COEFORE. LA DECISIONE DA PRENDERE
di Adalberto Bonecchi
L'etica è per eccellenza il campo della scelta, della volontà e più in generale del libero arbitrio. Non si porrebbe nemmeno, infatti, la questione dell'etica, se non vi fosse almeno confusamente l'idea che esiste in qualche modo un io capace di scegliere le proprie azioni e di pagarne il prezzo: se noi credessimo a un rigido determinismo, non ci chiederemmo, posti innanzi all'eventualità di più azioni, quale compiere, ma compiremmo l'unica possibile. Anzi, non avremmo nemmeno l'autoconsapevolezza della nostra situazione e ci limiteremmo a vivere come automi programmati, senza alcuna possibilità di dubbio e quindi di scelta.
Ma la scelta implica il conflitto. Noi possiamo "scegliere" proprio perché innanzi abbiamo un bivio e avvertiamo sia le forze che ci spingono verso l'una o l'altra direzione, sia le conseguenze individuali e collettive che seguiranno il nostro atto. Ci troviamo così in una situazione paradossale: da un lato, sentiamo la molteplicità di elementi in gioco sia in noi, sia fuori di noi; dall'altro, avvertiamo che la nostra scelta, non fosse altro che per l'unicità del corpo, deve essere unitaria. Da ciò nasce il senso di lacerazione: dal nostro essere attraversati da più pulsioni, più motivazioni, più logiche e più discorsi. Scopriamo così che la scelta, apparentemente individuale, è di fatto il risultato di uno scontro che avviene sì in noi, ma le cui forze ci trascendono.
Pensiamo ancora una volta alla tragedia greca del V secolo. Nella sua forma originaria e più semplice, essa presenta un coro, contemporaneamente collettivo e anonimo, che solitamente esprime i sentimenti e le idee degli spettatori, cioé degli abitanti la polis, i quali hanno in parte rotto con il mondo epico e religioso arcaico, ma ne subiscono ancora gli effetti. Questo persistere di un tempo che fu è espresso tra l'altro dal lirismo in cui il coro si esprime, che prosegue la poesia che era solita cantare le gesta dell'eroe: il coro, composto da cittadini, si esprime nella forma lirica di un mondo a cui non appartiene più, ma di cui probabilmente continua ad avvertire il fascino. Contrapposto al coro, in perenne tensione dialettica, vi è l'attore singolo, l'individuo, l'"eroe", per tanti versi estraneo al coro, nonostante il dialogo continuo che con esso intrattiene: egli, che è spesso il portatore della vecchia morale, non si esprime però in forma poetica, ma in una metrica che si avvicina alla prosa, quasi a significare la prossimità con gli spettatori. Abbiamo così una situazione veramente curiosa: i rappresentanti della nuova dimensione cittadina e "laica" si esprimono in una forma verbale arcaica, mentre il rappresentante del passato (almeno in certi momenti) si esprime in una forma più moderna e comunque più facilmente coglibile dagli spettatori. Questo espediente rende immediatamente palpabile come l'eroe, a differenza di quanto accadeva nell'epica, non viene più semplicemente ammirato per la sua prossimità con gli dèi e non è più un modello, ma risulta problematico e viene perciò messo in discussione, addirittura contestato. E' come se, attraverso la dialettica coro-personaggio, la città facesse i conti con il proprio passato e soprattutto con ciò che di esso persiste.
Noi siamo soliti pensare che nella scelta etica si scontrino il nostro egoismo e la nostra ricerca del piacere con una morale a essi esterna ed estranea, ma questa è una visione ingenua del problema. Di fatto, a un livello più sottile, quando dobbiamo effettuare una scelta in campo etico noi siamo il campo di battaglia di almeno due morali, che ci attraversano e la cui lotta ci sconquassa. Nella tragedia ciò è ben evidente, ad esempio nella sua attenzione per il linguaggio giuridico: infatti, sebbene le tragedie non siano testi di giurisprudenza, in esse è lampante lo sforzo della comunità di darsi nuove regole, passando dalla morale del clan alla morale della città. Mettendo in causa l'eroe, viene messa in causa la propria vecchia morale e ciò che di essa persiste: la tragedia è la forma artistica di un'epoca di transizione, in cui la vecchia morale non è più soddisfacente, ma la nuova non l'ha ancora estirpata. Perciò, in quest'epoca di grandi cambiamenti, ma anche di grandi ritorni delle forze del passato, noi la sentiamo così vicina.
