Parma 1922

Scritto nel 1973 e trasmesso da Radio Rai per molti anni in occasione del 25 aprile, il radiodramma Parma 1922 è una delle tante escursioni stravaganti che Nanni Balestrini ha compiuto al di fuori dei confini della poesia e del romanzo. Il testo - finora inedito e frutto di un paziente lavoro di recupero e trascrizione - ricostruisce le cinque giornate di Parma dell'agosto 1922 quando i rioni popolari della città, organizzati da Guido Picelli e dagli Arditi del popolo, resistettero in armi erigendo barricate e sbarramenti alle incursioni delle camice nere di Italo Balbo. La resistenza antifascista della Parma proletaria durò fino al 5 agosto, quando le squadre fasciste, sconfitte, abbandonarono la città. Balestrini mette in scena i protagonisti di quegli eventi: Picelli, Balbo, il prefetto Fusco e soprattutto la voce anonima e corale della tradizione antifascista della città, senza venir meno ad una ricostruzione storica minuziosa, che assume veri e propri toni epici in equilibrio tra la passione civile e politica e la letteratura d'avventura.

Le nuove barricate

Memoria e attualità dell’antifascismo negli anni Settanta

Introduzione di Margherita Becchetti

La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi.

Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve

I. Alla stesura del radiodramma di Nanni Balestrini fa da sfondo uno scenario storico, sociale e politico molto complesso: sono i primi anni Settanta e manifestazioni, conflitti nelle fabbriche, stragi e attentati trovano quasi quotidianamente spazio sulle pagine dei rotocalchi italiani. È uno scenario dalle radici altrettanto complesse: da un lato le mobilitazioni studentesche e operaie del biennio 1968-69, dall’altro la «strategia della tensione», ovvero quella serie di attentati e altri crimini che, diffondendo panico e incertezza, avrebbero dovuto creare le condizioni per una svolta autoritaria; strategia che, con la bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, innescò un periodo di violenze tra i più oscuri e traumatici della storia dell’Italia repubblicana.

Rievocare questo contesto tormentato è indispensabile per comprendere il senso dell’operazione che Balestrini compie, in quegli anni, col recuperare un’esperienza storica come quella delle Barricate antifasciste di Parma del 1922.

La contestazione studentesca esplosa tra l’inverno e la primavera del 1968 – ma latente da almeno un triennio – si saldò presto con le lotte operaie dell’anno successivo e l’autunno caldo contribuì certamente ad accelerare la fuoriuscita del movimento dalle aule universitarie. Il clima politico era infuocato: quasi ogni giorno migliaia di studenti e operai in lotta scendevano nelle piazze italiane con una radicalità e una carica perturbatrice senza precedenti; dal canto loro, sindacati e partiti della sinistra storica facevano sempre più fatica a gestire quella conflittualità sociale che, nel frattempo, destava allarme nelle forze conservatrici e reazionarie del paese e in tutti coloro che erano pronti a intervenire nel caso di un «pericolo rosso».

Di lì a poco, proprio la strage di Milano sembrò essere l’espressione di un disegno destabilizzatore – volto alla creazione di un clima di tensione funzionale a reprimere qualsiasi tipo di conflitto – che vedeva coinvolti apparati dello Stato e gruppi dell’estrema destra. Fin dai primi mesi, quindi, essa fu percepita – soprattutto dai gruppi della nuova sinistra e dai giovani del movimento – come il tentativo, da parte dello Stato, di superare la crisi e di ricostruire, attraverso la repressione e le stragi, quegli equilibri di potere che le lotte avevano sconvolto non solo nella fabbrica e nella scuola ma nell’intera società.

Oggi, nonostante le innumerevoli difficoltà della vicenda giudiziaria, che per anni hanno disorientato la ricerca della verità, la tesi della «strage di Stato» come reazione al conflitto sociale del «biennio rosso» 1968-69 è ormai largamente condivisa anche in sede storiografica. 

II. Naturalmente, Piazza Fontana ebbe effetti profondamente conturbanti sull’intera società e irruppe come un fulmine nell’immaginario collettivo di tantissimi giovani studenti e operai, segnandone il percorso esistenziale e politico e ingigantendo il timore di un colpo di stato.

