il manifesto - 01 Dicembre 2004

 URBANO STRIDE
Rivoluzione. Il fuoco e la tortura
Un giovane comunista italiano si trova in Brasile, coinvolto nella risposta guerrigliera al colpo di stato con cui il generale Castelo Branco mette fine alla democrazia, nel 1964. Aderisce all'Aln, il movimento comunista di guerriglia, partecipa alla Trilateral cubana, viene arrestato, fa molti mesi di carcere duro, finché il ministro Fanfani riesce a ottenerne il rimpatrio. Che fare di un rivoluzionario scomodo? Il Pci gli fa dirigere la libreria Rinascita
Nella lotta armata con Carlos Marighella e Joaquin Camara Ferrera, per sconfiggere i generali fascisti guidati dal dittatore Castelo Branco e costruire il comunismo in Brasile

ANDREA GAGLIARDI
Urbano Stride, 74 anni, inconfondibile accento fiorentino, ex direttore di Rinascita e comproprietario della libreria di via Veneto a Roma, è un uomo mite. Difficile scorgere nel signore dalle rughe gentili, con qualche difficoltà a mettere a fuoco le date del suo passato, la persona che faceva a botte con i fascisti in Italia e che in Brasile condivise il sogno dell'insurrezione comunista, sul modello cubano. Iscritto al Pci dal 1948, Urbano non appartiene, del resto, alla categoria dei professionisti della rivoluzione. Arriva in Brasile per caso, quasi per gioco (è l'inizio degli anni '60), attratto dalla voglia di viaggiare e di cambiar vita. Finisce per aderire alla guerriglia, e si ritrova ad essere torturato in carcere, nel Brasile dei militari, che nel 1964, con un colpo di stato appoggiato dagli Usa, si impadroniscono del potere. «Alcuni amici di San Paolo - racconta davanti a un bicchiere di vino, a due passi dalla sua libreria - mi invitarono a trasferirmi lì. Ci andai con mia moglie e un figlio piccolo. Avevo 28 anni e in Italia lavoravo nel settore alberghiero.

Un rifugio sicuro

Partii attratto dal clima effervescente che gli amici mi raccontavano. Non c'era una connotazione politica nel mio viaggio. Ero semplicemente stanco di Firenze». Eppure, in un paese in cui nel 1962 diventa presidente Joào Goulart, progressista, sostenitore di una parziale riforma agraria e della nazionalizzazione delle compagnie petrolifere, è difficile per Urbano non interessarsi alla politica. «Sono cresciuto praticamente senza genitori. La mia famiglia in Italia è stata il Pci. Era inevitabile, vista la mia formazione, entrare in contatto con il partito comunista brasiliano, che in quei tempi era illegale, pur avendo proprie sedi e un giornale». La riforma agraria di Goulart è limitata, ma la resistenza della borghesia brasiliana a qualsiasi ipotesi di cambiamento provoca un accentuarsi della crisi politica, fino al colpo di stato del 31 marzo 1964. Al potere sale il maresciallo Castelo Branco, sostenuto e finanziato dall'amministrazione Usa. Il Brasile inizia i suoi 20 anni di dittatura militare, caratterizzati da una rigida adesione all'ortodossia neoliberista e dalla sospensione delle libertà costituzionali. «Abitavo a San Paolo, dove gestivo due boutique di abbigliamento per signora. Producevamo capi artigianali. Quando ci fu il colpo di stato, alcuni dirigenti del partito individuarono in casa mia un rifugio sicuro. E così decisi di ospitare per un mese 4 persone. Tra loro c'era Joaquin Camara Ferrera, futuro vicecomandante dell'Aln (Alianza Libertadora Nacional), il movimento di guerriglia comunista al quale aderii anch'io». Non è una scelta priva di conseguenze. E' una sorta di banco di prova. A farne le spese è il matrimonio.

