AGAMENNONE: iL CRIMINE DA RIVENDICARE
di Adalberto Bonecchi
Splendida è la reggia degli atridi e preziosa la sua grande porta d'onore. Sul tetto, sola, la vedetta, che già da un anno scruta l'orizzonte, aspettando il segnale di fuoco che annunci il ritorno del sovrano: Agamennone, l'eroe da molti anni lontano, partito per combattere una guerra apparentemente interminabile.
E' triste il cuore della vedetta e piange la sorte di una casa che non ha più buoni reggenti. Ma, ecco, le sue amare elucubrazioni sono interrotte dallo scorgere una fiamma lontana, laggiù, sul monte Aracneo. E' giunto il momento tanto atteso: Troia è caduta e il signore presto ritornerà! La vedetta gli andrà incontro, gli prenderà la mano e la bacerà. La lingua, però, lei tacerà. Non dirà ciò che, se avessero voce, anche i muri della casa direbbero.
Eschilo è un ottimo interprete di sogni e, nella sua capacità di coglierne la sovradeterminazione, pare anticipare Freud. All'inizio dell'Agamennone, il coro racconta questo sogno: "apparve il re degli uccelli ai re delle navi. Due aquile erano, la nera e la bianca. Apparvero presso la reggia, dalla parte del braccio che vibra la lancia. Spiccavano in alto nelle lor sedi aeree e divoravano una lepre femmina, gonfia del suo peso di figli, ghermita nell'ultima corsa". Si tratta del famoso sogno della lepre gravida, a cui Calcante fornisce una spiegazione polisemantica. La lepre, infatti, sta a rappresentare sia i bambini del cannibalesco pasto di Tieste, il sacrificio di Ifigenia e l'empia distruzione di Troia, le tre colpe degli Atridi, qui rappresentati dalle due aquile. Ma Agamennone e Menelao poco prima erano stati paragonati ad avvoltoi, che volando bassi e cibandosi di cadaveri possono solo essere considerati parodie di aquile.
In questa carrellata onirica, che ripercorre le colpe della casa di Atreo e un abbozzo della "psicologia" dei due re, vengono gettate le basi per tutto il dramma che percorre non solo l'Agamennone, ma addirittura l'intera trilogia dell'Orestea. Vi è ambiguità nel sogno: al culmine dell'atto di forza, vi è anche il segno che annuncia la sconfitta. Hanno troppo osato gli Atridi, la cui tracotanza si rivolgerà loro contro.
Il coro degli anziani ci ammonisce: dovunque sia ora il destino, per tutti è segnato e già volge a suo compimento. E ripercorrono la sosta forzosa degli Achei, sul lido di Aulide, ove Calcante pronunziò la orrida sentenza, che pose Agamennone innanzi alla terribile scelta: o tradire l'alleanza e rimanere inutilmente bloccato sulla spiaggia, o sgozzare la figlia vergine, l'inconsapevole Ifigenia.
Non poté che immergere il collo nel collare della necessità, il discendente di Atreo, e sacrificò la figlia. Che possono ora dire gli anziani di Argo, se non presagire che nuove disgrazie colpiranno una casa già tanto devastata? Ma che disgrazie? Il futuro, infatti, solo dopo che è accaduto lo puoi conoscere: prima segue il suo corso.
Noi siamo abituati a viverci come soggetti non determinati culturalmente. E' questa la percezione ingenua che solitamente abbiamo di noi stessi. Anche il filosofo più smaliziato o lo psicanalista più diffidente o il moralista più sottile nel momento di difficoltà e di sofferenza -quando l'azione è irrinunciabile, ma pare che qualunque decisione si prenda si commetterà un errore- non riescono a cogliersi immediatamente nella loro dipendenza storica e culturale. E' come se qualcosa in noi protestasse furiosamente e affermasse che un conto è la teoria, un conto il dramma che stiamo vivendo e che ci appare oggettivo, astorico e aculturale. Così facendo, in un attimo perdiamo tutto il nostro sapere -ben impotente, a quanto pare- e condividiamo l'errore grossolano dello stolto, che non vede come la propria gioia e la propria sofferenza, il proprio dubbio o la propria determinazione dipendano dal campo di pensabilità in cui siamo collocati.
