SCANDALI: UNA CHERNOBYL SICILIANA

La fabbrica della morte
di Antonio Rossitto 5/3/2004

Già nel 1976 la Sacelit sa quindi che 16 dipendenti soffrono di asbestosi, la malattia dell'amianto. Già nel '76 sa che chi entra a contatto con il materiale è a rischio. Oggi, a meno di 30 anni da quelle visite, di quei 16 lavoratori ne sono rimasti in vita solo quattro. Giovanni Saporita e Franco La Spada sono due dei superstiti. «Quelli di Bari» racconta il primo «mi avevano detto che con la mia malattia mi dovevo fare cambiare di posto. Ma fino all'ultimo giorno di lavoro sono rimasto sempre lì: a fare la manutenzione dei serbatoi». A La Spada è capitato lo stesso: «Ero il capomacchina e capomacchina sono rimasto». Sapevano, quindi? Il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto è convinto di sì: conoscevano i rischi o perlomeno dovevano conoscerli. Lo confermano le 18 sentenze che hanno obbligato la Nuova Sacelit a risarcire altrettanti ex operai per il «danno biologico subito». Tutti ripagati con una somma che varia da 50 a 190 mila euro. Solo una richiesta è stata rifiutata: praticamente il tribunale ha sempre ritenuto colpevole la società.

Le motivazioni delle sentenze non lasciano dubbi: «Le argomentazioni difensive (della Sacelit, ndr) inerenti le scarse conoscenze scientifiche sulla pericolosità dell'amianto» non possono essere accolte. «L'associazione amianto-mesotelioma è stata unanimemente riconosciuta già dal 1965» e «già dal 1943 il legislatore dimostra di conoscere l'asbestosi come malattia fondata sulla correlazione con lavorazioni d'amianto». L'azienda ha inoltre «inequivocabilmente» violato le «norme dirette a prevenire gli infortuni e le malattie sul lavoro». Infine, conclude il tribunale, la società non ha mai «messo a conoscenza i lavoratori sui rischi specifici cui erano esposti».

Nessun dubbio, quindi: la Sacelit ha violato le leggi. Ma la procura della Repubblica di Barcellona è andata oltre. Sulla morte di due lavoratori, il sostituto procuratore Olindo Canali, un anno fa, ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo. Indagati, i quattro dirigenti che, negli anni, hanno guidato lo stabilimento di San Filippo del Mela. Oggi, di quell'inferno, restano solo morte e malattia. Francesco Saraò adesso è un vecchietto di 79 anni che parla a fatica e indossa sempre un cappello nero a tese larghe. È rimasto alla Sacelit dal 1961 al 1984: produceva tubi idraulici. Gli avevano diagnosticato l'asbestosi già nel 1967. Oggi vive tutto il giorno con l'ossigeno. Di mattina si scarrozza per tutta la casa una bombola portatile collegata alle narici con dei tubicini; di sera usa un ventilatore polmonare attaccato a una maschera che gli copre interamente il viso. «Avevo due passatempi: la caccia e la campagna» si lamenta. «Da 20 anni, a stento posso uscire per una passeggiata».

Giovanni Foti, invece, era un carrellista. È bassino e rotondo, con i capelli grigi tirati all'indietro e le mani grosse scorticate da anni di lavoro. Ha 64 anni ma ne dimostra dieci di più. «Vado avanti solo con gli spray. La sera mi sento soffocare. Devo alzarmi per prendere aria. Che vita è questa?». Il tribunale, nel 2002, gli ha assegnato 150 mila euro di risarcimento. «Ma che me ne devo fare dei soldi? Chi me la restituisce la salute?». C'è pure la storia che racconta Domenico Mancuso. Davanti alla scrivania dell'ufficetto nella sua autofficina mostra una foto: il padre e la madre che sorridono.