«Avevamo due bambini e mia moglie aveva paura. Non senza ragione. Penso a Mario Alves, segretario del Partito comunista do Brasil. Si uccise in carcere strappandosi le vene a morsi, dopo che i militari torturarono la moglie e i figli davanti ai suoi occhi.... Noi vivevamo in una villetta in una zona residenziale. Ogni volta che mia moglie sentiva una macchina passare o rallentare davanti casa, entrava nel panico. Iniziò così un contrasto che sfociò nella separazione. Era una donna di sinistra, iscritta al partito comunista. Ma credo che il nocciolo duro dell'ideologia si veda alla prova dei fatti. Per me era un dovere ospitare compagni super-ricercati. Non avevo paura, e certo non potevo buttarli fuori».

E' l'inizio di un impegno politico sempre più serrato e militante che implicherà anche il coinvolgimento in azioni armate. «Camara Ferrera mi propose di andare a Cuba. Ci restai per qualche mese. Era il gennaio 1966 e all'Avana si teneva la Conferenza di Solidarietà dei popoli di Asia, Africa e America Latina, la cosiddetta Tricontinental, nella quale uscì confermata la politica castrista di appoggio ai focolai di lotta armata rivoluzionaria, ovunque sorgessero». Intanto però nel 1967 in Brasile, con la presidenza del maresciallo Costa-Silva il regime si inasprisce ulteriormente. L'Atto Costituzionale V, promulgato nel dicembre 1968, sospende le residue libertà costituzionali. E' l'epoca in cui gli «squadroni della morte», scatenano il terrore nel paese, con ondate di arresti dei dissidenti e torture. Una situazione in cui, però, la ribellione fermenta. A sinistra del partito comunista nasce l'Aln, guidata da Carlos Marighella e Joaquin Camara Ferrera, sostenitori della lotta armata contro il regime e che cadranno entrambi assassinati in imboscate tra il 1969 e il 1970. E' un'opzione che il Partito comunista (Pc) non condivide, certo che in Brasile manchino le condizioni per il successo della guerriglia.

L'arresto di Dario Canale

«Tornato da Cuba a San Paolo, aderii all'Aln, senza che mi fosse chiesto di entrare in clandestinità. Condividevo l'appartamento con Dario Canale, un italo-brasiliano che aveva la rivoluzione nel sangue; un eroe morto suicida anni dopo le torture subite in carcere. Poi Joaquin Camara Ferrera mi trovò un lavoro in un albergo a Belem, e lì cominciai a fare proselitismo per l'Aln». A Belem arriva però la notizia che Dario Canale è stato arrestato a San Paolo. «Ero in pericolo, era chiaro. Stavo pensando di fuggire attraverso il Rio Amazzoni, e di andare forse in Bolivia, ma la mattina presto arrivò la polizia». Zona circondata e vie di fuga bloccate. Nessuna altra possibilità che arrendersi. «Avevo una pistola ma non opposi resistenza. Fui preso a pugni e calci, e, dopo tre giorni, messo su aereo e trasportato a San Paolo. Fui "spremuto" dalla polizia politica, il famigerato "Dops", e poi consegnato nelle mani della polizia dell'esercito. Era il 1967. Nessuno sapeva del mio arresto. Avrebbero potuto spararmi e farmi scomparire nel nulla».

Le torture sono una prassi rituale. Un assalto pianificato al corpo e all'anima. «Ero nello stesso edificio in cui fu rinchiuso Dario Canale. In caserma si respirava un anticomunismo feroce. Ci trattavano come fossimo dei criminali. E la tortura era il mezzo preferito per toglierci la dignità. Non sono morto suicida come Dario e tanti altri, ma le torture hanno agito a distanza su di me, causandomi una depressione profonda». E in un'epoca in cui ogni angolo della vita pubblica brasiliana è controllato da un qualche funzionario di Washington, non sorprende la supervisione Usa sulla gestione dei prigionieri politici. «Agli interrogatori della polizia partecipava sempre un agente della Cia. Non apriva bocca ma stava lì a controllare». Il mezzo di tortura più usato è il cosiddetto «trespolo del pappagallo» («legato a un palo, mi colpivano con scosse elettriche, senza pietà»), ma le torture sono anche psicologiche. «Una volta, per farmi parlare, dopo avermi obbligato a delle analisi, si inventarono che avevo sei mesi di vita per un tumore e mi promisero che se avessi raccontato tutto quello che sapevo, mi avrebbero rispedito in Italia per lasciarmi morire in pace a casa. Non gli credetti».