Poniamoci una questione. Questa "ignoranza", che deborda nel momento in cui invece la saggezza sarebbe più che necessaria- è di fatto ineliminabile, o non dipende forse piuttosto solo da un mediocre e insufficiente lavoro su noi stessi? Ho ancora nelle orecchie la drammatica testimonianza di un collega -che ci sono tutti gli elementi per ritenere un ottimo psicanalista- che mi disse angosciato: noi conosciamo le componenti della mappa psichica e possiamo veramente aiutare gli altri, ma quando siamo coinvolti noi stessi, in prima persona, nel dramma, allora siamo impotenti, perché il nostro sapere ci è totalmente inutile! Io non credo che ciò sia del tutto vero, perché penso che in fondo uno psicoterapeuta -e ancor di più uno psicanalista- debba aver fatto una scommessa esistenziale di fondo e aver fede -non nel senso dell'illusione, ma della fiducia- che il suo sapere possa risultare efficace anche per lui stesso. Se infatti un filosofo si occupa di idee, ma non del loro rapporto con chi le pensa, e un moralista della virtù, ma non del suo rapporto con chi la dovrebbe vivere, uno psicanalista si occupa proprio del nodo tra pensiero, soggetto e azione. Non si occupa dunque né delle idee né del bene in astratto, perché sa che in gioco vi è sempre anche il soggetto.
Solo se noi riconosciamo con carne e ossa la relatività delle nostre idee, anche di quelle morali, esse possono risultare utili; altrimenti, queste idee saranno nella migliore delle ipotesi inefficaci, mentre nella peggiore produrranno addirittura azioni devastanti sul piano individuale e collettivo. Questa relatività non dipende, però, da un relativismo soggettivo, ma dal campo di pensabilità in cui ci troviamo.
Come Atena può fermare l'irato Achille? Certo non solo con l'imposizione, ché essa ben poco potrebbe per l'eroe che si vede sottratta la preda di guerra. No, ci vuole qualcosa che egli possa intendere, qualcosa che per lui sia "pensabile": "tre volte tanto splendidi doni a te s'offriranno un giorno per questa violenza: trattieniti, dunque, e obbedisci." (Il., I, 213 sg.). E' questa , in ordine storico, la prima massima morale della letteratura greca e quindi risulta di fondamentale importanza nella nostra cultura: non compiere il male, perché evitandolo te ne deriverà un bene ancora maggiore. Con Achille non avrebbero funzionato argomentazioni che si sono diffuse più tardi: la felicità interiore di Socrate, la vita ultraterrena della morale retributiva, l'amore per il prossimo di Cristo, la nonviolenza di ispirazione orientale. Con lui ci vuole invece qualcosa che egli possa intendere non in quanto singolo individuo, ma come uomo della sua epoca: si può ben rinunciare a Briseide, per un bottino di guerra ancor più ricco...
La morale inizialmente è sempre negativa, mai positiva: indica le azioni da cui astenersi, non quelle da compiere. Questo suo momento inaugurale persiste in seguito come nucleo forte, anzi spesso gli insegnamenti etici anche avanzati si confondono con esso. Pare quasi che non compiere il male più grossolano già sia considerato un risultato notevole. Forse perché tanto potente incombe il destino.
