EUMENIDI. LA COLPA DA ESPIARE
di Adalberto Bonecchi
Da che cosa derivano il rimorso e il senso di una colpa da espiare? Perché, una volta commessa un'azione che l'etica ci dice riprovevole, non ne possiamo godere completamente, ma qualcosa in noi si ribella e ci fa pagare interiormente il peso dei nostri gesti?
I Greci hanno affrontato seriamente queste questioni. Noi oggi possiamo sorridere per i tratti caratteriali degli dèi che popolavano il loro Olimpo, ma essi hanno avuto il coraggio di non fantasticare la promessa di una paciosa vita ultraterrena come base dell'agire umano. Certo, temevano la morte e il mondo di ombre in cui sarebbero sprofondati, ma non per questo si sono sentiti autorizzati a fantasticare un futuro modellato sui propri desideri: avevano assimilato a tal punto l'impermanenza nella propria vita, che la loro parola per indicare gli esseri umani era "i mortali". Lo Zeus che assiste divertito allo scannarsi tra Greci e Troiani e li muove come pedine di un gioco incomprensibile è l'immagine della paradossalità e della inconsistenza dell'esistenza umana, non la proiezione confortante e benevola che renda la vita vivibile a chi teme il proprio destino. E quando gli dèi si sono ritirati, Eschilo, Sofocle ed Euripide hanno saputo rappresentare senza compromessi la lacerazione in cui gli abitanti della polis si erano venuti a trovare. Socrate, poi, saprà fondare un'etica che non ha bisogno per sostenersi di orpelli esterni. Il suo merito resta quindi intatto nei secoli, anche se il suo atto di fondazione è poi stato utilizzato, soprattutto nella ripresa platonica e aristotelica, da sognatori a corto di argomenti.
Se Clitemnestra ha potuto godere del suo gesto e, almeno in parte, rivendicarne la paternità, Oreste è subito preda delle Erinni, le terribili cagne vendicatrici che non gli danno tregua: nere, ripugnanti, dal fetido alito e dagli occhi che emanano sgradevoli umori. Si reca dunque a Delfi, presso il tempio del dio che gli ha ispirato il gesto di cui ora porta il peso. Qui Apollo gli promette di non abbandonarlo, ma anzi di vegliare su di lui sino alla fine, perché le Erinni lo inseguiranno ovunque. Dovrà recarsi ad Atene, il perseguitato Oreste, ove il dio troverà i giudici della contesa, le parole della persuasione e il mezzo per liberarlo per sempre da questa angoscia. E poi, con una sincerità che ce lo rende umanamente vicino, Apollo ammette: fui io, lo so, che ti indussi a colpire il seno di tua madre... Si scontrano qui due giustizie: l'antica delle Erinni e e la nuova di Apollo, che avvertiamo più consona con il nostro sentire odierno, proprio perché esso è stato plasmato dal dio duemilacinquecento anni or sono. O meglio, perché la nuova coscienza dei Greci ha potuto recepire questo senso della giustizia solo come proveniente da un dio, secondo le modalità del pensiero di allora. E' questo il presupposto per la trasformazione delle terrificanti Erinni in Eumenidi, le "benevole", in un'assimilazione del Terrore divino nel tribunale umano.
L'ombra di Clitemnestra sveglia le Erinni, sprofondate in un sonno profondo. Le rimprovera, per essersi lasciate sfuggire Oreste, le aizza a riprendere la caccia, a non dargli tregua. E le Erinni, completamente ripresesi, rampognano Apollo, il giovane dio che le vecchie dee calpesta, per proteggere il suo supplice. Ma Apollo le scaccia: non accetta la scusa che Clitemnestra ha sì ucciso, ma senza versare sangue di consanguinei. Apollo, rappresentante di una nuova organizzazione sociale non più basata solo su vincoli di sangue, ricorda che così dicendo esse vilipendono Afrodite, la dea dall'amore che unisce chi è differente: "il talamo nuziale a cui il destino lega l'uomo e la donna, è vincolo assai più grave del giuramento e giustizia lo protegge. Se tu dunque, quando l'uno dei due uccide l'altro, sei indulgente con l'uccisore e non lo punisci e nemmeno lo guardi con ira, io dico che tu ingiustamente perseguiti Oreste. Perché vedo che della colpa di lui sei fortemente sdegnata, l'altra invece è palese a tutti che tu la giudichi con molto minore severità. Comunque, dove sia fra le parti il diritto vedrà Pallade Atena". Il momento è drammatico e lo scontro fortissimo tra la vecchia concezione basata appunto su vincoli di sangue diretti e la nuova, in cui Afrodite è simbolo di unioni non più consanguinee. Il verdetto dell'Aeropago sancirà il compromesso tra queste due visioni.
