A
Fondotoce si ebbe l'esecuzione più massiccia di tutta la Val Grande. Le
vittime sono quasi tutte partigiani catturati nel corso di diversi,
asprissimi combattimenti: condotti a valle hanno attraversato le vie di
Malesco dove un certo numero di donne sfollate ha applaudito i militi di
scorta, e sono rinchiusi – stremati per la fatica, la fame, la sete -
nella cantina della scuola materna dove vengono "interrogati" (due vi
muoiono per le torture). In 41 vengono caricati su due camion e
trasportati a Intra, nelle cantine della Villa Caramora, occupata dal
comando delle SS. E’ il 20 giugno 1944. Altri pestaggi, al gruppo
vengono aggiunti un gappista del luogo e Cleonice Tommasetti, che da
Milano aveva cercato di raggiungere il suo uomo in montagna. Adesso il
totale è 43. Verso le 15 si prepara la fucilazione, si preparano anche i
soldati ("alcuni si tolsero la tuta mimetica.. qualcuno manovrò per prova
i congegni dell’arma… poi si diedero con fervore a riavviarsi i capelli,
guardandosi nello specchio… e avendo cura che la scriminatura segnasse una
impeccabile linea retta"), i prigionieri sono già schierati sulla riva, ma
qualcuno (un repubblichino?) ha un'idea migliore.  Compare un grande cartello con la scritta "Sono questi i
liberatori d’Italia, oppure sono i banditi?". Lo reggono due partigiani
che aprono il corteo, la Cleonice in mezzo sembra uno sbaglio, le scarpe
con i tacchi, il cappello, la borsetta. Vengono fatti sfilare a piedi
attraverso l’abitato di Intra, poi in camion fino a Pallanza, altra
sfilata, così poi a Suna, poi a Fondotoce. E’ una bel pomeriggio
d’estate, c’è l’ora legale (introdotta dall’inizio della guerra) ma le
strade sono deserte, le finestre chiuse, le imposte accostate. Qualcuno
scatta due fotografie, diventeranno famose. La parata dei condannati a
morte finisce in una spianata sabbiosa sul ciglio del canale che collega
il lago di Mergozzo al lago Maggiore: con calma, tre per volta, sparati
alla schiena. Il seguito lo lasciamo raccontare ad un abitante di
Fondotoce, Rinaldo D., che c’era ed ha vissuto in prima persona il
seguito. E ci sembra lo faccia molto bene.
"Il 20 giugno 1944, sono tornato dal lavoro (dallo
stabilimento Rhodiatoce di Verbania) alle 4, in bicicletta. Verso le 5
sono partito da San Giacomo, il gruppo di case di fronte al luogo dove
sarebbe avvenuta poi la fucilazione, per tornare in paese dal barbiere.
Arrivato alla crociera, ho visto il Gigi V., un mio amico, col suo cane
lupo, che mi ha invitato a bere una birra. Gli ho detto che ci sarei
andato di ritorno dal barbiere. Ma il barbiere, stranamente, era chiuso.