Si sveglia nella notte, Clitemnestra, terrorizzata dal sogno profetico: ha generato una serpe, l'ha avvolta in fasce come un fanciullo e le ha porto il seno, da cui essa con il latte ha bevuto anche un grumo di sangue. Angosciata, la regina invia la figlia Elettra e le coefore sulla tomba di Agamennone, a portare offerte, troppo misere offerte. Per Oreste, ritornato dall'esilio, il significato del sogno è lampante: "come di sangue nutrì la madre spaventevole mostro, così di sangue bisogna che muoia; e sono io il serpe, io sono che la uccido!". Il coro approva: come incudine, salda è la Giustizia e su di essa batte il Destino, foggiando la spada che nel sangue laverà le colpe della regina. E poi, dopo che Oreste travestito da viandante è riuscito ad entrare nella reggia di Egisto e Clitemnestra, il coro nuovamente implora Zeus di soddisfare il desiderio di chi nella casa l'impero dell'ordine brama vedere finalmente ristabilito: "giustizia grida ogni mia parola e tu, Zeus, giustizia difendi!".
Zeus non è più ora il capriccioso dio onnipotente dell'Iliade e, seppure in modo minore, dell'Odissea, ma colui che attua i desideri comuni di una giustizia che veramente colpisca i colpevoli. A questo punto, si ha quasi l'impressione che sebbene Oreste e il coro perseguano lo stesso obiettivo, l'uccisione di Egisto e Clitemnestra, le motivazioni siano differenti: per Oreste si tratta ancora di una vendetta privata, l'uccisione degli assassini del padre, mentre il coro è portavoce di una giustizia che trascende i destini individuali e che è necessaria all'ordine della città.
Oreste non è solo nella sua decisione: oltre al coro, alla sorella Elettra e all'amico Pilade, anche Apollo è con lui. Anzi, il dio dei responsi obliqui, in questo caso, è stato chiaro e l'ha incitato con dura e poderosa voce: o vendica il padre, o egli stesso perirà. E' forse ammesso ribellarsi, si chiede Oreste? "Se anche non volessi obbedire, devo compiere il gesto!". In poche parole, Oreste ricorda le forze che lo spingono all'azione: oltre al comando di Apollo, il lutto aspro del padre, la povertà in cui è caduto e il bene dei cittadini. In questo elenco, sono presenti mondi differenti: la vendetta arcaica, il tornaconto personale, un dio "moderno" come Apollo e il vantaggio della comunità. Questo connubbio di agenti contrastanti, che rende di fatto la scelta obbligata, annuncia già la follia successiva di Oreste, il quale una volta compiuto il gesto sarà preda lacerata di forze a lui tanto superiori; nel povero Oreste, infatti, si giocherà addirittura la partita tra le vecchie Erinni e il nuovo Apollo, cioè tra due forme di giustizia.
Perché quando operiamo una scelta in campo etico abbiamo l'impressione in fondo di non essere noi a scegliere, ma di essere spinti da qualcosa a cui non possiamo opporci? Perché, se non in quanto ci troviamo ancora nel campo di pensabilità e di sensibilità inaugurato dalla tragedia greca? In noi vi è ancora un conflitto tra almeno due morali: una eroica, arcaica, vendicativa e una che tiene in maggior conto l'ordine sociale, la collettività e il bene comune. E noi, come Oreste, adempiendo il destino creiamo nuovo destino...
Io credo che nelle psicoterapie, sotto la facciata di uomini e donne del XXI secolo, emergano problematiche che sono ancora tragiche. I pazienti, come tutti noi, sono infatti convinti che in essi vi sia da qualche parte un io dotato di "volontà", una sorta di centro direzionale in grado di operare scelte determinate: questa, però, si rivela una grande illusione, sotto la quale si agitano emozioni e credenze i cui conflitti evocano le tragedie greche. E' per questo che è oggi ancora avvincente sul piano esistenziale e stimolante su quello teorico occuparsi del mondo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Non si tratta, infatti, di ripercorrere le loro tragedie per ritrovarvi unilateralmente l'Edipo o altri improbabili complessi. Già un grecista erudito e sottile come Vernant ha ridicolizzato questa operazione, indicando come la pretesa universalità dell'Edipo si basi su un circolo vizioso: una teoria elaborata partendo da casi clinici e da sogni dell'epoca contemporanea troverebbe la propria "conferma" in un testo drammatico della Grecia del V secolo, mentre d'altra parte questo testo sarebbe in grado di apportare una tale conferma solo nella misura in cui viene esso stesso interpretato rapportandolo al mondo onirico degli spettatori contemporanei, almeno così come la teoria in questione se lo rappresenta. Vernant ha buon gioco nel mostrare come questa operazione, oltre che su un difetto logico, si basi anche su una notevole ignoranza. Infatti, la storia di Edipo tramandata dalla tragedia sofoclea è solo una versione molto tarda della leggenda, di cui esistono versioni ben più antiche e consolidate, in cui il buon Edipo, nonostante abbia ucciso il padre e si sia accoppiato con la madre, visse felice e contento sul trono della sua Tebe.