Il coro lo sa: nella reggia di Agamennone, vorticosa tumultua la danza di un destino infallibile. C'è un'impressione di onestà intellettuale e di pulizia morale, nel modo in cui i Greci, accorgendosi con Eschilo della responsabilità individuale, affrontano il problema della retribuzione. Non hanno bisogno di credere in vite ultraterrene, per riconoscere che violenza chiama violenza e che chi ha colpito a morte a sua volta cadrà sotto i colpi di un destino inevitabile: l'orrendo banchetto di Atreo, il sacrificio di Ifigenia, l'assassinio di Agamennone, la vendetta di Oreste sulla madre Clitemnestra, la spietatezza delle Erinni... Non è possibile sfuggire, già qui in questa vita, al processo che la propria violenza ha messo in moto. Si tratta di una logica retributiva ferrea, a cui non ci si può sottrarre. Se prima di Eschilo era ancora possibile vivere come provenienti da un dio i propri moti interiori -che non essendo riconosciuti, non potevano nemmeno essere definiti tali- con il sorgere della tragedia vi è un primo barlume del riconoscimento della propria adesione all'azione, sebbene a fianco di un castello mitologico che continua a persistere. Le tragedie di Eschilo ci colpiscono dunque per questo: non vi è più semplicemente l'azione degli dèi, che paiono quasi giocare con il destino umano, come ad esempio emerge da ogni capitolo dell'Iliade, ma non vi è nemmeno l'uomo lasciato completamente solo e in balìa delle proprie azioni.
Lo vede Cassandra, la vergine che da Apollo ha avuto il dono della profezia: sente la disgrazia che aleggia nella casa degli Atridi. Non solo ode le grida di piccoli bimbi che piangono, prima di essere sgozzati e offerti come carni cotte e imbandite al padre Tieste, ma ha una visione della moglie traditrice che nel bagno ingannevole colpisce l'eroe e marito appena tornato. Per chi sa leggere, il destino è lì, ben presente: non c'è nemmeno più bisogno di parlare per enigmi.
Ma anche Cassandra ha potuto compiere la propria scelta "individuale". Apollo la voleva, di quell'amore che genera figli, e lei promise, ma mentì, costruendosi così il proprio destino. La collera di Apollo la colpì con la maledizione peggiore che può abbattersi su un indovino: nessuno le avrebbe più creduto. Neppure i suoi concittadini, i Troiani, a cui aveva predetto, inascoltata, la caduta della città. Ora dunque sta andando verso il compiersi del suo destino, Cassandra, sta per perire sotto i colpi della scure assassina, ma è questo un destino che si è costruita con la propria menzogna. Non è più, come un eroe dell'Iliade o in misura minore il divino Odisseo, un fantoccio nelle mani dei numi. No, ha piuttosto fatto una scelta, di cui ora paga dolorosamente le conseguenze.
Cassandra dunque, innanzi a un corifeo esterefatto, annuncia gli eventi futuri: Clitemnestra sta meditando la vendetta e preparando l'azione assassina contro Agamennone. E aggiunge: tanto ella osa!, quasi a sottolineare la forza individuale. Non c'è qui, a differenza che in tanti passi dell'Iliade o dell'Odissea, un dio che prende le sembianze umane per portare all'azione autodistruttrice un odiato mortale o che con i suoi poteri superiori determina il corso della vicenda. Qui è Clitemnestra che osa: femmina uomo uccide. Proprio lei, apparentemente ai nostri occhi, per sua volontà.
La tragedia per i Greci non era semplicemente un piacevole spettacolo, ma veniva sperimentata come un rito, perché in essa trovavano una nuova coscienza o, forse sarebbe meglio dire, vivevano per la prima volta una nuova autocoscienza: se con i lirici, pensiamo a Saffo, era emersa la percezione dell'individualità, ora è un primo abbozzo di coscienza di sé, del proprio mondo interiore e della possibilità di determinare il corso degli eventi che prende corpo. Il destino, evidentemente, esiste ancora, ma è in parte costruito con le proprie mani: è già in qualche modo simile alla legge del karma, insegnata quasi contemporaneamente dal Buddha. La contraddizione è solo apparente: esso appare così inevitabile solo perché dipende almeno in qualche misura dalla forza delle proprie azioni.
Ciò che deve accadere accadrà, ammonisce Cassandra. Ecco la nuova verità: le mie azioni sono tanto potenti da mettere in moto un meccanismo a cui nemmeno io mi posso sottrarre! E s'intrecciano con le azioni degli altri, creando una rete inestricabile che imprigiona i nuovi soggetti, dopo che hanno appena intuito un briciolo di "libertà" nel proprio agire...