Impossibile, ad ogni modo, non aprire bocca durante gli interrogatori. «La consegna che avevamo era resistere 24 ore senza parlare. Poi la tecnica era tenersi sul vago, ammettere qualcosa senza fare nomi, senza coinvolgere nessuno. Ho saputo anni dopo, tornato in Italia, che negli archivi della polizia brasiliana, risultavo coinvolto in molte azioni di guerriglia, dall'attentato all'aeroporto al presidente Costa Silva, ai vari sequestri. Non era così. Ma certo, un ruolo lo avevo svolto all'interno dell'Aln».

I momenti più bui della prigionia risalgono soprattutto al primo periodo, quando la notizia dell'arresto non è ancora diventata di pubblico dominio. «Per ingannare il tempo e sfuggire alla depressione mi inventavo i passatempi più vari. Il preferito era ripercorrere, episodio dopo episodio, tutta la mia vita, ricordando una a una le donne che avevo avuto». Poi, dopo settimane di detenzione «clandestina» la notizia dell'arresto è ufficializzata. «Fu un sollievo. Non ero più un fantasma. Capii che ce l'avrei potuta fare quando seppi da un sergente che in Italia il Pci si stava mobilitando a nostro favore, presentando interrogazioni parlamentari e organizzando una manifestazione in piazza San Pietro per sollecitare la liberazione mia e di Dario Canale». La liberazione, dopo mesi di carcere duro, avviene alla vigilia di Natale del 1967. «Il ministro degli esteri dell'epoca, il democristiano Amintore Fanfani, su pressione del partito comunista, chiese al governo brasiliano, alla vigilia di una visita di stato, che i detenuti politici italiani fossero rimessi in libertà, minacciando, in caso contrario, di far saltare il viaggio. E il governo brasiliano acconsentì». L'ambasciata italiana non si distingue affatto nel perorare la causa dei prigionieri, anzi. «L'ambasciatore italiano era connivente con il regime. Imparammo a diffidare di lui. All'aeroporto di Rio, dove ci imbarcarono per l'Italia, l'ambasciatore portò un cappotto a me e a Dario. Era la vigilia di Natale e in caserma ci avevano preso tutti i vestiti, ma Canale rifiutò lo stesso, commentando così: "Preferisco morir di freddo che prendere un cappotto da un fascista come lei"».

Mancava un Gramsci

Una volta rientrato in Italia, Urbano Stride non è più tornato in Brasile. Una scelta, ma anche una necessità, perché un decreto di espulsione gli vieta ancora di farlo. «Seppi che mi contestarono la partecipazione a banda armata e la detenzione di armi da guerra. Certo, mi trovai coinvolto in prima persona in azioni militari. E non mi pento del passato. In Italia mi è rimasta appiccicata addosso però l'etichetta dell'"uomo d'armi". Eppure io, che poi sono diventato amico di terroristi di sinistra, come Laura Braghetti e di destra come Francesca Mambro, ho sempre giudicato assurda la lotta armata qui in Italia, dove, a differenza del Brasile, funzionavano tutte le garanzie costituzionali». Urbano non rinnega nulla, ma il giudizio che dà oggi di certe forme di lotta è duro. «Si rapinavano i supermercati per distribuire il cibo nelle favelas. Roba da Robin Hood. Un'assurdità. La verità è che mancavano i presupposti per il successo della rivoluzione. C'era un deficit di analisi politica. Mancava un Gramsci. Lo ho sempre pensato, ma laggiù subentrava la solidarietà fra compagni e non mi passò neanche per un attimo per la testa l'idea di dissociarmi».

L'impegno politico è continuato in Italia. «Tornai convinto di poter fare ancora qualcosa per il Brasile. Diventai una sorta di ambasciatore della sinistra brasiliana in Italia. Poi è subentrato un certo disincanto. Il Pci mi considerava un personaggio scomodo. Non sapeva che farsene di me. Fui messo a dirigere la libreria Rinascita per non nuocere, e anche lì penso di aver fatto un buon lavoro». Ora Urbano è stanco, ha voglia di riposo. Eppure non riesce proprio a fermarsi. E corre su e giù in motorino, in una giornata di pioggia, per organizzare nella sua libreria la «vita culturale» romana.