Vernant mostra inoltre come la stessa pretesa di universalità del complesso di Edipo nella mitologia greca sia infondata e ridicola. Per uno psicoterapeuta, forse, può essere triste vedere i fondamenti della psicanalisi freudiana dissolti a colpi di fioretto più devastanti di cannonate, ma io credo sia liberatorio quando uno specialista ci segnala la fallacia di "teorie" che ci indicano più elementi sulla psicologia del loro fondatore che sul reale stato delle cose. Vernant, dopo aver mostrato con poche, ma sapienti pennellate come sia infondata la credenza nella diffusione di problematiche "edipiche" nella mitologia greca, afferma ironicamente che in fondo, partendo dalla famosa scena dell'offerta ad Agamennone del tappeto da trionfo rosso, si potrebbe costruire tutta una psicologia basata sul desiderio delle mogli di uccidere i mariti...
Non è evidentemente in questo senso veterofreudiano che a noi ora interessa la tragedia greca. L'effetto tragico non risiede infatti nel materiale dei testi di Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma nel modo in cui essi lo hanno plasmato: la tragedia pone di colpo, per la prima volta nella storia occidentale, l'uomo al bivio dell'azione, di fronte a una decisione che lo impegna totalmente. L'uomo crede di optare per il bene e invece ha scelto il male, rivelandosi, per la macchia della colpa commessa, un criminale. La domanda che a noi interessa è: che cosa di tutto ciò è rimasto negli uomini contemporanei, nonostante Socrate, Platone, Aristotele, Cristo, Tommaso, Cartesio, Kant, tanto per citare solo alcuni tra coloro che hanno in qualche modo cercato di fondare l'etica su un'idea di "volontà". Non che nella storia del pensiero questa idea sia stata presente in modo netto e chiaro: anzi, probabilmente essa era sconosciuta a tutto il mondo greco, nell'accezione che noi ne abbiamo, però è certo che con Socrate le cose sono cambiate rispetto al mondo tragico, almeno a livello del pensiero "ufficiale".
Compito della psicanalisi non è il trovare improbabili complessi in epoche e luoghi differenti dai nostri, ma l'indagare come, sotto o a fianco del pensiero che definisco appunto "ufficiale", vi sia tutto un altro mondo di emozioni e idee che persistono dall'epoca della tragedia. Eschilo, Sofocle ed Euripide hanno dunque rappresentato per la prima volta una scena in cui la decisione viene presa al termine di un dibattito interiore e di una deliberazione ponderata, che radicano la scelta finale nell'anima del personaggio, ma in definitiva l'uomo tragico non può "scegliere", nella nostra accezione del termine, fra due possibilità: può solo constatare che davanti gli si apre una sola via e riconoscere che questa necessità è di ordine religioso. Nonostante la cura di Socrate e di tutti i moralisti successivi, che hanno tentato di fondare l'etica sulla libera scelta, dalle terapie emerge proprio che l'uomo contemporaneo, sotto una patina di fasullo libero arbitro, è ancora dominato da questa "necessità". L'angoscia e il senso di lacerazione gli derivano dal fatto che sperimenta ciò proprio mentre una ideologia religiosa, filosofica, giuridica e probabilmente anche psicologica gli suggerisce invece violentemente che egli è "libero". Ma di che libertà si tratterebbe mai, se non di un'ingenuità senza analisi, che scambia le proprie fantasie per la realtà?
