneto non è rappresentato nella sua globalità, ma in alcuni punti caratterizzati da lotte intense.

Il denominatore comune, più che il sindacato, o le lotte, direi che è il lavoro, i problemi connessi alle dimensioni politiche e sociali del lavoro. Notevole varietà dunque,  di temi e di metodi; vi sono saggi di storia del movimento operaio, analisi sociologiche del partito comunista padovano, lotte sociali e dinamiche politiche a Verona, lotte e scomparsa delle mondine della bassa padovana, ricostruzioni del sessantotto operaio e studentesco, analisi delle Acli, analisi dei contratti di lavoro in epoca fascista.

 

II

 

Primo risultato e merito dell’Annale: attraverso un approccio storico e sociologico, evidenzia la miseria di un’idea del lavoro che sembra ormai incontrastato verbo, e che a me pare idea in sé misera, contrabbandata per realismo e “fine delle ubriacature ideologiche”; idea che consiste nella riduzione del lavoro ad una questione strettamente economica, dove tutte le variabili sembrano sottostare ad un unico mostro: il mercato.  La stessa varietà di metodi presente nell’Annale è spia della complessità e ambiguità  dei problemi connessi al lavoro e alle mutevoli identità dei protagonisti. Tra i problemi che una storia sociale e politica del lavoro evoca, quello dichiaratamente analizzato nei saggi dell’Annale è costituito dalle lotte: quelle delle O.M.S.  e quello delle mondine, per quanto riguarda gli anni cinquanta, e quelle di Marghera e di Valdagno tra il 67 e il 68.

I saggi sugli anni cinquanta evocano un clima politico e sociale dove miseria e durezza dello scontro politico risaltano inequivocabilmente. Nel senso comune storico,  visibile nel dibattito politico corrente e negli approcci giornalistici alla storia repubblicana, gli anni dell’anticomunismo, della “democrazia congelata”, sono ormai in gran parte rimossi, a favore di una proiezione all’indietro del “consociativismo”,  proponendo in molte varianti una sorta di “siamo stati tutti al governo”. I saggi di Colasio, Merlin e Naccarato, pur tra loro molto diversi,  permettono di verificare l’infondatezza di simili semplificazioni, delineando un contesto caratterizzato da durissime contrapposizioni sociali, e da lotte, magari epiche, ma tendenzialmente perdenti.

Tendenzialmente, per dire perse in partenza, anche se combatterle è stato decisivo per l’identità dei protagonisti.

E’ un mondo che viene aggredito e sbriciolato dalla grande trasformazione in atto. Quello che a posteriori diverrà il miracolo economico, per i contemporanei, per le classi subalterne oggetto di licenziamenti, di discriminazioni ideologiche, di ristrutturazioni che intrecciano logiche produttive e rese dei conti politiche, è in realtà una drammatica lotta per la sopravvivenza di identità politiche e sociali comunque in via di estinzione. Ciò è particolarmente evidente per il mondo del bracciantato e delle mondine della bassa, ma anche per gli operai di mestiere che hanno vissuto in prima persona la Resistenza.

Nei saggi di Colasio sull’identità comunista,  e ancor più di Merlin e  di Naccarato, risalta un’identità operaia fortemente separata; forme di organizzazione dello spazio e del tempo che rimandano a un isolamento, ad una separatezza, ad un universo proletario cui in modi vari, con più o meno consapevolezza, l’organizzazione sindacale e il partito comunista forniscono senso generale e integrazione. Ci si può chiedere: quando finisce, se finisce, l’isolamento o la separatezza operaia? La coesione interna, la solidarietà, sono in fondo proporzionali all’esistenza di una identità forte, ma  isolata. Infatti quegli apprendisti di cui parla Naccarato, che lasciano la paga agli scioperanti della Stanga con famiglia a carico, fanno parte di un universo dove l’elemento caratterizzante l’identità sociale coincide con l’essere operai.

 

III

 

 Il saggio molto intenso e partecipato  di Cesco Chinello riguarda una fase decisamente nuova, rispetto a questo contesto, e  prende le mosse dagli operai di Marghera che durante le lotte del ‘65 dilagano per la prima volta verso Venezia, nella stazione di Mestre, sul cavalcavia. Mi pare che questo possa alludere, non solo simbolicamente, ad una fase dove si spezzano con forte consapevolezza dei limiti, dei confini, che sono anche la rottura di isole linguistiche e  antropologiche. L’incontro con gli studenti, che è centrale nel saggio di Chinello, è anche la cronaca di un arricchimento, che deriva dal mescolarsi di linguaggi storicamente separati e incomunicabili che si  intrecciano e si fecondano per la prima volta.