Santo Mancuso, ex addetto alle produzioni, scomparso nel 1998 per insufficienza polmonare. Qualche giorno dopo il funerale, anche la moglie ha cominciato a stare male: «Le mancava l'aria, era sempre stanca e affaticata» racconta il figlio. «A Milano i medici non sapevano come dirmelo: soffriva della stessa malattia di mio padre». Per anni aveva respirato amianto pure lei. Non era mai entrata nello stabilimento, ma le era bastato buttarsi al collo del coniuge quando rientrava a casa dal lavoro, scuotere i vestiti e la tuta con ancora addosso quelle maledette fibre prima di metterla in lavatrice. Giuseppa Vasalli è morta due anni fa, a 67 anni. La causa del decesso sul suo certificato di morte è uguale a quella del marito: insufficienza respiratoria. «È stato l'amianto» dice Domenico Mancuso. «Tutti i medici ci hanno detto la stessa cosa: è stato quel maledetto amianto». (Ha collaborato William Castro)

TRAGEDIA INFINITA

Storia di un bollettino di guerra

A Milazzo e dintorni, quando ne parlano, lasciano perdere gli eufemismi: la Sacelit è per tutti «la fabbrica della morte». Lo stabilimento di San Filippo del Mela, a pochi chilometri dalla città famosa per la raffineria e gli imbarcaderi che portano alle isole Eolie, viene inaugurato nel lontano 1958. Si produce materiale per l'edilizia e l'idraulica: tutto in amianto-cemento. Il primo caso di morte per tumore è del 1978. Qualche anno dopo comincia la crisi aziendale: i primi prepensionamenti sono del 1983. Nel giro di qualche anno resta appena una cinquantina di dipendenti. La chiusura definitiva dello stabilimento avviene però solo nel luglio del 1993, a un anno dalla legge che vieta la produzione e la commercializzazione dell'amianto in Italia.

Nello stabilimento di San Filippo del Mela hanno lavorato, nel corso del tempo, 212 persone. Gli ex operai morti per malattie direttamente collegabili all'amianto sono già 77. Mentre sono 119 quelli a cui l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale. Altri sei hanno però già avviato le pratiche per ottenere una rendita. Restano 10 persone: gli unici ex operai della Sacelit che, fino a oggi, l'amianto ha risparmiato. Dopo gli ultimi due decessi, nel 2003 la procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo contro quattro dirigenti dell'azienda.

IL CASO DI VOLLA

Morte in polvere

di Antonio Rossitto 12/3/2004

Vittorio Cimmino, 58 anni, aiutante tornitore alla Sacelit mostra la radiografia dei suoi polmoni malati. Gli ex operai di un'azienda in Campania accusano: 55 di noi su 227 sono stati uccisi dall'amianto. Panorama ha letto una perizia della procura di Napoli che ricostruisce una tragedia annunciata. Individuando responsabilità precise.

Basta che dopopranzo spunti un pallido sole. Un lieve tepore e loro arrivano alla spicciolata: qualcuno a piedi, altri a bordo di sgangherate utilitarie. Ogni pomeriggio si ritrovano lì dove si erano lasciati il giorno prima: davanti a una cartoleria della periferia di Volla, a pochi chilometri da Napoli. Hanno mani grosse e facce scavate. Siedono su un gradone di cemento a godersi il sole, oppure prendono a passeggiare avanti e indietro con le mani raccolte dietro la schiena. Non discutono di calcio e non commentano ogni passaggio di una bellezza locale. Parlano di una tragedia. Anzi di molte tragedie provocate dall'amianto. Parlano della Sacelit: la fabbrica in cui hanno lavorato una vita. Lo stabilimento, adesso diventato una fabbrica di mattoni, è alle loro spalle. Fra i capannoni sbuffa di continuo una nuvola di fumo bianco.

Tra gli ex operai i discorsi ormai si ripetono come una nenia: «Ve lo ricordate Sciusciù? Ve lo ricordate com'era diventato secco? Non ha manco capito di cosa è morto». Ricordano anche la data esatta: il 25 giugno 1993. Quel giorno Scognamillo Gennaro, classe '42, detto Sciusciù, ex addetto al reparto manutenzione tubi, viene fulminato a 51 anni da un mesotelioma pleurico, il tumore causato dall'amianto.

Da quel momento è cominciata la conta dei morti. Dieci anni dopo, sono già arrivati a 55. Tra carcinoma polmonare, mesotelioma e asbestosi, dei 227 dipendenti che lavoravano in fabbrica nel 1990, ne hanno contati 55. «Ma probabilmente i decessi sono molti di più» dice laconico Giacomo Montanino, l'ex assistente al carico che continua ad aggiornare l'elenco dei sopravvissuti. «In realtà, in totale, dipendenti ne sono passati più di 400. Ma di molti non abbiamo avuto più notizie. Reperire i dati è stato impossibile».