Si può comprendere Aristofane, anche se la sua tesi non è condivisibile, quando nelle Rane demolisce Euripide e prova nostalgia per Eschilo, poiché la nuova tragedia, in cui l'individualità è spinta alle estreme conseguenze, come nella Medea, pare corrompere i giovani, allontanandoli dalle certezze del passato. Ciò che egli, forse per spirito polemico, non coglie è che già con Eschilo il vecchio mondo aveva iniziato a scricchiolare e gli individui iniziavano a sviluppare la coscienza di sé, costruendo a fianco di un ordine divino un nuovo ordine umano.
E' raggiante Clitemnestra, dopo che la scure ha colpito lo sposo e la sua schiava: a questo gesto da molto tempo pensava e ora resta sul luogo del delitto, compiaciuta, a narrare anche i più piccoli dettagli del gesto voluto, premeditato e compiuto con consapevolezza. Persino del fiotto di sangue narra, che la irrorò come un piacevole spruzzo di rugiada. Ne gioisce la donna, addirittura se ne gloria, innanzi agli anziani di Argo. Non si preoccupa delle loro reazioni: fosse per lei, brinderebbe e consumerebbe libagioni sul cadavere! Agamennone ha pagato per i suoi misfatti, non c'è nulla di cui pentirsi, ma solo gioia per la giustizia compiuta. Tacciano dunque gli anziani, che non misero al bando Agamennone, dopo il sacrificio della figlia! Perché Clitemnestra non accetta il giudizio degli uomini, si sente vendicatrice, lei che ha immolato lo sposo alle Erinni. E l'uccisione di Cassandra, condottale spudoratamente in casa, non fa che aggiungere un più gustoso sapore al banchetto dei suoi piaceri...
L'Agamennone, così come tante altre tragedie greche, ravviva in noi una visceralità che credevamo assopita o addirittura estinta e di cui oggi troviamo un'eco solo in alcuni fatti di cronaca, che non a torto vengono definiti "incredibili", cioè difficili addirittura da rappresentarci. Questo però dipende solo dalla nostra frigidità emotiva, che dopo duemila anni di buoni propositi nemmeno riconosce più le nostre componenti più profonde. Quanti, ad esempio, potrebbero veramente ammettere di essere stati tanto colpiti da un torto subito, che potrebbero commettere efferati omicidi? Quanti sono sufficientemente in sintonia con il proprio mondo interiore e hanno familiarità con esso? Quanti veramente comprendono che conoscere questo mondo è l'unica via per non soccombervi?
Noi oggi innanzi a Clitemnestra e alla sua ebbrezza proviamo un orrore forte come quello del corifeo, ma per motivi opposti: se infatti egli resta sgomento innanzi alla nuova determinazione individuale che si intreccia con il piano divino -com'è lontana la moderazione di Odisseo, che invitava a non gioire per la vendetta sui Proci!- noi restiamo colpiti dal vedere come siano deboli le nostre briglie morali: non sono la violenza e l'autocompiacimento di Clitemnestra ha lasciarci esterefatti e impauriti, quanto il nostro mondo interiore "tragico", su cui abbiamo semplicemente sparso una leggera patina di buonismo. Il quale, tra l'altro, non è certo riuscito ad estirpare la violenza, collettiva o privata, dal mondo, ma anzi spesso, impedendo di riconoscerla, l'ha rinforzata.