I saggi sulle lotte operaie del ‘67-’68 in termini generali hanno il pregio di mettere a fuoco le specificità e le ragioni di un salto qualitativo delle lotte, per intensità e per risultati raggiunti. Anche qui il senso comune prodotto dalle rimozioni e dagli appiattimenti ha generato in molti casi una visione del sessantotto come primo capitolo, come anticipazione, o quantomeno come premessa al terrorismo, buttando a mare la specificità storica, le radici locali e quelle generali di lotte di straordinario interesse, che nei saggi di Chinello e Roverato riacquistano concretezza e contesto, cioè senso e prospettiva storica. 

 

IV

 

 Vi sono molte questioni teoriche sottese ai saggi presenti nell’Annale, che restano per altro del tutto implicite.   Mi limito qui a richiamare l’attenzione su una di queste questioni,  che in termini molto generale definirei così: quale rapporto esiste fra lotte operaie e cambiamento economico? Vi sono momenti di lotta che divengono propositivi, d’attacco, lotte che disegnano il futuro, e lotte che sono ultimi sussulti di modelli produttivi, e di relazioni sociali, comunque in via di estinzione. Le lotte dei braccianti, delle mondine, e quelle di Marghera e di Valdagno, anche se separate da pochi anni, hanno radici, oltre che esiti, molto diversi. Il saggio di Chinello è anche il racconto dell’affermarsi di un punto di vista che rivendica una autonomia delle lotte dalle necessità produttive, punto di vista operaio che si rivelerà a lungo termine insostenibile, ma che dentro le lotte del ‘68-‘69 ha il sapore di una straordinaria liberazione. Benché le lotte di Marghera descritte da Chinello abbiano come punto di innesco una ristrutturazione, e conseguenti licenziamenti, e come esito immediato una lotta contro i licenziamenti, e una sconfitta, vi è in esse una sostanziale differenza rispetto alle lotte descritte nei saggi sugli anni ‘50: qui la sconfitta, soggettivamente, “non è vissuta come tale da quei 700 operai e neanche da quelli delle altre fabbriche di Marghera e da chi l’ha appoggiata in toto” (Chinello, p. 186). Chinello privilegia decisamente il punto di vista operaio, un punto di vista prevalentemente  interno alle lotte. Quanto questa scelta incida sull’analisi, è credo ben evidenziato dal confronto con il saggio di Giorgio Roverato,  nel momento in cui tutti e due valutano cause e conseguenze dell’abbattimento della statua di Marzotto a Valdagno nella primavera del ‘68. I due autori non giungono a conclusioni molto lontane, e tanto meno inconciliabili. Ma Roverato, che ha alle spalle la ricostruzione della secolare strategia produttiva dei Marzotto, tiene conto, e ci dà conto, anche delle necessità produttive che stanno a monte delle ristrutturazioni, e dei problemi che ne derivano sul versante del consenso e della  opposizione operaia al cambiamento. Viceversa Chinello, che ha alle spalle trent’anni di studi sulla classe operaia veneta, e di Marghera in particolare, tiene conto, e ci dà conto, del senso di liberazione, della conquista simbolica, che attraverso l’abbattimento della statua di Marzotto, “descrive lapidariamente l’itinerario percorso, dalla rassegnazione alla lotta” (Chinello, p. 210).

 Abbiamo qui una doppia ricostruzione della vicenda, ovvero l’utilizzazione di due punti di vista, l’uno prevalentemente operaio, e l’altro prevalentemente di storia imprenditoriale; a dimostrazione, per quanto mi riguarda, che una buona storia della classe operaia non può prescindere dalla storia dell’impresa, e viceversa, proprio per l’ambivalenza, e la molteplicità delle implicazioni politiche e sociali, e non solo economiche, delle lotte del lavoro. Anche la questione della fine della civiltà bracciantile viene affrontata nell’Annale con accenti  e prospettive che possono parere in opposizione, e che finiscono per essere complementari: mentre Merlin parlando di “grande tragedia” (Merlin, p. 117), non nasconde nostalgie e rimpianti( in qualche modo è il suo  mondo ad essere aggredito e sbriciolato), Paronetto, nel suo saggio su Verona, vede invece anche dinamiche di fuga da una “condanna a cui è possibile sottrarsi”(p. 1O7). Credo che entrambe questi giudizi abbiano solido fondamento.

