il manifesto - 05 Ottobre 2004 |
MEMORIE RIMOSSE
Il cappotto strappato di Aurora
Torturata dai fascisti per rivelare i rifugi
dei partigiani, dopo la liberazione restò vittima della
vergogna e delle maldicenze. E qui racconta com'è difficile
difendere la dignità
FILIPPO
COLOMBARA
Sono passato di primo
pomeriggio, la vecchia casa è ormai disabitata, erba e sterpaglie nel piccolo
cortile sono cresciute in fretta, anche il muschio è avanzato sulle mura
scrostate. Bene in evidenza, forse unica nota d'interesse, è un cartello con la
scritta «Vendesi». L'abitazione si trova in un borgo di collina nell'area dei
laghi a ridosso delle Alpi, località non troppo distante da Milano e appetibile
sul mercato immobiliare. In questa casa fino a poco tempo fa abitava «Aurora».
Quando la conobbi era sui settant'anni e, grazie a una decisiva mediazione, si
era resa disponibile a raccontare al mio registratore una vicenda importante
della sua vita che le avrebbe segnato il futuro.
«Ero dinamica -
racconta con voce inizialmente concitata, poi si calma - non avevo paura, ero
ottimista, non ero ancora pessimista, avevo anche ventiquattro anni». Durante
il conflitto la ragazza lavora come operaia in una fabbrica sul lago e dopo la
nascita della guerriglia, con il consenso del proprietario, si assenta
saltuariamente per svolgere il compito di staffetta del plotone comando di Cino
Moscatelli, leggendario commissario politico delle brigate Garibaldi.
Un
po' si schernisce nello spiegare le ragioni della sua scelta; il ragazzo di cui
è innamorata è entrato in un gruppo partigiano, lei non vuole essere da meno e
si offre di portare ordini e fornire informazioni. Non sono molti i giovani del
paese che salgono in montagna, anzi quelli abili sono internati in Germania o
nascosti nelle cascine e qualcuno si è arruolato nelle divisioni di Mussolini.
Forse per questi motivi la comunità è meno impermeabile alla delazione, sta di
fatto che gli spostamenti di Aurora sono notati e ben presto viene sospettata di
collaborare con la Resistenza.
Un giorno di febbraio del 1944 è
convocata presso il comando fascista di pianura. «Il tenente ha proibito di
farmi avvicinare al fuoco per scaldarmi e di darmi da mangiare, era cattivo. Lui
aveva lì anche una bella donna, giovanissima, aveva tutti i capelli bianchi, ma
bella, poi aveva un fare da brava, non so». L'ufficiale si allontana per
dirigere un'operazione di rastrellamento in montagna e un milite rimasto la
mette in guardia. «M'ha chiesto se avevo visto il divano che c'era su nella
stanza. `Sì ho visto il divano'. `E non hai visto quante macchie, stai attenta
perché quando vengono delle belle ragazze quello lì...'. M'ha detto che non
scherzava: `Te lo dico perché vedrai che ti farà la festa anche a te'».
Di nuovo arrestata
In
quell'occasione non succede nulla di grave, Aurora interrogata diverse volte è
alla fine rilasciata. Dopo poco tempo, tuttavia, viene nuovamente arrestata e
riportata dal medesimo ufficiale. «M'ha detto che io sapevo dove c'era il
magazzino delle armi, io non lo sapevo invece. E diceva: `Tu sei l'amante dei
partigiani!'. `L'amante dei partigiani? Come si permette di dire che sono
l'amante di qualcuno, io non sono stata l'amante di nessuno' e quasi piangevo. E
lui: `E' quello che vedremo'. 'Cosa vuol vedere?' [...] `Adesso vogliamo vedere
se non sei mai stata l'amante di nessuno'. `Cosa vuol vedere, provi a
toccarmi!'. Cerca di venire avanti e mi dice: `Tu mi devi dare la prova che non
sei mai stata di nessuno'. `A lei? - gh'ò dic' - guardi, se lei è
giusto come dice di essere, mandi a chiamare un medico che lei non conosce e lo
porti qua'. `Vediamo!'. `No, lei non ha niente da vedere'. Io mi sono ritirata
fino alla porta...». Aurora è fortunata, gli approcci del tenente sono
interrotti dal sopraggiungere di un milite. «E poi a lui c'è passato tutto e
non mi ha fatto niente...». Ma siamo solo all'inizio. «E' lunga la storia da
raccontare, adesso vengono le cose brutte...».
Di lì a poco, infatti,
quando i fascisti si installano in paese per effettuare un rastrellamento, viene
interrogata e poi rilasciata ma qualcuno del borgo fornisce informazioni
circostanziate e i fascisti si ripresentano a casa sua. Aurora sale in stanza da
letto, indossa il cappotto e cerca di distruggere le due carte d'identità false
che possedeva. «Tre mi seguono, quando arrivo a metà scale, io le avevo già
prese in mano ma hanno acceso la pila e hanno visto, le hanno trovate. `Questa
è una prova!'. Ho cercato di inventare un mucchio di storie... Mi volevano
morta e con quello che mi hanno fatto c'è mancato poco».