La collocazione della strage in area reazionaria e fascista trascinò con sé il recupero dell’antifascismo e della memoria resistenziale, non più solamente come valori etici e distintivi d’appartenenza ma, soprattutto, come nuova strategia politica, come nuova pratica di lotta, con la quale contrastare l’attivismo neofascista e la repressione poliziesca che la caccia alle streghe dopo Piazza Fontana tendeva a inasprire. L’antifascismo militante delle formazioni della nuova sinistra per non pochi si trasformò spesso in «militare», manifestandosi dapprima con i diversi volti della mobilitazione di massa e delle contestazioni ai comizi missini, poi anche con i «processi popolari», i servizi d’ordine, gli scontri con i militanti neofascisti, gli assalti alle sedi dell’estrema destra e altre forme di azione diretta. Sul terreno della violenza politica, quindi, la strage segnò una cesura, un salto di qualità: dalla violenza «difensiva» propria del movimento studentesco – scelta obbligata contro la durezza della repressione – a una violenza «offensiva», scelta consapevole e, secondo alcuni, necessaria per prevenire gli «eccidi di Stato» e per creare gli spazi di agibilità del movimento. La lotta doveva essere d’attacco e non più di semplice difesa della Costituzione, ai fascisti – complici necessari delle stragi – doveva essere negato ogni spazio politico. Anche su questo terreno si consumava il distacco tra l’antifascismo militante extraparlamentare e quello istituzionale dei partiti, per i quali la risposta allo stragismo e all’eversione dell’estrema destra doveva attuarsi sul piano della legalità, della «vigilanza democratica» e della competizione politica, nel quadro delle garanzie costituzionali. In un secondo tempo, poi, una divergenza destinata col tempo ad allargarsi si aprì all’interno della stessa nuova sinistra, tra chi metteva in primo piano la crescita della coscienza collettiva e la pratica della mobilitazione di massa e chi teorizzava e praticava l’azione diretta delle avanguardie.

Anche nella riscoperta della lotta partigiana lo iato tra nuova sinistra e sinistra storica si andava approfondendo: i giovani militanti riprendevano e reinterpretavano temi che erano stati propri di settori del Partito d’Azione e dei comunisti dissidenti, guardando alla Resistenza non solo, come accadeva in passato, come lotta di liberazione nazionale e fondamento della Repubblica democratica ma, soprattutto, come lotta di liberazione sociale interrotta, come lotta di classe, come rivoluzione tradita. La palingenesi sociale che la lotta partigiana avrebbe dovuto innescare era rimasta imbrigliata nelle maglie di una «continuità dello Stato» – e del blocco sociale che lo sosteneva – che sembrava ora riflettersi, con segno opposto, in un’altra continuità, quella tra Resistenza e movimento, come se quest’ultimo fosse chiamato a portare avanti l’opera lasciata sospesa dalla prima. Inoltre, soprattutto per effetto delle campagne di Lotta continua, sulla tesi della continuità si andava innescando e sostituendo la tesi della «fascistizzazione dello Stato» che assegnava nuovo vigore e urgenza all’impegno antifascista. Da questo punto di vista, le battaglie contro il «fanfascismo» e la lettura dei neofascisti come manovalanza prezzolata dalla classe dirigente democristiana non erano che corollari di un più generale rifiuto della cultura antifascista costituzionale e unitaria: emblematici, in questo senso, i numerosi slogan che associavano Dc e fascismo e che rivendicavano l’eredità resistenziale alla tradizione comunista, come «La Resistenza è rossa, non è democristiana» o «Via la Dc dai cortei antifascisti».

Altro corollario dell’antifascismo come pratica militante era il rifiuto della retorica resistenziale, di quel monolitismo celebrativo in cui l’ufficialità della memoria istituzionale aveva seppellito i germi conflittuali e antagonisti che la lotta partigiana portava profondamente inscritti nel proprio carattere originario. Il 25 aprile, per giovani e non giovani della nuova sinistra, cessava di essere la giornata della memoria oleografica e pacificata e diveniva invece occasione di lotta, spesso in relazione alle lotte internazionali e antimperialiste che, dal Vietnam al Cile, dalla Grecia alla Palestina, riportavano in auge, nella contrapposizione «guerra no, guerriglia sì», il modello dell’esperienza partigiana contro il nazifascismo.

Oltre alla memoria resistenziale, i militanti e le formazioni della nuova sinistra si confrontarono sovente con l’antifascismo del primo dopoguerra e con gli anni dal 1919 al 1922, rintracciando in essi più di una analogia con le dinamiche messe in moto dal Sessantotto. Esempio noto della diffusa rilettura di quella fase storica fu, senza dubbio, la messa in scena – da parte della Compagnia del Collettivo di Parma in collaborazione con Gianni Bosio – dell’occupazione delle fabbriche del 1920 nello spettacolo La grande paura. Ancora più indicativa, per il suo valore simbolico e di mobilitazione, fu la riproduzione, nella testata del quotidiano «Lotta Continua», dell’immagine di una barricata di Parma dell’agosto ’22. 