Nelle psicoterapie dei nostri giorni troviamo ancora, in forma naturalmente diversa, lo scontro tra queste due concezioni, quando ad esempio un giovane afferma che non può uscire di casa e unirsi a un'altra donna, perché in quel caso avrebbe l'impressione di uccidere i genitori. Viene qui vissuto lo scontro tra una logica familiaristica protetta, in cui il legame di sangue è prioritario, e la logica di Afrodite, la dea dell'amore, che unisce nel talamo senza piegarsi alla consanguineità: Giulietta e Romeo devono però dimenticare, anche a rischio della morte, i vecchi impegni familiari e assumerne di nuovi... Di questi nuovi legami è protettore Apollo, addirittura in modo provocatorio, istigando il matricidio e proteggendo chi l'ha compiuto. Ma ai Greci stessi questa visione doveva sembrare eccessiva, se Eschilo non ha lasciato l'ultima parola al dio, ma invia Oreste ad Atena e a un tribunale che dovrà mediare tra visioni del mondo e dei rapporti umani tanto differenti. Lo scontro tra nobiltà e democrazia, tra terrore e amore, tra famiglia ristretta e gruppo sociale più ampio ha lasciato uno strascico nella pensabilità del nostro mondo e quindi anche nella mente di un povero paziente che alle soglie del duemila non sa ancora decidersi a lasciare i genitori, in particolare la sacra mamma, per costruire legami meno arcaici sul piano sociale e psichico.
Le Erinni sono la rappresentazione esterna di una distruzione interiore successiva alla colpa, la più grave per la vecchia giustizia: versare sangue del proprio sangue. Chi uccide un proprio congiunto, cantano questi esseri orrendi, crolla, accecato dal proprio delirio e in preda a voci minacciose. Con Oreste, il meccanismo pare ripetersi per l'ennesima volta, ma è solo un'illusione: Apollo, l'ispiratore del delitto, veglia e riporta in altra sede, nell'Aeropago, il destino di Oreste. E' questo un momento di grande civiltà, nonostante la truculenza dei delitti: il "colpevole", infatti, non è semplice preda dei propri deliri interiori materializzati nelle Erinni, ma può passare attraverso un momento di giudizio collettivo, in cui il suo gesto acquista un nuovo significato. Quale che sia il responso del tribunale, esso giungerà finalmente dall'esterno e non sarà il semplice effetto di una dialettica interiore senza speranza.
Anche in terapia, spesso, il paziente ha bisogno di ricostruire per noi il suo mondo interiore, nel tentativo di sfuggire a ciò che non chiamiamo più Erinni, ma senso di colpa, ricordo, rimpianto. In questi casi, il nostro compito evidentemente non consiste nel sostituirci alle Erinni o ad Apollo, ma nell'offrire al paziente un luogo e uno spazio di parola, affinché egli possa ripercorrere la propria storia e riannodarla in modo differente, ponendo così le basi per spezzare la dolorosa catena di cause ed effetti, che a loro volta diventano causa di nuova sofferenza per sé e per gli altri. Questo processo avviene attraverso i tre momenti, logici più che cronologici, indicati da Freud: il ripetere, il ricordare e l'elaborare.
Il ripetere è un momento specifico della terapia. Esso, infatti, si differenzia da ogni altra ripetizione il paziente possa operare al di fuori del setting, in quanto ora esso può essere osservato quasi come in un laboratorio, all'interno del transfert. Ogni tentativo del terapeuta, operato per amore del quieto vivere, di tenere fuori dall'esperienza questa dimensione spesso scomoda non può che risultare fallimentare, in quanto la ripetizione -di comportamenti, stati d'animo, modalità di relazione, pensieri- è semplicemente ineliminabile. La differenza ora, nella struttura specifica della terapia, è che essa non viene tanto agita, quanto individuata e analizzata.
Anche il ricordare riceve nella terapia un gusto particolare. Spesso si crede che in terapia si tratterebbe semplicemente di riportare alla memoria fatti traumatici sepolti nell'"inconscio", ma questa è una visione ingenua del processo terapeutico, in quanto il paziente quando inizia il trattamento ha quasi sempre ben presenti i fatti dolorosi della propria storia, al punto che, eventualmente, la sua richiesta non è di ricordare, ma di dimenticare... Ciò che conta nella terapia è come si lavora sui ricordi, ovvero come li si lega a nuovi significati: l'"evento" ricordato può alla fine essere lo stesso, ma la sua valenza psichica è profondamente cambiata.