 Per entrambi, e anche per le lotte operaie delle O.M.S. studiate da Naccarato, l’oggetto di analisi è costituito da lotte di resistenza, resistenza al licenziamento e anche resistenza al cambiamento; lotte prive della capacità, o possibilità, di produrre scenari nuovi o alternativi al terreno di scontro che devono in qualche modo subire, e che resta l’unico orizzonte sul quale si consumano.

La vicenda delle mondine è forse la più esemplare da questo punto di vista, se si considera che diviene, nel 1951, un obiettivo di lotta nazionale “l’estensione dell’area di coltivazione del riso in maniera da assorbire almeno buona parte delle 60.OOO mondine che ogni anno rimangono senza lavoro”(Merlin, p. 123).

 Questo obiettivo, che a me pare paradossale, viene indicato in un momento in cui è già chiarissimo, anche al sindacato, che il lavoro delle mondine è sostanzialmente antieconomico, oltre che terribile da ogni punto di vista.

 Ora, estremizzando e banalizzando per ragioni di chiarezza, in tutte le storie che hanno al centro le lotte operaie, si possono incontrare due modelli interpretativi:

a) La ristrutturazione industriale, l’innovazione tecnologica hanno delle ragioni, per così dire, oggettive, imprescindibili, interne alla logica stessa della produzione e della necessità di produrre per un mercato concorrenziale

b) La ristrutturazione, il cambiamento, sono la forma che assume l’attacco padronale all’occupazione, come sintomo di un più generale attacco all’identità politica e sociale dei lavoratori e alle loro organizzazioni.

 

  In concreto le interpretazioni possono naturalmente collocarsi  variamente più vicino all’uno o all’altro dei due poli, o ondeggiare tra entrambi; però credo che sarebbe fecondo esplicitarle. Nei saggi contenuti nell’Annale, e in alcuni casi all’interno dello stesso saggio, convivono e si alternano entrambi questi atteggiamenti interpretativi, e questo fatto a me pare rivelatore di un nodo ancora irrisolto, di una scarsa chiarezza teorica della storiografia operaia nelle sue varie anime e declinazioni.

Cerco di chiarire meglio il mio pensiero prendendo ancora a prestito qualche citazione dal saggio di Merlin, il quale lucidamente scrive:

 la lotta per il mantenimento della meanda- che costa il 26% del prodotto agli agrari contro il 6% se le operazioni di raccolta del frumento avvenissero meccanicamente - si comprende facilmente con la fame della povera gente; ma la meanda è un modo di produrre antieconomico, antiquato, inevitabilmente destinato a scomparire”. Richiamo l’attenzione su quell’ “inevitabilmente”, che ha tutto il peso della constatazione di un dato oggettivo. Su un altro piano, quello delle scelte soggettive e politiche, Merlin sostiene che “l’emigrazione con la conseguente distruzione del tessuto sociale  fu appunto uno degli obiettivi perseguiti intenzionalmente(s.m.)dalla politica D.C. e dal padronato agrario”. Richiamo l’attenzione sull’avverbio “intenzionalmente”. Si tratta, in questo caso, di una esemplificazione locale di quello che nel suo saggio Chinello chiama,  utilizzando un concetto ricorrente nelle lotte del ‘67- ‘68, “il piano del capitale”. (pp.116-17) Insomma, il bracciantato da una parte “ora non serve più”; nello stesso tempo “la D.C. padovana e gli agrari sono anch’essi contrari al processo di industrializzazione in una zona che si intende bonificare politicamente(s.m.)”. 

Io credo che in ogni grande conflitto sociale questi due elementi di fondo si intreccino ma in modo di volta in volta da analizzare. L’ideale sarebbe forse metterli entrambi, e contemporaneamente,  al centro dell’analisi.

