il manifesto - 27 Gennaio 2004
Quel triangolo rosso ad Auschwitz
27 gennaio 1945, si aprono i
cancelli di Auschwitz. La memoria inedita di una prigioniera
«politica», Ondina Peteani, catturata da una pattuglia tedesca
l'11 febbraio del 1944, quando aveva solo 19 anni. Ondina, che
aveva cominciato giovanissima l'attività antifascista, fu
deportata nel lager polacco nel marzo del `44 ma riuscì a
scappare durante il suo trasferimento forzato a
Ravensbruck
ONDINA
PETEANI
Si partì dunque il 31
maggio all'alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato
da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva aver ancora
qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata d'oltre
confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura;
almeno si respirava un po'. Talvolta si arrivava persino a
scambiare qualche parola con gli uomini (se la fermata era di
notte, cosicché nessuno ci avrebbe visto e messo nei guai gli
scortatori). In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli
uomini vennero staccati (ed inviati d Dachau) e noi
proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di
viaggio, vennero a chiudere i vagoni ed a sigillarli: si stava
arrivando nella zona dei Lager, controllata dalle SS. Se
durante il viaggio eravamo state abbastanza allegre (specie
noi più giovani) e chiacchierone, in quel momento diventammo
serie e cominciammo a parlarci sottovoce: davanti a noi
avevamo intravisto una desolata pianura sotto un cielo piatto,
appestata da un odore che noi attribuimmo alla bruciatura di
immondizie (!). Mentre il convoglio avanzava lentamente
cominciammo a vedere i primi Lager, arrampicandoci fino agli
alti finestrini del vagone. Durante il viaggio avevamo
intravisto prigionieri al lavoro sulle ferrovie ed erano
vestiti con la tipica «zebra» e vedendo nel campo vestiti
variopinti, pensammo che ci avrebbero lasciati i nostri. Per
giunta (era domenica pomeriggio) sentimmo un'orchestrina che
suonava e la cosa ci rallegrò alquanto: «Ragazze, si potrà
anche ballare».
Il nostro ottimismo crollò ben presto.
Appena arrivate alla stazione ci fecero discendere ed in un
primo tempo ci dissero di lasciare tutto nei vagoni, poi -
visto che non eravamo ebree - ci permisero di riprenderci la
nostra roba.
Sapemmo successivamente che l'avrebbero
catalogata e riposta, mentre per gli ebrei veniva subito
requisito tutto.
Poco prima era arrivato un treno di
ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i
vecchi e i non autosufficienti. C'era lì un camion e questi
venivano presi per le braccia e per le gambe e gettati sul
camion tra grida di dolore e orribili tonfi. Quello che ci
raggelò fu il vedere che questo tremendo compito era affidato
a dei prigionieri. Ci inquadrarono in fila per cinque ed io mi
sentivo un po' strana: avevo la sensazione che non ero io
quella cui stavano accadendo quelle cose, mi pareva di viverle
dall'esterno. E' una cosa difficile da comprendere e
spiegare.
Ci misero in fila per 5 e ci condussero
attraverso un intricato dedalo di stradine. Ai lati c'erano
montagnole di stampelle, di occhiali, di giocattoli ben divisi
secondo il senso dell'ordine teutonico. Poi, arrivate in una
baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di
farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente
bastonate che cominciarono a volare. Ci distribuirono dei
vestiti provvisori. A me toccò un pastrano da uomo con una
grande stella gialla e, mettendo le mani in tasca, trovai una
pipa con un borsellino di tabacco. Mi sentii rabbrividire pur
non conoscendo ancora la sorte del proprietario di quel
cappotto. Fummo costrette a lasciare lì la nostra roba. Ci
tolsero (a chi l'aveva) ogni monile, orologi, catenine ed
anche le fedi nuziali delle maritate.
Altro
attraversamento di posti strani che ora, vuoi per la distanza
nel tempo, vuoi per la sensazione di incubo che ci pervadeva,
non sono in condizioni di descrivere.