La situazione
a quel punto precipita e inizia il calvario della ragazza. Interrogata dai
tedeschi, non rivela nulla di significativo e alla loro partenza resta nelle
mani dei repubblichini. L'ufficiale, stizzito dalla mancanza di risultati,
sbotta: «'No, questa non ci voleva, prendetela, portatela fuori e fateci quello
che volete'. Gli altri mi hanno portata fuori e questo ancora: `Allora dov'è
`sto comando di Moscatelli?' e intanto uno arriva con un ferro rovente, `Non hai
mica niente da perdere, tu dicci dove si trova il comando di Moscatelli'. 'Io
vado al mattino a lavorare e vengo a casa alla sera, io non so niente'. Allora
uno è venuto lì m'ha strappato il paletot, m'ha strappato il vestito, m'ha
preso le mani e me le ha legate dietro la schiena e poi pam, con un nerbo e sono
caduta. M'ha rialzata, `Lo dici o non lo dici?'. `No, non ho niente da dire'.
Allora hanno preso una specie di pinza e mi hanno attorcigliato tutto il seno,
sono andata in terra non ho pianto ma ho sentito dei dolori, m'hanno rialzata,
mi hanno schiaffeggiata e poi l'ultima cosa che ricordo è che avevano un
cerchio così che hanno aperto e me l'hanno messo qua [in testa] e hanno stretto
forte forte, so io cosa ho sentito... poi non mi ricordo più niente... So che
quando ho ripreso i sensi ero dentro in una stanza e di fronte a me c'era una
porta e lì c'erano tutti i fascisti ancora ubriachi. Ventiquattro ore sono
stata senza riprendere i sensi, ero lì così, intontita. Si apre la porta e
sento uno che fa: `Ah, vigliacchi, voi non siete uomini siete bestie, cosa avete
fatto'. `Adesso la mandiamo su dai suoi ribelli che la rimettono in sesto'. Io
ho fatto così con la mano e ero piena di sangue, ho detto: `Per me è finita'...
Infatti da quel momento là per me...».
Cinque anni senza
parlare
Portata nel biellese, a Valle Mosso, con
altri ostaggi è in seguito incarcerata a Torino fino alla liberazione. Al
ritorno in paese: «Sono stata cinque anni senza parlare di cosa mi hanno fatto,
per la vergogna... che me ne hanno fatte di tutti i colori. C'era chi diceva:
'Chissà quella lì che è andata coi fascisti cosa le hanno fatto'».
Aurora
è riuscita a narrare con pacatezza i momenti tragici, offrendomi molti
particolari, a garanzia di verità. Poi riprende il tono concitato dell'inizio,
per la tensione che le provocano i ricordi successivi. «Io ho ripreso la vita
come prima ma non osavo a dire a lui [il fidanzato] che cosa mi avevano fatto.
Ero venuta a casa poco prima del 25 aprile, Moscatelli mi aveva fatta curare in
ospedale ma per fortuna non avevo niente... Sono stati tre mesi di carcere e per
tre mesi non ho visto mestruazioni... Sa, poteva essere successo qualunque cosa,
perché è stata un'esperienza ma di quelle terribili per me... Per me non c'è
stata una prima volta...». La voce incalza e prefigura i nuovi dolori che
l'attendono, in particolare l'incontro con il ragazzo del cuore. «E' stata una
esperienza terribile, come potevo presentarmi a quella persona lì?».
La
guerra è finita e anche la gente di collina vuole divertirsi, si organizzano
feste e balli all'aperto. Aurora partecipa accompagnata dal fratello ma teme di
incontrare il fidanzato, infatti: «Lui mi ha visto - mamma mia cosa ho provato,
mi sono sentita morire -, mi ha detto: `Ma cosa hai fatto? Sei venuta a casa e
non ti sei fatta viva? Le mie sorelle ti aspettano'. `Lasciami stare, lasciami
andare'». La vergogna che prova per quanto accadutole si tramuta in senso di
colpa. Torna a casa e riprende il lavoro, inconsapevole del nuovo dramma che si
sta per compiere. «Sono andata a lavorare e ho trovato un amico di lui che mi
dice: `Oh, che roba brutta neh, hai sentito che è morto?'. Io pensavo che era
morto il papà del mio fidanzato: `Pòar véc'. Allora `sto qui è
rimasto: `Ma no, è il tuo fidanzato che è morto'. `No, non è vero, no no'...
Non ero più io... Sono andata a casa sua e il padre e le sorelle piangevano:
`Pensa che aveva fatto il mobilio, a marzo andava a Roma poi veniva a casa e si
sposava'. Una sorella mi ha portato su a vederlo, ma io non osavo baciarlo e
allora lei mi dice: `Ma almeno un bacio lo puoi fare'. Il primo morto che ho
baciato, come baciare un pezzo di ghiaccio... Per me è stata finita...».
Aurora
è però una persona intelligente, temprata dall'esperienza, di quelle che a
fine intervista sanno riassumere e dare senso alla proprio biografia. «Sono
ricordi belli - ribadisce - anche se ci sono stati questi brutti. So le cose che
mi hanno fatto... Non importa, io sono contenta di quello che ho fatto. Dico che
la vita è una sola, però se dovesse succedere ancora lo farei ancora... Sì
sì». La donna sfoglia i libri sulla Resistenza che possiede, mi fa vedere una
fotografia del `45 che la ritrae sorridente in divisa garibaldina. «Ce ne ho
tanti di libri, io li so tutti a memoria... La gente del paese non ha mai saputo
niente di me, quelli che sanno sanno, adesso mi sfogo perché ormai sono alla
fine, ma sono stata cinque anni... Sono tornata poi alla vita normale, facevo
l'operaia dov'ero prima».
Non ho più rivisto Aurora e nonostante mi
avesse autorizzato a pubblicare la sua vicenda, non me la sono mai sentita di
farlo integralmente; è sempre problematico muoversi tra storia e memorie
private, tra desiderio di sapere e ricordi di forti emozioni.