La Sacelit di Volla è nata nel 1964: ha prodotto materiale per l'idraulica e l'edilizia in cemento-amianto fino al 1992. Michele Sarnataro, 61 anni, fu uno dei primi assunti come operaio generico: «Negli anni Sessanta trattavamo l'amianto come fosse fieno. Lo lavoravamo con i forconi, lo sminuzzavamo con le mani. Senza che nessuno c'avesse detto mai niente». «Don Pietro» non gli fa nemmeno finire la frase: Paolo Antonio Sammarco, 55 anni, si alza dal gradone facendo leva sulla spalla di un ex collega. È alto e massiccio, ma si muove con difficoltà. «Quando le fibre si incastravano nell'imbuto che le portava all'impasto, mi facevano scendere per frantumarle a mano. Là sotto non si poteva neanche respirare. Io l'ho detto al capo fabbrica, ma lui mi ha trattato come un cane minacciando di licenziarmi. Ecco come lavoravamo». Adesso «Don Pietro» ha l'asbestosi: respira a fatica. Dai medici non ci va più: ha paura. Come Sarnataro: «Spesso ho dolore ai polmoni, ma controlli non me ne faccio. Ho visto crepare metà dei miei colleghi». Si batte una mano sul petto: «Non lo voglio sapere lo schifo che c'ho qua dentro. La notte, se ci penso, non posso dormire».

Ma c'è chi non può far finta di non sapere. Luca Cacace, 62 anni, era un tornitore di manicotti. Un tipo smilzo e sciupato, con la coppola blu sempre in testa. L'Inail gli ha riconosciuto l'asbestosi nel 1979. «Senza le pillole e gli spray non mi potrei nemmeno alzare dal letto. Quando cammino mi manca l'aria. Se parlo per più di due minuti, poi devo prendere fiato per cinque». Si fa avanti Vittorio Cimmino: sventola sotto il naso di tutti i suoi certificati dell'Inail. Anche lui malato. Pensa al fratello Vincenzo, ex operaio della Sacelit pure lui, morto di asbestosi, e gli sale il sangue alla testa. «Lo hanno assunto come invalido perché era zoppo. Doveva fare i lavori leggeri, ma ha sempre sgobbato come un mulo: prima alla disintegrazione, poi come tagliatore aggiunto, alla fine addirittura al carico e scarico. Gli ultimi tempi, tra i guai al piede e quelli ai polmoni, sembrava un zombi. Ma il pane lo doveva portare a casa: così lui continuava a faticare e loro se ne infischiavano».

Hanno la rabbia degli sconfitti gli ex dipendenti della Sacelit: «Eravamo povera gente, figli di contadini, il migliore di noi aveva la quinta elementare: non abbiamo capito niente fino a quando non è morto Sciusciù. E loro se ne sono approfittati». Ancora una volta, al di là delle drammatiche testimonianze raccolte da Panorama, la domanda è: si potevano evitare morti e malattie? Le condizioni in cui hanno lavorato per anni gli operai emergono dai documenti ufficiali: una perizia di circa dieci anni fa su 15 casi affidata a Massimo Menegozzo, docente di Medicina del lavoro all'università di Napoli. Panorama ne è entrato in possesso. L'incarico gli venne affidato dal sostituto procuratore di Napoli, Maria Cristina Ribera, che indagava sul rischio amianto nella Sacelit.

SICILIA, SI RIPARTE GRAZIE A PANORAMA

Parla Olindo Canali, il magistrato che indaga sul caso Sacelit

«Si tratta di materiale molto interessante»: Olindo Canali, sostituto procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, non si lascia sfuggire altro. Ma dopo aver letto l'articolo di Panorama sulla Sacelit di San Filippo del Mela ha chiesto di acquisire parte della documentazione pubblicata. Canali, infatti, è il titolare dell'inchiesta per omicidio colposo avviata contro quattro dirigenti dell'azienda siciliana. E quelle carte che il pm ha chiesto di vedere proverebbero che la società sapeva dei danni provocati dall'amianto già trent'anni fa: sono i resoconti di alcune visite mediche inviate dall'Istituto di medicina del lavoro di Bari alla direzione dell'azienda: già nel 1976, 16 dipendenti erano malati di asbestosi.