Ci introdussero
in una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di
liquido disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava
mettere i piedi prima di entrare. Ora mi suona così ironico
quel procedimento, come quello di raderci tutti i peli e di
rapare quelle che avevano qualche lendine di pidocchi, quando
poi nel campo imperversavano il tifo, la dissenteria, le
cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma
brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli
ancora pieni di sapone e così rimasero tutto il giorno perché
di acqua, fredda o calda che sia, neanche a parlarne. Poi,
sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi
arrivarono i vestiti. Erano vecchie vesti usate passate
all'autoclave senza lavarle, un paio di mutandoni a righine
(almeno quelli erano nuovi!) e un capo di biancheria che era a
volte una sottoveste, a volte una camicia da notte, a volte
una maglia (anche queste vecchie e usate). Infine un paio di
scarpe (sempre vecchie) o zoccoli.
Poi in un'altra
baracca per la «timbratura», cioè il tatuaggio del numero e la
consegna dello stesso numero che dovevamo cucire sulla manica
del vestito, assieme al triangolo, rosso per noi «politiche».
Il tutto con brevissime spiegazioni date in lingua tedesca o
polacca (quando la spiegazione non era solamente uno
spintone), se non capivi, dovevi comunque
arrangiarti.
Durante le ore di attesa, alcune
prigioniere che erano già da tempo nel lager, riuscirono a
parlarci brevemente dalle finestre e a chiederci notizie della
nostra città e della situazione in generale. Da loro
apprendemmo, in quei rapidi colloqui, l'abc della
sopravvivenza: imparare rapidamente il numero in lingua
tedesca e polacca; obbedire rapidamente, per non essere
violentemente pestate, agli ordini; non bere assolutamente
l'acqua del campo perché non era potabile, cioè infetta;
infine dell'esistenza dei crematori, del loro funzionamento,
di cui era proibito parlarne: dovevamo fingere di non sapere
niente.
(...) Incominciammo la giornata lavorativa
subito. Ci portarono in una parte del Lager dove c'era una
strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani e alte
affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre
dovevano spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La
kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo
rosso capimmo che era una prigioniera politica. E da lei ci
sentimmo sempre gridare forse degli insulti ma non bastonò mai
nessuna di noi, cosa che fece invece una sua aiutante, con
particolare accanimento, ma lei non interveniva mai in questi
casi. Dico questo per far capire che chi voleva sopravvivere
là dentro doveva indurirsi l'animo e non intervenire mai in
favore dei prigionieri. Eppure Monika (così si chiamava) aveva
mantenuto quel tanto di umanità per sfogarsi urlandoci
parolacce (forse lo faceva per farsi sentire dagli altri kapò
che era cattiva?) ma aveva cura che le prigioniere del suo «komando» ricevessero il
«Zulage» cioè un supplemento
settimanale di cibo per il lavoro pesante che consisteva in un
pezzo di pane e salame al giovedì.
A mezzogiorno
distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di zuppa
e dopo mezz'ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni,
dovemmo sorbirla senza posate. Dopo sapemmo che bisognava
«organizzarci». Ecco un termine usato molto là dentro: quello
che non avevi dovevi «organizzarlo», che poteva dire comprarlo
con il tuo pranzo o con un pezzo di pane, oppure, se riuscivi
potevi anche rubarlo, perciò quando riuscivi ad averlo, te lo
portavi addosso, ben legato anche a dormire. E legata alla
cintura dovevi tenere la tua ciotola, altrimenti addio tè al
mattino e zuppa a mezzogiorno! Nel Lager c'era di tutto,
dovevi comprarlo: sapone, potevi avere un vestito migliore,
pettine. Spazzolino da denti era troppo lussuoso. Potevi
compare forbicine, aghi, fazzoletti ed un sacco di altre cose,
ma allora saresti morta di fame, oppure bisognava cercare di
rubare.
Comunque tornando alla giornata in Lager, alle
cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla baracca
per l'ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino.
Era esasperante, affrante com'eravamo dal durissimo lavoro
della giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme
sull'attenti e guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci.
Finalmente anche questo finiva e poi c'era la cena: un pane
(quella specie di mattone tedesco) e circa 20 grammi di
margarina o di salame. Il pane era diviso in quattro parti
(più avanti il pane sarà per sei e verso la fine, per
otto).
Alla sera si riusciva ad avere qualche momento
libero. Si andava nelle altre baracche a cercare qualche
connazionale, si cercava di lavarsi un po' con quell'acqua
color ruggine, dato che al mattino bisognava far presto per
l'appello. La domenica pomeriggio era di riposo, se non
venivano a beccarti per qualche lavoro extra che naturalmente
non potevi rifiutare di fare.