Nelle psicoterapie, una scelta importante da prendere si presenta a volte nei momenti meno opportuni. Pensiamo, ad esempio, a una paziente che, sia per confusione mentale sia per l'abitudine a una vita sessuale vivace, si ritrovi incinta senza avere la certezza di chi possa essere il padre. A quel punto, le si porrà la questione di un eventuale aborto e diverse sedute saranno centrate sulla ricerca della "migliore soluzione". Ben presto, però, la donna si accorgerà dell'infondatezza della sua supposta capacità di decidere autonomamente e in piena libertà, in quanto sarà divenuta il campo di battaglia di visioni del mondo e di relative emozioni differenti e contrapposte. Alternerà così sedute in cui si troverà nell'indecisione più totale, ad altre in cui la scelta le parrà evidente, ma solo per pochi minuti, sino a che scoprirà che, così impostato, in termini di libero arbitrio, il problema non ha soluzione, in quanto ogni decisione presa getterebbe le basi per un futuro doloroso: ad esempio, semplificando molto, la decisione di abortire la farà vivere perennemente nel rimorso, mentre la scelta di "tenere" il bambino probabilmente la porterà ad odiarlo per tutta la vita. La situazione si sbloccherà solo quando questa donna accetterà di essere la testimone delle battaglie in corso nel suo mondo interiore e lascerà emergere "spontaneamente" -di fatto: come effetto dell'elaborazione- la "scelta", che a questo punto sarà avvertita come l'unica possibile. In altri termini, la paziente potrà "scegliere" solo quando avrà rinunciato all'idea di "poter" scegliere.
La verità tragica, nel senso che ci riporta al mondo greco della tragedia, è che sotto una coltre di miriadi di buone e innocenti parole noi, sino a che crediamo nel libero arbitrio, non possiamo scegliere, mentre solo quando rinunciamo sul piano intellettuale ed emotivo a esso, la soluzione si presenta alla nostra mente e al nostro cuore: a quel punto, però, sarà l'unica soluzione possibile e noi ci sentiremo come Oreste posseduto da Apollo. Pronti, anche, a pagare il prezzo delle nostre azioni.
Compiuto ciò che era da compiere, Oreste avverte il peso del proprio gesto, simile a un auriga che tenti di guidare i cavalli ormai fuori strada. E' in preda a pensieri a cui non sa reagire. Ha ucciso sua madre, sì, ma sente di non aver infranto la giustizia: è stato come drogato da Apollo, che gli ha stillato nel cuore il filtro necessario per compiere questa audacia. Ora non gli resta che partire verso il santuario dell'Obliquo, già preda delle Erinni. Nulla possono le parole consolatorie della corifea, che lo incita a non lasciarsi vincere dallo sgomento, lui che ha riportato una tale vittoria. E Oreste fugge, solo, in preda a quelle che per lui non sono semplici visioni, ma terrificanti realtà.
Perché Clitemnestra ed Egisto, alla nostra sensibilità contemporanea, appaiono subito come criminali, mentre in Oreste cogliamo più l'ineluttabilità del suo gesto? Come ha ben indicato Vernant, il carattere (ethos) e la potenza divina (daimon) sono i due ordini di realtà in cui si radica, in Eschilo, la decisione tragica. Le opere di Eschilo ci appaiono veramente "tragiche", perché tra queste due dimensioni non c'è comunicazione: esse sono contemporaneamente presenti e contrapposte nel gesto e lo stesso personaggio può apparire contemporaneamente eroe e criminale, a seconda del punto di vista in cui ci si pone.
Noi non conosciamo esattamente le reazioni emotive degli spettatori greci, però io credo che oggi, forse, siamo portati a vedere una certa gradazione tra i due ordini del carattere "individuale" e della potenza divina. Ad esempio, comprendiamo sì che Egisto è strumento del destino, ma ci appare evidente la totale adesione ad esso che egli opera. In questo personaggio, il travaglio interiore è praticamente assente e noi vediamo in lui chi si è intrufolato nel letto della regina e ora, dopo il ritorno del re suo sposo, non vuole perdere né la donna né il trono. Il personaggio di Clitemnestra è invece già più complesso: in lei vediamo le Erinni all'opera, tese a vendicare il sangue di Ifigenia, sacrificata in Aulide. Possiamo comprendere il suo sentirsi passiva, nell'azione di assassinare l'assassino della figlia. Certo, esistono anche motivazioni che potremmo definire egoistiche, perché derivanti più dal carattere, che dalla possessione divina, ma è indubbio che in Clitemnestra la spinta non direttamente personale è evidente e traspare in continuazione.
In Oreste, questa spinta è predominante e le sue motivazioni caratteriali, la riconquista del potere, emergono solo qua e là, tra le righe. Egli è totalmente posseduto da Apollo, drogato addirittura, e la sua possibilità di non aderire al mandato del dio quasi nulla. Anche qui la tensione interiore è forte, ma subito intuiamo che non c'è possibilità di non compiere il matricidio. Oreste ci appare quindi speculare a Egisto, il quale non può non compiere l'omicidio perché travolto dal carattere, più che da un dio.