 

V

 

Nel saggio di Chinello, viene evocata la crisi interna alla D.C. come un importante antecedente del precipitare delle tensioni operaio a Valdagno, così pure nel saggio di Pace sulle Acli vi sono importanti accenni a modificazioni nel mondo cattolico e democristiano.   Nel  saggio sulle lotte bracciantili trovo evocata la D.C. come completamente al servizio di una logica di controllo sociale e di bonifica politica della bassa padovana; può essere così, e del resto Merlin ha studiato questa situazione e ne sa molto più di me.  E’ anche interessante però  apprendere dal saggio di Alessandro Naccarato  che il consiglio comunale di Padova, in maggioranza democristiano, si esprime sulla lotta degli operai della Stanga del luglio 57, che rappresenta la punta di diamante dell’organizzazione operaia “rossa” con proposte di dialogo e di collaborazione., Così nel saggio di Chinello leggo che durante l’occupazione dei due stabilimenti Sirma di Marghera, nel 1965, il sindaco democristiano di Venezia va di persona a portare agli operai la solidarietà della città, espressa dal consiglio comunale (p. 183).

Evidentemente alla stessa sigla, in diversi momenti storici,  o nello stesso periodo ma in diverso contesto, corrispondono atteggiamenti di fondo non omogenei,  impossibili da definire una volta per tutte.  Forse una analisi delle evoluzioni delle varie anime della D.C. veneta, o delle D.C. venete, potrebbe essere importante anche per la comprensione delle variabili forme e intensità del conflitto industriale, o della sua assenza.

E, per restare all’ambivalenza di uno stesso termine in contesti diversi, il settimanale “Il lavoratore” del 10 giugno ‘54 dà notizia di un prete di Casale Scodosia che alle mondine organizzate nella lega avrebbe augurato “che in risaia si ammalino di dolori reumatici” (Merlin, p. 126). Nello stesso tempo, sappiamo dal saggio di Naccarato che è il parroco della chiesa della Pace ad ospitare gli attivisti che trainano le lotte della Stanga, e nei ricordi di Maran leggiamo che “anche le parrocchie, tramite i loro parroci, ci aiutarono chiedendo ai fedeli durante le messe un contributo. In particolare sono da ricordare i parroci del Tempio della Pace e degli Ognissanti che ci diedero ospitalità nei loro patronati per riunirci in assemblea” (Naccarato, p. 63).

 

 

 

VI

 

Questo Veneto è insomma un contesto straordinariamente variegato e stratificato, resistente a definizioni rigide; tanto più  per chi studia le lotte operaie, cioè sceglie un crocevia dove si intersecano questioni e problemi politici, economici, sociali e culturali, e dove si intrecciano questioni di lungo periodo e contingenze e specificità ben definite La lettura in successione di tutti i saggi presentati da questo Annale, proprio a partire dalla varietà di  prospettive storiche e di metodi utilizzati, fa quindi scattare una serie di problemi e di curiosità  per così dire aggiuntive, esito che non sarebbe ottenibile dalla lettura di singoli saggi inseriti in altro contesto. Questa apertura a metodi e scuole diverse è merito non da poco di cui va dato atto agli ideatori dell’Annale. Più della carenza di omogeneità di metodi e di criteri interpretativi, ho sentito alla fine della lettura fortemente la mancanza di un saggio dedicato ad un problema che personalmente trovo di grande interesse, quello dell’assenza di lotte operaie. Credo cioè che le lotte operaie acquistino effettiva comprensibilità solo  se vengono studiate anche le non-lotte, l’assenza di lotte, derivi questa da consenso, da benessere, da rassegnazione, da impotenza o da calcoli politici Voglio dire che le lotte degli anni 50 alle Officine Meccaniche Stanga potrebbero essere pesate, ponderate meglio a partire da un saggio che spieghi se e perché sono anche le uniche, o se sono le più significative rispetto ad altre. Non è certo un rimprovero a Naccarato, che ci offre un utilissimo contributo, quanto un modo di giustificare l’aspettativa per saggi che potrebbero anche intitolarsi “La mancanza di lotte nelle industrie padovane dal ‘48 al’57, ad eccezione di...”, oppure  Pace sociale e pratiche paternalistiche nella Valdagno tra il 1944 e il 1967”. Mi si perdoni il paradosso, ma lo utilizzo per dire che anche la mancanza di lotte è un terreno di indagine fecondo, e anche, credo, indispensabile ad una più chiara comprensione delle accelerazioni, delle rotture, delle novità; delle lotte, insomma.