Che cosa cambia adesso? Questi nuovi elementi potrebbero avere un ruolo importante per il futuro del procedimento. Resta un fatto: quando si parla di amianto, le cose si complicano.

Perché? I problemi sono due. Il primo è stabilire il nesso di causalità: dimostrare che le omissioni degli amministratori non potevano che portare a quel risultato, cioè alle morti. Il secondo è la prevedibilità dell'evento: provare che gli imputati dovevano o potevano immaginare le conseguenze delle loro azioni.

Ma le famiglie delle vittime sono centinaia. Anche per me è un problema di coscienza: da cittadino vicende del genere mi inquietano, ma quando rimetto la toga devo constatare le difficoltà. Per il senso comune trovare i colpevoli è facile, per un magistrato no.

Tutti i processi penali sull'amianto sono quindi destinati a finire nel nulla? Penso proprio di no. La verità va cercata comunque. Ma il diritto ha delle ragioni che la ragione comune non accetta. La sentenza sul Petrolchimico di Marghera lo ha insegnato a tutti.

Menegozzo, nella sua relazione del 14 dicembre 1993, scrive: «La dimostrazione che nello stabilimento si sono determinate nel passato e nel presente condizioni di rischio significativo per esposizione ad asbesto è data da una serie di documenti». Si tratta dei resoconti di quattro sopralluoghi. Il primo è del '75. Quell'anno l'Istituto di medicina del lavoro dell'università di Bari rileva valori di amianto «generalmente superiori all'attuale normativa» con punte di sei fibre per centimetro cubo: tre volte il valore limite indicato all'epoca dalla Società italiana di medicina del lavoro. Nel 1986 la Medicina del lavoro dell'Università Cattolica di Roma conclude così la sua indagine ambientale: c'è stato «un peggioramento delle condizioni di rischio relativo alla lavorazione della preparazione miscela e finissaggio». La Nuova Sacelit, società del gruppo Italcementi, precisa: «Il coinvolgimento dei due istituti è stato promosso dall'azienda, con un accordo con il sindacato, nel 1974». «Grazie all'intesa», continua l'azienda «è stata ridotta di 40 volte la percentuale di fibre presente nell'ambiente di lavoro».

Ma torniamo ai controlli che costituiscono uno degli architravi della perizia di Menegozzo. Nel 1989, l'Usl 27 di Pomigliano d'Arco scopre «una serie diffusa di infrazioni», tra cui «i sistemi di aspirazione localizzata presenti solo in alcune postazioni», «carenze di ordine manutentivo» e fibre che ostruivano l'impianto di aspirazione. L'azienda sanitaria chiosa: «Concentrazioni superiori ai limiti consigliati dalla letteratura in materia». L'ultima informativa è dell'ispettorato del lavoro di Napoli nel 1992: «Carenti condizioni di pulizia», «indumenti di lavoro protettivi inadeguati», «inidonee maschere di protezione», «mancata informativa sul rischio ai lavoratori». Interpellata da Panorama, la Nuova Sacelit si è riservata di «fare ulteriori approfondimenti non appena avrà a disposizione la documentazione usata per l'inchiesta». Mentre rispetto all'articolo pubblicato la scorsa settimana sullo stabilimento di San Filippo del Mela Giampiero Pesenti, numero uno del gruppo, ha dichiarato: «Il testo contiene, in alcune sue parti, affermazioni non corrispondenti al vero».