Naturalmente, questo è il nostro sentire contemporaneo, dopo duemila anni di Cristianesimo e alcuni secoli di letteratura borghese, che hanno creato una nuova coscienza di noi stessi. Sotto questa coscienza, però, pulsa ancora un mondo in cui il "libero arbitrio" non ha alcun senso e soprattutto alcun potere. E' questo il mondo tragico, che esploriamo quotidianamente nelle psicoterapie.
Eschilo ci appare il più tragico tra i tragici, perché non ha ancora psicologizzato i suoi personaggi, come invece farà Euripide. In Eschilo, ci troviamo innanzi alle forze brute che ci dominano: lo stesso "carattere" non è certo ciò che noi intendiamo con questo termine, ma può essere considerato come una sorta di possessione che nasce dall'interno, invece che dall'esterno. Senza voler accentuare troppo la differenza tra i due autori, sull'onda di Aristofane o Nietzsche, emerge tuttavia chiaramente che, ad esempio, in Eschilo non potrebbero trovare spazio particolare le motivazioni di una Medea euripidea: ciò che in questa donna ci appare tanto viscerale, in Eschilo probabilmente non poteva essere ancora pensato. L'Orestea non ci parla semplicemente di forze "individuali" che ci dominano, ma del conflitto tra due visioni irrimediabilmente inconciliabili. E' questo conflitto che emerge nelle psicoterapie più difficili, quelle in cui il paziente è letteralmente scisso tra due visioni del mondo, ognuna delle quali è fondata, senza però che per questo possa trovare una soluzione dialettica con l'altra.
Ritroviamo il carattere ambiguo della decisione e della responsabilità al cuore di ogni psicoterapia, quando, decadute le tematiche più superficiali che avevano portato alla domanda d'aiuto, il paziente si trova radicalmente confrontato con la sorgente del proprio agire: chi sono io? Che cosa voglio veramente fare? Qual è l'effetto delle mie azioni? Come ricadrà su di me il loro peso? E così via, in un percorso in cui non è possibile trovare un centro direzionale, un io autonomo dotato di libero arbitrio. Sono questi i momenti più entusiasmanti di una psicoterapia...
Pensiamo a una paziente che, vivendo la propria madre come vittima del padre, decida di vendicarla, sottraendosi al futuro che egli le ha preparato, anche a costo di andare verso una deriva sociale ed esistenziale senza più ritorno. Quanto essa è "libera", nell'attuazione di questo progetto? Dall'analisi, emerge che questa donna è completamente preda delle Erinni, che la spingono a vendicare la madre nell'unico modo che le pare possibile: fallendo nella vita, con un crollo su tutti i fronti, siano essi professionale, affettivo o economico. Ogni tentativo del terapeuta, se egli fosse ingenuo, per convincerla a reinserirsi nel sistema sociale e produttivo sarebbe destinato al fallimento, perché cozzerebbe contro questo compito che essa "sente" di avere. In questi casi non funzionano né le lusinghe, né le minacce, semplicemente perché l'intervento che forse potrebbe risultare efficace sul piano individuale ("fallo per il tuo bene!") non potrebbe esserlo su quello della possessione divina ("io devo vendicare mia madre!") e viceversa. Un intervento di questo tipo, basato sul buon senso del terapeuta secondo le nostre coordinate culturali contemporanee, fallisce, perché non coglie i due livelli del carattere individuale e della coercizione non idividuale, che unendosi acquisiscono una forza difficilmente contrastabile. In questo caso, la paziente usa una motivazione "nobile" al servizio di proprie predisposizioni alla rinuncia, così come queste predisposizioni rinforzano la determinazione a vendicare la madre sacrificando se stessa.
Uno sbocco vi potrà essere solo accettando il conflitto irrisolvibile tra questi due piani, senza pretendere di far prevalere uno sull'altro mentre, come abbiamo visto, ogni appello alla forza di volontà perché la paziente curi i propri interessi risulterebbe inefficace, poiché ciò che a lei interessa è proprio il fallimento... In quei momenti, un terapeuta che rifiutasse la dimensione tragica della terapia e soprattutto più in generale dell'esistenza si sentirebbe impotente, perché gli mancherebbe letteralmente ogni strumento di intervento. Ma sono proprio quei momenti, se li sappiamo vivere sino in fondo, che possono insegnare qualcosa, a noi e ai nostri pazienti, sulle forze che ci muovono e che possono pertanto aiutarci a convivere con esse. Liberandoci dall'illusione di essere noi stessi il motore del nostro agire.