Una morale è valida sino a che tiene conto del sapere del suo tempo. Ad esempio, la nostra morale sessuale è desueta. O meglio, forse viviamo schizzati tra ciò che sappiamo sulla natura umana e tutta una serie di vecchi pregiudizi falsi, ma tuttora all'opera nei comportamenti e nelle coscienze di molti individui. Mi capita spesso di incontrare pazienti che paiono usciti dai più bui anni '50: è come se il sapere psicanalitico -la cui vulgata è ormai diffusa- fosse passato loro di fianco senza toccarli, così come la cosiddetta "rivoluzione sessuale" degli anni '60, le preoccupazioni sociali degli anni '70 e persino il fasullo edonismo di latta degli anni '80. Anche la confusione di questi anni, potenzialmente gravida di fondamentali cambiamenti, pare non riguardarli. Essi vivono ancora paure e inibizioni sessuali -motivate a volte sul piano "teorico" da un approccio religioso di retroguardia- che consuma tutte le loro energie: assomigliano a certi soldati giapponesi dell'ultima guerra, che ogni tanto venivano scoperti su qualche isolotto del Pacifico mentre, con le armi ancora in pugno, credevano di combattere una guerra decisiva, che invece era da tempo terminata.
Sul versante opposto, vi è chi, anche per un fraintendimento degli insegnamenti psicanalitici nel campo della sessualità, "agisce" il proprio corpo, senza tenere conto delle coordinate simboliche, sociali ed etiche in cui esso è inserito. In questi casi, è come se venisse trascurata radicalmente la tradizione, con cui si sono recisi tutti i contatti. Da ciò nasce il senso di profondo isolamento, di disperazione viscerale e di solitudine cosmica, perché è venuta a mancare la propria storia, di cui l'etica è una componente fondamentale, al punto che ci si sente completamente sradicati. Un paziente mi esprimeva molto precisamente questa sensazione con una frase semplice, ma drammatica: è come se il sistema fosse da una parte e io dall'altra... E' il trionfo del nichilismo.
Non c'è invece nichilismo, nel tragico dialogo che si svolge tra Clitemnestra e il corifeo, dopo l'uccisione di Agamennone. C'è un demone, dice la donna, che per tre volte si ingrassa nel sangue degli Atridi, alludendo probabilmente al pasto di Tieste, all'omicidio appena compiuto e alla propria morte per mano del figlio Oreste. Il corifeo le risponde, oscillando tra la vecchia convinzione che tutto muove da Zeus e che nulla si compie tra gli uomini senza il suo volere e un nuovo senso di responsabilità individuale, che non è precedentemente rintracciabile nel pensiero greco. Infatti, piangendo sul cadavere di Agamennone, egli subito afferma che mano di donna lo ha vinto. E quando Clitemnestra tenta di sottrarsi alla propria responsabilità, sostenendo di avere solo le sembianze della moglie del re, mentre di fatto ella è l'antico demone vendicatore di Atreo, il corifeo incalza implacabile: tu incolpevole di questo assassinio? E chi mai e come potrà farti testimonianza? Al massimo, questo demone che viene dai padri può essere stato tuo complice! Non è più possibile nascondersi dietro a un demone o a un dio: l'individuo è ora responsabile personalmente delle proprie azioni e nessuno potrà testimoniare a suo favore, se egli si proclama "posseduto". L'affermazione tradizionale che tutto muove da Zeus in poche battute viene complicata, introducendo la dimensione dell'adesione individuale alle proprie azioni. Da ciò nasce il senso della tragedia.
In queste pagine fondanti per il pensiero occidentale, si annodano la legge di causa ed effetto e la "libertà" individuale. Clitemnestra è contemporaneamente la mano della giustizia che ripaga con la stessa moneta lo sposo Agamennone, l'assassino della figlia, e colei che assume, sia pure ancora confusamente, le proprie responsabilità: io l'ho ucciso, io lo seppellirò. In questa tragedia, come nelle due successive dell'Orestea, esplode il conflitto, che ancora viviamo, tra un destino ineluttabile e il nostro contributo individuale a esso. Il corifeo intuisce i rischi di questa nuova consapevolezza e afferma che è difficile giudicare. Chi uccide è ucciso: finché rimane saldo Zeus, anche rimane saldo che chi ha fatto patire patisca. Questa è la legge. Questo, potremmo aggiungere con altra terminologia, è il karma. Anche se questo termine rinvia a una sorta di "legge naturale" di cui non c'è legislatore: si tratta, in questo caso, di una morale atea, che permette di non cadere nel nichilismo etico ed esistenziale anche dopo la morte di Zeus.