III. I molteplici raffronti possibili tra le due epoche storiche portarono i giovani antifascisti a identificarsi con quella memoria e a rinvenire, anche in quel passato, le proprie ragioni teorico-politiche: il parallelo tra destra eversiva e squadrismo fascista, da elemento di riflessione storica, si fece motivo immediato di mobilitazione politica, elemento di legittimazione per l’antifascismo militante e «militare». La dura reazione della classe dirigente e della destra radicale alle mobilitazioni studentesche e operaie del ’68-’69 ricordava, istintivamente, l’altrettanto dura repressione delle lotte contadine e operaie dell’altro «biennio rosso», quello del 1919-20, per mano degli squadristi tollerati dallo Stato liberale e appoggiati dalla borghesia padronale. Parallelamente, come nel primo dopoguerra la strategia riformista della sinistra era stata incapace di fermare l’involuzione reazionaria, così, in quei primi anni Settanta, l’appello alla legalità costituzionale della sinistra storica sembrava inefficace contro le aggressioni e le stragi. L’esperienza militare dell’arditismo popolare, quindi, veniva recuperata e valorizzata come l’unica forma di lotta e di difesa delle conquiste proletarie, in contrapposizione al «pacifismo» dei vertici riformisti. Anche su questo piano, profondo era il distacco dai partiti della sinistra, e in particolare dal Pci che tendeva a valorizzare l’aspetto unitario nella lotta alla violenza squadrista: da un lato, dunque, esso accusava di settarismo ed estremismo i gruppi della nuova sinistra, dall’altro interpretava l’esperienza degli Arditi del popolo quale prologo dell’unità d’azione dei partiti antifascisti tradizionali, prima nella lotta di Liberazione e ora nella difesa delle istituzioni repubblicane.

La rilettura militante degli eventi e dei protagonisti è ben rintracciabile nel testo di Balestrini, che nell’autunno ’69 era stato tra i fondatori di Potere operaio, gruppo che diverrà tra i più sensibili alla prospettiva insurrezionalista (anche se non necessariamente «militarista»), nato dalla fusione dell’area operaista veneto-emiliana, di parte del Movimento Studentesco Romano e di un gruppo di militanti milanesi, e che arriverà allo scioglimento alla fine del 1973.

Fin dalle primissime battute del testo, ad esempio, è chiara l’allusione alla connivenza tra gruppi della destra eversiva e settori dello Stato; emblematico, ma non certamente unico caso, è il dialogo d’apertura tra alcuni popolani sul significato e sulle sorti dello sciopero legalitario proclamato dall’Alleanza del lavoro:

primo uomo
Deve durare finché i fascisti non saranno disarmati, finché gli impediranno di fare i loro assalti e i loro assassinii.

quarto uomo
Ma chi glielo impedirà? A Ravenna sono stati anche i soldati a sparare sui lavoratori, e poi hanno arrestato duemila dei nostri.

secondo uomo
Ma dobbiamo far capire al governo che ci deve difendere.

quinto uomo
Ma se è proprio il governo che fa sparare su di noi dalle guardie. E lascia che i fascisti ci attacchino in tutta Italia senza muovere un dito.

Poco più avanti, un altro dialogo tra popolani in un’osteria dell’Oltretorrente mostra chiaramente come l’antifascismo militante e la pratica dei servizi d’ordine trovassero una loro conferma storica nell’esperienza paramilitare dell’arditismo:

terzo avventore
[…] è stato da allora che abbiamo sempre presidiato con le armi i nostri quartieri, sentinelle che si danno il cambio e vedette sui tetti, non è mai entrato più nessuno da allora, neanche la polizia senza il nostro permesso.

[…]

terzo avventore
Perché invece il popolo era tutto unito, come lo è adesso e come adesso non chiede che di battersi veramente contro il fascismo.

[…]

primo avventore
E così da un anno tutto il popolo si difende, da solo, qui, ma mica stando ad aspettare che i fascisti vengano a cercarci nelle nostre case, nelle sedi delle nostre organizzazioni, noi cerchiamo sempre di prevenire i loro attacchi, questa è la nostra tattica, cerchiamo sempre di colpirli prima ancora che si muovano.

secondo avventore
Poi naturalmente abbiamo le squadre che difendono le manifestazioni e le sedi operaie, anche nei paesi della campagna.