E' arrivato di corsa dopo un attimo, dicendomi Rinaldo, Rinaldo adesso
non posso, devo vedere come va a finire questa cosa. Intanto arrivava
una colonna di camion, sette o otto, coperti con i teloni. Anch'io ho
pensato che fossero tedeschi, ma credevo che andassero in stazione a
carica o scaricare qualcosa. Il barbiere li ha seguiti in bicicletta. Io
ho aspettato un po’, poi mi sono incamminato verso casa. Lungo la strada
ho sentito delle scariche, molto vicine. Saranno state le sei meno un
quarto. Prima di arrivare a casa ho trovato un posto di blocco dei
fascisti, c'erano fermi anche il tram e anche due o tre persone. Intanto
continuavano le scariche. Ci hanno tenuti lì, per un quarto d'ora, dopo
di che hanno tolto il blocco e ci hanno fatti passare. I camion erano
incolonnati davanti a casa mia. Lungo lo stradone di allora, rialzato
rispetto al piano delle case, c'era lo stradino, su cui viaggiavano i
pedoni. Io non ho guardato i camion fermi, avevo solo fretta di arrivare
a casa. Appena arrivato ho visto mia madre e mio padre, con una coppia
di vicini, che piangevano disperati. E dicevano soltanto, cos'è
successo, cos'è successo, indicando il canale. Allora sono sceso giù di
corsa in fondo al prato. A metà ho incontrato il Gigi V., quello che mi
aveva salutato in precedenza. Mi ha detto: Rinaldo, non andare, non
andare (lui è poi stato ucciso a Trarego, con quelli della volante
Cucciolo, li hanno trovati con i ricci delle castagne in bocca). Ho
visto quella carneficina, un mucchietto qui, un mucchietto là. Tutto
lungo il greto del canale, che allora era asciutto per la siccità. Si
vedeva solo il greto ghiaioso. Tra la gente che girava in mezzo a quei
corpi, c'era un tedesco che sparava a chi si muoveva ancora. E io ero lì
a guardare; mi sono reso conto solo in seguito del rischio che ho corso.
Poi quello se n'è andato e ha cominciato ad arrivare la gente. Tra i
primi, c'era proprio questo Pin Bulét (che poi è andato in montagna
anche lui) poi qualche altro. Non capivamo bene cosa era successo.
Vedevamo sparse delle coroncine del rosario, erano dei fucilati, non
delle donne. Quelle sono arrivate dopo. Mia mamma si è sempre ricordata
quel grido 'Viva l'Italia', di quei ragazzi. Qualcuno a squarciagola. Il
Pin Bulét, a un certo punto, mi ha detto che ce n'era uno che respirava
ancora. E infatti sono andato là a vedere e c'era questo tipo, che quasi
non vedevamo, riverso con la faccia sotto, dove arrivava il canale.
Forse quell'acqua lo ha aiutato a rinvenire. Aveva indosso come un
giubbotto, che ogni tanto si gonfiava, e poi tratteneva tutto. Eravamo
lì noi e qualche fascista della caserma. Il Pin mi ha detto fai stare
indietro la gente, tenetela lontana, non lasciate venire qui la gente. E
poi ha detto a quello vivo: scappa, scappa. Saranno state le sei e un
quarto. Questo qui ha fatto un salto, poi è risalito sull'altra riva. E
non l'abbiamo visto più. L'ho poi incontrato, il Quarantatrè; aveva le
braccia segnate dalle pallottole che lo avevano solo ferito. Aveva i
muscoli tutti tagliati. Altri avevano la faccia aperta come un imbuto,
tanto che non si vedevano i lineamenti. Erano stati fucilati alla
schiena. Pensa che il Pin Bulét aveva inciso su un ontano la data e una
tacca per ogni corpo che aveva contato. Allora è arrivata una fiumana di
gente, non so come abbiano fatto a saperlo così presto e così in tanti.
Per un'ora la gente ha continuato ad arrivare. Le teste erano tutte un
po’ rialzate. Il sangue gocciolava e formava dei pozzetti coagulati.
Verso le nove, mi sono deciso a tornare a casa. Arrivato sulla motta
dello stradone ho incontrato il dottor G., che era arrivato in
bicicletta da Suna. Mi ha detto: tus, vegn a jutamm. E' rimasto
impressionato. L'ho aiutato a contarli. Era difficile fare anche quello,
erano ammucchiati uno sull'altro. Siamo tornati che era notte. Io sono
poi tornato alla caserma dei fascisti per chiedere il lasciapassare per
la mattina successiva, dato che avrei dovuto prendere il tram presto per
andare a Como. Da Como sono tornato che era già notte, ed era già
iniziato il coprifuoco. Sceso dal tram sono stato fermato dai militi.
Passando davanti all'osteria della crociera ho sentito un gran movimento
venire di dentro. Erano tutti militari che facevano festa, e in mezzo a
loro c'era uno di Suna, il B. Il giorno dopo non sono andato a lavorare.