Questo ci introduce già al terzo momento della terapia: l'elaborare. Esso consiste nel prendere ricordi, pensieri, emozioni e nel riannodarli differentemente, in un processo che appunto dona un nuovo senso al paziente, alla sua storia, alle sue relazioni e alla sua visione del mondo. E' questo un processo intellettuale che può essere svolto da chiunque sia dotato di onestà e amore per la verità. Si tratta del momento più nobile della terapia, quello che, starei per dire, regala le soddisfazioni migliori al terapeuta. Quando, dopo un lungo periodo di sterili ripetizioni e di ricordi devastanti, il paziente imbocca la strada di una feconda elaborazione, possiamo veramente comprendere come il nostro lavoro sia ricco e prezioso. Anche in un periodo come questo, in cui la qualità e le motivazioni dei pazienti sono notevolmente scadute... Nostro compito, comunque, è accompagnare il paziente per un tempo il più lungo possibile della sua esplorazione e della sua trasformazione interiore, senza cercare di forzarlo a seconda delle nostra sensibilità esistenziale e dei nostri ideali formativi. Ogni intervento viziato dai nostri desideri, infatti, non farebbe altro che aumentare la lacerazione del paziente, senza però fornirgli gli elementi per superarla. Ci sentiremmo forse simili ad Apollo, che incita il povero Oreste, ma non avremmo poi alcuna Atena a cui indirizzarlo...
All'inizio del secondo stasimo, il coro delle Erinni è ancora una volta turbato, al pensiero delle rovine a cui porteranno le nuove leggi, se la causa di Oreste, il matricida, dovesse prevalere: a quel punto ognuno si sentirà autorizzato a compiere qualsiasi misfatto, in particolare nell'ambito della propria famiglia d'origine. Dai propri figli i genitori si dovranno ora aspettare ferite e morte... Crollerebbe, così, la casa della Giustizia. Le Erinni innalzano un canto al terrore, come fondamento della convivenza e della saggezza: una sorta di posto di guardia nel cuore degli uomini.
Tuttavia, curiosamente, non hanno ora una posizione estremista, ma ammettono la presenza, al fianco della necessità di leggi severe, anche della libertà: sempre, ammoniscono, il giusto mezzo prevalga. Da equilibrio di mente, infatti, nasce felicità, che è da tutti desiderata. Pare qui essere annunciata, a sorpresa, la sentenza dell'Aeropago, che rigettando la vecchia giustizia familiare, non scaccia le Erinni, ma anzi le innalza a difesa della città nella forma mitigata delle Eumenidi.
In fondo, ognuno di noi, crescendo e divenendo membro non più di una semplice famiglia, ma della comunità, deve venire a patti con le Erinni: se prima, infatti, esse erano in lui la potente voce della vendetta, che punisce nella famiglia i crimini commessi contro di essa, poi, perseguendo uno sviluppo interiore ed esteriore necessario sul piano psichico, sociale ed esistenziale, dobbiamo riconoscere che vi è una legge superiore alla legge familiare: la legge della comunità, che regola anche i rapporti tra genitori e figli. Le Erinni tendono così ad avvicinarsi sempre più a ciò che Freud, con un termine probabilmente più ambiguo, chiama superio: il proseguimento dell'istanza parentale nella mente dei figli. Però, forse, questa affermazione non è neanche del tutto corretta, in quanto le Erinni lasciano una traccia anche nelle istituzioni, di cui divengono il volto terrificante, come emergerà dal discorso conclusivo di Atena.
Ma perché la famiglia è divenuta l'immondezzaio di cui ci parlano i pazienti? Perché in essa ognuno dei suoi membri si sente autorizzato a dare il peggio di sé? Perché, anziché costituire un luogo di crescita collettiva, essa trita gli individui, impedendo loro di divenire esseri umani pienamente realizzati? E' forse necessario lavorare come psicanalisti, per accorgersi delle tracce devastanti che la necessità biologica del nascere da un padre e una madre ha nelle menti dei sopravvissuti a questa esperienza?
La tragedia segna il passaggio adolescenziale dalla legge familiare alla legge di gruppo, ma, come nell'Atene del V secolo, questo passaggio non elimina le Erinni, bensì, nella migliore delle ipotesi, le eregge a protettrici della dimensione collettiva. La paura e addirittura un'angoscia di fondo sempre pronta a emergere restano così il marchio del rapporto con l'Altro, con cui non è possibile una relazione paritaria, ma solo una sottomissione basata sulla paura. La legge del taglione che regna nella famiglia non si trasforma, pertanto, nella legge dell'equità, ma resta sempre sullo sfondo, a dare un sapore sinistro al rapporto con le istituzioni. I pessimi rapporti familiari creano così amministratori pubblici terrificanti e cittadini che già si aspettano di essere terrificati, perché questa è stata la loro esperienza familiare e dalla famiglia, dalle immagini parentali, non si sono saputi separare.