L’attendismo e il «pacifismo» dei dirigenti confederali, invece, sembrava somigliare molto al motto della «vigilanza democratica» con cui i partiti della sinistra, in particolare il Pci, esortavano al rifiuto delle provocazioni, finendo non molto lontano da quella teoria degli «opposti estremismi» cui le forze conservatrici facevano ricorso nel tentativo di togliere legittimità al movimento. Posizioni evidenti nel testo, ad esempio, in una discussione nella sede dell’Alleanza del lavoro :

primo uomo
Guarda che forse tu non ti sei reso conto bene cos’è questo sciopero, ma l’hai letto il proclama nazionale dell’Alleanza? Ecco qua: «Come solenne ammonimento al governo del paese perché venga posto fine a ogni azione violatrice delle civili libertà che devono trovare presidio e garanzia nell’imperio della legge», e poi, «nello svolgimento dello sciopero generale i lavoratori devono assolutamente astenersi dal compiere atti di violenza che tornerebbero a scapito della solennità della manifestazione e si presterebbero alla sicura speculazione degli avversari». Hai capito?

secondo uomo
E come non ho capito! Ma se i fascisti attaccano?

primo uomo
Dobbiamo respingere ogni provocazione e dobbiamo rifuggire dalla violenza, che è sempre una provocazione.

secondo uomo
Sì, certo! «Anche il silenzio e la viltà sono talvolta eroici», come ha detto un vostro socialista. Ma per fortuna qui i lavoratori ragionano diversamente!

terzo uomo
Questo è uno sciopero legalitario, noi esigiamo che lo Stato intervenga per difendere i nostri diritti contro l’illegalismo fascista!

secondo uomo
Andrebbe bene se il governo e lo Stato non fossero a pezzi e se non stessero già dando una mano ai fascisti per farli salire al potere! È in questa maniera qui che vogliono venirne fuori!

terzo uomo
Ma se si lasciasse fare a voi, al vostro Picelli e a quegli altri, qui ci sarebbero solo guai, mentre noi vogliamo la pace, come la vuole il popolo.

Anche la critica dura alla strategia politica del Pci che si avviava al compromesso storico, celata dietro il riformismo di Turati, è riconoscibile in filigrana:

Picelli
Dicono che i nostri inviti perché i lavoratori prendano le armi siano una provocazione, ma sono questi scioperi legalitari che sono una provocazione invece, sono semplicemente un invito perché i fascisti assalgano a colpo sicuro i lavoratori indifesi.

il romano
Ma lo sai, proprio il giorno che i fascisti occupavano Ravenna Turati è stato dal re, gli ha fatto capire che i socialisti son pronti ad appoggiare qualsiasi governo che non sia troppo di destra.

Picelli
E naturalmente vedono questo sciopero generale unicamente come un mezzo di pressione sulla crisi governativa, uno sciopero pacifico e legalitario, perché per andare al governo bisogna essere rispettosi dell’ordine e della Costituzione […].

I passi che meriterebbero di essere citati – a testimonianza di come, in questa sceneggiatura, gli anni Venti non siano altro che una rilettura emblematica degli anni Settanta – sono ancora molti. Come ultima nota, però, vale la pena riportare una battuta di Balbo che, parlando con il prefetto Fusco, così minacciava: «Se il Governo non si decide a intervenire per ristabilire l’ordine violato, dovranno pensarci i fascisti». Nello scrivere questa frase, Balestrini aveva forse ben presente altre inquietanti parole che, dal 4 giugno 1972, vibrarono un po’ in tutto il paese, quando Giorgio Almirante (allora impegnato a ricercare il consenso elettorale dei borghesi «in doppiopetto»), in un discorso a Firenze, disse che il Msi era pronto a «surrogare» lo Stato se il governo avesse continuato a venir meno alla sua funzione, invitando i giovani neofascisti allo «scontro fisico» con i militanti dell’estrema sinistra.

Riferimenti bibliografici

È piuttosto inconsueto corredare di apparati bibliografici l’introduzione a uno scritto ma, in questo caso, si è ritenuto di farlo per due ragioni: da un lato perché è parso utile fornire ai lettori indicazioni degli studi di ricerca storica relativi a questi temi; dall’altro perché la storiografia sull’Italia degli anni Settanta e sui movimenti – come pure lo studio dell’uso pubblico della storia e delle diverse forme assunte dalla memoria dell’antifascismo e della Resistenza – è ancora in gran parte in fieri e sono in molti a recare quotidianamente a essa il proprio contributo.

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