Si trattava di metterli nelle casse, quattro assi, niente di più.
Bisognava fare alla svelta prima che i tedeschi cambiassero idea. Così
hanno portato su quelle quarantatré casse e li hanno messi a posto. Poi
è stata scavata una fossa, lunga una ventina di metri, e li hanno
depositati in due file, una sopra l'altra. Da allora è stato un
pellegrinaggio continuo di parenti e di gente del posto, che portavano
fiori. Nel primo anniversario, il 20 giugno 1945, è stata organizzata
una commemorazione solenne. C'erano tutti i parenti di quelli
riconoscibili nella foto, e molti altri di chi era dato per scomparso e
non riconosciuto. Sul posto della fucilazione avevamo eretto una grande
croce di legno, avvolta in un paramento preso dalla chiesa. A
conclusione della cerimonia si è cominciato a riesumare le casse per
poter fare i riconoscimenti dei quarantadue. A guidare quel lavoro c'era
anche la signora T. del C. L. N. di Intra, con un paio di guanti lunghi
fino al gomito. Quelli che si riconoscevano nella fotografia sono stati
presto identificati. Per fortuna, tutti quei cadaveri erano mummificati.
Le sembianze erano riconoscibili. Per ognuno era preparata una bara
nuova. Il corpo veniva fatto scivolare sul lenzuolo e poi messo nella
cassa nuova. Per ogni corpo c'era una busta gialla, dove venivano messi
una ciocca di capelli, un lembo di un vestito. E sulla busta veniva
scritto il nome. Per quelli sconosciuto c'era un numero. La ventunesima
cassa della fila superiore era quella della donna, la Cleonice
Tommassetti. Lì vicino c'era una signora che diceva di essere venuta per
stare vicino alla donna, alla Cleonice, che era partita per la montagna
insieme a suo figlio. Ma per fortuna mio figlio è in Svizzera, diceva.
Lei ancora non lo sapeva, ma la cassa sotto quella della Cleonice era
quella di suo figlio. Lo ha riconosciuto da un lembo di una camicia. Una
delle ultime casse era piena di liquido. Il corpo sembrava perfettamente
conservato, addirittura sembrava vivo. Due donne che erano lì per i
riconoscimenti, hanno creduto di vedere un loro parente. Tel chi el
noster Franco, tel chi el noster Franco, l'è vivo. Ma quando hanno
spostato il corpo sul lenzuolo, il corpo si è subito scomposto. E quando
l'hanno spostato nella bara nuova, un piede si è staccato come se fosse
stata una bistecca. Si è andato avanti fino a notte fonda. Il mattino
successivo, chi voleva ha potuto portare via il corpo di un proprio
congiunto."
Carlo Suzzi si
chiama il sopravvissuto: colpito non gravemente durante la fucilazione dei
compagni, venne ferito di striscio quando, come di consueto, un ufficiale
passò fra i caduti per sparare il colpo di grazia a chi ancora respirava.
Soccorso, per quanto possibile, da un contadino, dopo qualche settimana
riprese la strada della montagna, assumendo come nome di battaglia
Quarantatré. Come tale è tuttora conosciuto in zona, ma da un po’ di anni
se n’è andato: attualmente vive in Tailandia e ogni anno manda un
telegramma alla celebrazione dell’anniversario dell’eccidio.
L’11 maggio
1945 il sindaco di Verbania, Andreani, scrive una lettera, indirizzata
anche "al capitano Mario [Muneghina] – Comando Patrioti. Per mercoledì 16
c. m. alle ore 15, presso il mio ufficio, questa Amministrazione
municipale ha in animo di provvedere a redigere l’atto comprovante nel
tempo avvenire il martirologio dei 43 di Fondotoce avvenuto da parte delle
SS germaniche. Nel contempo si cercherà anche di identificare
possibilmente le vittime del barbaro eccidio. Vi prego vivamente di voler
intervenire…".
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