Da questa nuova coscienza sorge anche la possibilità che in futuro le cose cambino. Lo intuisce Clitemnestra, che decide di venire a patti con il demone e rassegnarsi al male presente, anche se duro. Si accontenterà di una parte minima dei beni della casa, purché possa scacciare questa follia di consanguinei, che l'un l'altro si uccidono. Come sappiamo, questo non sarà sufficiente, perché il figlio Oreste abbatterà su di lei la mano, vittima di una sorta di doppia morale filiale, che gli impone di vendicare il padre e rispettare la madre.
Vi è interdipendenza continua in Eschilo tra mondo degli dèi e mondo dei mortali. Questa interdipendenza, che agli occhi ingenui potrebbe sembrare oggi incomprensibile, risulta invece di grande attualità. Consideriamo ad esempio il sacrificio di Ifigenia. Certamente Agamennone compie l'assassinio della figlia, per rendere favorevoli i venti, sotto l'indicazione di Artemide comunicatagli da Calcante: in questo, egli non può evitare l'opera di distruzione di Troia voluta da Zeus. Su questo piano, il re argivo pare non avere scelta e se le cose fossero così semplici sarebbe veramente impossibile comprendere le nubi che si stanno addensando su di lui, in quanto egli risulterebbe il semplice strumento di un volere divino. In altre parole, non sarebbe più colpevole di un fulmine assassino scagliato dal padre degli dèi.
Agamennone, però, risulta tragicamente colpevole perché, per così dire, ci mette del suo: non si limita ad essere lo strumento di un piano divino, ma desidera in preda all'hybris -il superamento dei propri limiti- sacrificare la figlia per conquistare Troia, con gli onori e le ricchezze che ne conseguiranno. E' così che Agamennone diviene colpevole, per il desiderio di pagare qualsiasi prezzo per la vittoria.
In Eschilo -questa è la sua drammatica attualità- non abbiamo né totale determinismo né assoluto libero arbitrio, ma l'individuo si perde aderendo alla necessità preparata dagli dèi. Il personaggio, per ragioni che gli sono proprie e che si rivelano condannabili, si precipita da solo per la via che gli dèi, per altri motivi, hanno scelto. L'oracolo di Artemide, riportato da Calcante, di per sé non obbliga Agamennone, non è un imperativo categorico, per usare una formula a noi culturalmente vicina. E' semplicemente un'indicazione del prezzo da pagare per avere i venti favorevoli: a questo punto Agamennone può osare o meno. Ed egli osa. Piuttosto che criticare e biasimare l'indovino, come ricorda il coro, Agamennone preferisce assecondare la sorte capricciosa.
Come scrive Vernant, si rivela l'ambiguità dei fatti tragici che cambiano di valore e di senso secondo che si passi dall'uno all'altro dei due piani, divino e umano, che la tragedia insieme unisce e contrappone. Dal punto di vista degli dèi, questa guerra è in effetti pienamente giustificata. Ma facendosi strumento della Dike di Zeus, i Greci entrano a loro volta nel mondo della colpa e dell'empietà. Non è tanto il rispetto degli dèi, quanto la loro propria hybris a guidarli. Lo si può vedere anche nell'assassinio di Agamennone compiuto da Clitemnestra. Pure in questo caso, certamente, esso è preteso dalle Erinni e voluto da Zeus, ma poi è la regina che lo prepara e lo compie per ragioni proprie, che ben poco hanno a che fare con il mondo divino: l'odio verso lo sposo, la passione per Egisto e il desiderio di potere. Perciò la sua autodifesa, fondata su motivi che potremmo definire transpersonali, è rigettata dal coro, che la pone invece innanzi alle sue colpe individuali: come nota sempre Vernant, nella decisione tragica vengono a collaborare i disegni degli dèi e i progetti e le passioni degli uomini. Non a caso Dario nei Persiani afferma che quando un mortale si adopera da sé alla propria rovina, un dio giunge ad aiutarlo. Questa è la dimensione tragica, contemporaneamente individuale e transpersonale.