La perizia, tuttavia, usa toni perentori sul comportamento della società. Parla anche dei medici di fabbrica: i cosiddetti «medici esperti». Sono loro quelli che dovrebbero prevenire il rischio di malattie fra gli operai e certificare tempestivamente la malattia professionale. «Questo non si è mai realizzato nei casi da noi periziati» sostiene Menegozzo. Gli interventi dei medici esperti sono stati infatti «intempestivi e non appropriati, con la conseguenza di prolungare le esposizioni nocive al rischio di asbesto con conseguente aggravamento del grado di inabilità derivato». Qualche esempio. A Carmine Castiello l'asbestosi viene certificata dall'Inail nel 1977: il medico della Sacelit la riconosce otto anni dopo. Giovanni Esposito ha atteso nove anni. Pasquale Rea, più o meno otto. E via discorrendo. C'è dell'altro: per 11 dei 15 lavoratori malati, i dottori della fabbrica «non hanno mai espresso un giudizio di inidoneità all'esposizione d'amianto». Gli operai cioè, sempre secondo Menegozzo, hanno continuato a lavorare in mansioni che comportavano gravi rischi per la loro salute. Qualche limite all'esposizione arrivò solo a partire dal 1990: misura considerata però dal perito «oggettivamente intempestiva».

Giudizi molto chiari: una base solida per l'avvio dell'inchiesta penale. Ma nel 1994 la perizia scompare. Quell'anno il procedimento viene trasferito da Napoli alla neocostituita procura di Nola. Menegozzo racconta: «Il suo smarrimento è ormai ufficiale». Il pm Maria Cristina Ribera conferma: «Io l'ho inviato. Poi non so che cosa sia successo». Morale: si comincia daccapo. Adesso una nuova indagine sulla Sacelit è in mano al sostituto procuratore di Nola, Giuseppe Cimarotta. Tutto è partito dalla denuncia del 2000 di tre vedove dell'amianto. Maria Immacolata Costabile è una di queste. Ha 60 anni, era sposata con Francesco Scognamiglio, ex operaio morto per l'asbestosi nel 1994. «Incontrai la vedova Dansica al cimitero: le tombe dei nostri mariti sono vicine» racconta. «Io le ho domandato: "Ma è possibile che non possiamo avere giustizia?". Così abbiamo deciso di dare tutte le carte ai magistrati». Se lo ricorda come fosse ieri il suo Francesco. «Di notte non riusciva a respirare. Così prendevamo due sedie a sdraio e due coperte e andavamo a dormire nel parco. Negli ultimi anni lo facevamo almeno due volte la settimana. Pure d'inverno. Solo all'aria aperta riusciva ad addormenarsi. Da lì si vedeva pure la Sacelit: stavamo là a guardare la fabbrica che lo stava uccidendo».

CALTANISSETTA, AVVIATI DUE PROCESSI

Per fare luce sulle morti sospette, costituito un nucleo speciale

Morti bianche, morti da amianto: c'è un elenco interminabile di «prognosi infauste», a Caltanissetta, provincia ad alto rischio ecologico anche per la presenza del Petrolchimico di Gela. Ci sono tante lacrime versate dai familiari di quelle decine di operai che, soprattutto nelle industrie di San Cataldo, hanno avuto per anni la disgrazia di lavorare l'amianto.

La procura del capoluogo ha così istituito un Gruppo ambiente che in poco tempo ha istruito due processi. Quello Amianto 1 è a carico degli ex dirigenti della Silca-Simac di San Cataldo, accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Imputati sono Attilio Pilato, Beniamino Maira, Alberto Malavasi, Carmela Rita Pilato e Giuseppe Abbate. Parte civile sono i familiari di otto dipendenti scomparsi e altri che si sono ammalati di asbestosi e tumori. Nel processo è coinvolto anche l'Inail, tecnicamente «responsabile civile» ma anche parte civile contro gli imputati: l'istituto è tenuto ad accertare l'esistenza della malattia professionale e normalmente anticipa gli indennizzi ai lavoratori. Per rivalersi contro i datori di lavoro, si è però costituito parte civile.

Il secondo rinvio a giudizio è stato disposto contro gli amministratori della Soilam Gfm, altra ditta di San Cataldo: è legato alla morte di un operaio, causata, secondo l'accusa, dalla polvere di amianto. Altri nove dipendenti accusano gravi lesioni polmonari. Imputati i fratelli imprenditori Salvatore e Giuseppe Marcerò e il figlio di quest'ultimo, Santo. Secondo il pm Filoni, non sono state rispettate le leggi in materia di tutela e sicurezza del personale. E solo quando sono stati denunciati i primi casi di malattie, l'azienda è corsa ai ripari.

Riccardo Arena

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