(...) Ho avuto la
sventura di conoscere il «Revier» o infermeria. Vi sono stata
accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). C'era una
specie di accettazione e dentro c'era - fra le altre - una
dottoressa polacca che parlava italiano. Mi chiese se
conoscevo il motivo della febbre, se provenivo da zone
malariche, se avevo diarrea ed alle mie risposte negative optò
per una febbre di tipo reumatico (la più probabile, dato che
Auschwitz era stata costruita in una zona paludosa e quando
pioveva, non era un modo di dire lo sprofondare nel fango fino
alle ginocchia). Per il momento non c'era posto, ma aspettai
poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare
quel letto (ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola
neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi
diedero una polverina (un antipiretico?) e lì fui lasciata
fino all'indomani. Quando vennero le infermiere per misurarmi
la febbre approfittai di un loro momento di distrazione, per
vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a
36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro.
Ero terrorizzata all'idea di trascorrere ancora una notte in
quell'allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che
avevano poco di umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere
perché avevo sentito che spesso e volentieri lì dentro si
effettuavano vari esperimenti. (...) Ben presto dovemmo
abituarci a tutto e cercare solamente di sopravvivere. Da
parte mia continuavo ad avere quella sensazione che non ero io
a subire quella vita e mi continuavo a vedere dall'esterno.
Difatti non soffrivo, né inorridivo di quello che mano a mano
venivo a vedere e a sapere, l'orrore è venuto dopo, quando
ormai ero a casa.
Ricordo che un giorno fui prelevata
per andare a trainare la botte che trasportava le fognature
del «Revier». Bisognava andare a vuotarla sopra i letamai,
sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di prigionieri
che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo
portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei
italiani. Anche se ormai la loro età era indefinibile, si
capiva ancora che erano giovani ed io, fingendo di raccattare
il letame, mi avvicinai e chiesi stando bassa a quello che mi
era più vicino se erano italiani e da quanto tempo erano là.
Lui alzò la testa e guardò dalla mia parte, ma non me, il suo
sguardo andò oltre e non mi rispose. Dio, quella faccia! Era
ormai in fase terminale e dopo, quando ci allontanammo, mi
voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a
muoversi come spinti da forza d'inerzia e non sentivano più
neanche le bastonate. Non fui più destinata a quel lavoro, ma
sono certa che se fossi tornata dopo pochi giorni, avrei
trovato degli altri su quel letamaio.
Poi le infami
selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare ed il medico
(non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS) con
un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era
la fila da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si
davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come
inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di
qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro
scopo: era bestiame da macello, vi andava senza
protestare.
Talvolta alla sera c'era il «Lagersperrer»
cioè l'ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando
avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi
non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed
uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il
riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si
sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero campo di
zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di
questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c'è del razzismo
nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state
perseguitate e che fanno parte dell'olocausto.
(...)
Dopo poche settimane del nostro arrivo cominciò a farsi
sentire in modo cronico la fame fino al punto che eri già
disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a
ripulire i mastelli della zuppa. C'erano già i segni di
indebolimento in quelle compagne che erano meno forti;
cercavamo di sostenerci, infondendoci la certezza che ormai i
tedeschi erano prossimi a cedere e che tutto sarebbe finito
ben presto, ci esortavamo perciò a tener duro ancora per poco,
altrimenti c'era il pericolo di ridursi a larve come ne
vedevamo in giro: non avevano un etto di carne addosso,
camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena
udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non
potevano trattenere.
Forse mi ripeterò, ma anche qui
quando nell'autunno corse la voce che ci avrebbero trasferite
in un altro campo, ne fui contenta: peggio di così era
impossibile! Purtroppo non tutte partirono con noi e di loro
non ebbi più notizie.
Per il viaggio ci distribuirono i
vestiti a zebra, ben puliti e caldi (c'era rischio che per
strada qualcuno ci vedesse) che ci fecero regolarmente
restituire all'arrivo a Rawensbruck. Da qualche indiscrezione
sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz
perché il fronte sovietico stava avanzando e questo ci rese
anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi
l'infame portone con la scritta «Arbeit mach frei». Bene, mi
dissi, forse ora ce la faremo.