La scoperta della infondatezza della contrapposizione tra determinismo e libero arbitrio, a cui noi siamo giunti grazie all'indagine analitica, ci fa sentire prossimi alla tragedia greca. Infatti, anche per i personaggi tragici non si può parlare di libero arbitrio, nonostante essi dimostrino passioni e desideri, ma piuttosto di un gradimento dell'azione: ad esempio, Agamennone non uccide "volontariamente" -nella nostra accezione ingenua- la figlia Ifigenia, ma certo volentieri, a "suo piacimento", per un'adesione ai propri desideri.
Qualcosa del genere lo possiamo constatare quando sottoponiamo ad indagine analitica le nostre azioni: certamente, non possiamo trovare in noi un centro direzionale che per propria volontà "decide" -ormai dovremmo essere disincantati riguardo i poteri dell'"io"-, ma d'altra parte sentiamo in qualche modo di aderire ad esse e che esse hanno a che fare con il nostro mondo più intimo. Anche ora, che diamo altri nomi agli dèi, chiamandoli ad esempio libido invece che Afrodite o aggressività invece che Ares, percepiamo sia pure confusamente di non essere totalmente dominati da questo "qualcosa", questo "es" in termini freudiani, che ci determina. Avvertiamo dunque sì una forza che ci spinge in una direzione piuttosto che in un'altra, ma sappiamo anche che essa non potrebbe essere efficace, se non per un nostro tornaconto: ad esempio, perché non è in fondo così spiacevoli essere preda della libido...
Contro questa dimensione tragica dell'esistere cozza ogni moralismo, che ha invece bisogno dell'idea di un io autonomo e di un libero arbitrio efficiente. Per un fraintendimento di questa dimensione, invece, sorge ogni nichilismo, che non coglie come noi siamo pur sempre implicati nelle nostre azioni e dunque ne portiamo il peso e ne sopportiamo le conseguenze. Probabilmente, ci troviamo innanzi a una sfida: costruire un'etica non ingenua, cioè non fondata sull'idea di un io dotato di esistenza inerente e di libero arbitrio. Mi rendo conto, però, che questo compito, già difficile sul piano individuale, risulta forse addirittura impossibile su quello collettivo...
Prima che l'Agamennone termini, giunge sulla scena Egisto. Anch'egli, come Clitemnestra, è raggiante, perché giustizia è stata fatta. Lui, il terzo figlio di Tieste, scampato al cannibalesco banchetto preparato da Atreo, rivendica pienamente il proprio gesto e la sua validità, dopo che Giustizia lo ha ricondotto in patria. Ciò suscita il ribrezzo del corifeo: dici di avere ucciso volontariamente quest'uomo, sappi che non sfuggirai a una giusta vendetta.
Nell'Orestea si ha l'impressione che le due facce della morale siano ognuna di per sé valida e giustificabile, mentre insieme risultano profondamente inconciliabili. E' questo che differenzia la tragedia eschilea dall'epica e dalla lirica: se, infatti, nella prima gli uomini sono fantocci nelle mani degli dèi, mentre nella seconda essi appena giungono ad esprimere emozioni soggettive di cui vi è una nuova consapevolezza, solo con Eschilo nasce l'individuo, scisso tra due motivazioni contrapposte. Tra i personaggi dell'Orestea, probabilmente Egisto è colui che meno avverte questa contraddizione, che invece diviene esplosiva in Oreste: Egidio, in fondo, non ha ancora dovuto scegliere, ma si è limitato a preparare pazientemente la propria vendetta, mentre Oreste sarà poi dilaniato dalla doppia morale. Con lui, noi impariamo che la scelta etica non è mai tranquilla e banale, ma provoca sempre una profonda lacerazione. Per questo lo sentiamo così vicino.