Nell'Aeropago si combatte una battaglia tra legge materna familiare e legge paterna sociale. Lo sostiene chiaramente Apollo quando, difendendo Oreste, afferma che la morte di Clitemnestra non può essere considerata alla stessa stregua di quella di Agamennone, nobile eroe onorato da Zeus dello scettro regale. E' dunque superiore Agamennone a Clitemnestra, perché la sua condizione è regale, cioè riconosciuta dalla comunità: per giunta -e questo accresce la gravità del crimine- egli è stato ucciso per mano di donna e non in guerra: l'eroe pubblico, di ritorno dalla gloriosa conquista di Troia, è caduto tra le mura domestiche, nel bagno... E quando le Erinni si appellano al principio della consanguineità, ricordando che Oreste uccidendo la madre ha versato sangue delle proprie vene, Apollo svilisce la funzione della madre nella procreazione, affermando che generatore è colui che getta il seme, mentre la madre è semplice contenitore del feto... Vi è qui, nel suo estremismo certamente oggi non condivisibile, un'idea meno arcaica, più simbolica, della filiazione: il seme paterno, nella sua breve e poco visibile esistenza, è infatti un'entità più rarefatta del grembo materno, un "inizio" meno visibile e avvolgente e più aleatorio e impersonale di quanto non sia il grembo materno.
Nè anarchia, nè dispotismo. Nell'istanza terza dell'Aeropago Atena fonda un nuovo ordine legale, un baluardo di sicurezza che assimila e trescende in una dimensione superiore i termini del dibattito precedente. Sferzante è, però, la motivazione del suo voto: "io voto in favore di Oreste. Madre che mi abbia generato io non l'ho. Il mio cuore, esclusi legami di nozze, è tutto per l'uomo. Io sono solamente del padre. E così il destino di una donna omicida del proprio sposo a me non m'importa: lo sposo m'importa, custode del focolare domestico". Viene qui ripresa la mitologia che vuole Atena generata solo dal padre, per fondare un nuovo ordine, in cui vengono svilite le motivazioni che hanno portato Clitemnestra a uccidere Agamennone, perché colui che conta è il custode del focolare, che emerge ora come istanza sociale e non più domestica: non è certo il focolare accanto al quale la donna passa il proprio tempo, ma un'istanza simbolica, da custodire.
La sentenza è nota. I voti pro o contro Oreste sono pari, ma siccome in caso di parità sarà il giudizio di Atena a fare la differenza, il matricida è salvo. Questa sentenza, che fonda l'ordine giuridico, è dunque contraddittoria: i nuovi dèi e la nuova giustizia non hanno sconfitto le vecchie tradizioni e l'ambiguità tragica, irrisolvibile, permane... I giudici umani hanno condannato Oreste, che si salva solo per il differente peso del voto di Atena: la nuova istituzione democratica vede il proprio verdetto ribaltato proprio da chi l'ha fondata. Oreste è assolto legalmente, ma non giustificato: nè, tanto meno, può pretendere di assurgere a modello. La sentenza, chiara sul piano giuridico, non lo è invece ad altri livelli, come ben intuiscono le Erinni, che annunciano terribili conseguenze per la città. Ma subito Atena le blocca, le blandisce, arriva addirittura a dire che, oltre che più vecchie, esse sono certamente anche più sagge di lei, che certamente qualche saggezza ha avuto da Zeus... Riprendendo quasi letteralmente i timori delle vecchie dèe, Atena nel suo intervento prima della votazione aveva affermato che la riveranza e la paura avrebbero impedito ai cittadini di offendere la giustizia: ora, ella dà una forma istituzionale a questa sua preoccupazione, chiedendo alle Erinni di non abbandonare la città e di non riversare su di essa i loro veleni, ma di restare come protettrici. Il nuovo ordine, infatti, non potrà essere fondato solo sulla persuasione e sull'amicizia reciproca, ma dovrà esserlo anche sul terrore, perché, realisticamente, senza di esso chi si mantiene probo?
Tra le acclamazioni del popolo per la trasformazione/integrazione delle vecchie dèe, Eschilo conclude la sua opera, senza però averci tolto il senso di ambiguità che tutta la trilogia aveva creato in noi.
Perché la parola persuasiva non è sufficiente a regolamentare i rapporti tra gli esseri umani? Perché la necessità del rispetto e del timore? Come integrare forze tanto contrapposte? Ecco le domande -ineludibili, ma a cui non sappiamo rispondere- che l'intervento di Atena ci solleva. Ma, oltre che sul piano sociale, anche su quello più strettamente individuale non possiamo non chiederci perché siano così rari gli esseri umani -i mortali, per riprendere il termine greco- che sanno vivere decentemente senza bisogno di essere terrorizzati dall'idea del carcere, degli inferni o, quanto meno, da implacabili Erinni interiori.