EDIPO RE. L’UMANO E IL DIVINO
di Adalberto Bonecchi
Quando noi psicanalisti ci addentriamo in altri campi del sapere, siamo ormai dei sorvegliati speciali... Infatti, da Freud in poi, nell’avvicinarci a tematiche non direttamente connesse con il lettino delle consultazioni, abbiamo dimostrato una grande arroganza, forse pari solo all’incompetenza: questi due elementi hanno giustamente messo in allarme, al solo avvicinarsi di uno di noi, ogni esperto di un campo specifico, che probabilmente innanzi alle speculazioni invasive di uno psicanalista non sa più se scandalizzarsi o ridere.
Occupandomi ora della tragedia greca, ho ben presente sia questa situazione, sia i limiti delle mie conoscenze, ma se decido di proseguire è perché so di non scrivere sulla tragedia, ma su ciò che di essa permane in noi e che quotidianamente incontro nel lavoro terapeutico con i pazienti. Sono infatti convinto che uno psicoterapeuta non debba sentirsi autorizzato a sentenziare in campi che non sono il suo, ma mi pare anche che egli, in particolare se psicanalista, non possa non ascoltare ciò che di questi altri campi egli sperimenta, mediato dal discorso dei pazienti.
D’altra parte, so anche che è importante non compiere un errore che molti hanno compiuto sulla scia di Freud, vale a dire il ricercare nei miti e nella letteratura, nostri o di altre culture, una generalizzazione di ciò che apprendiamo sull’inconscio dei pazienti. Ciò che dunque ora mi interessa non è questa “conferma”, ma l’esperienza viva, oggi, che i pazienti fanno proprio perché determinati culturalmente dalla tragedia del V secolo. In altri termini, non trovo nella tragedia una conferma dell’universalità delle problematiche dei pazienti, quanto piuttosto che queste problematiche sono condizionate, cioè rese pensabili, dallo sforzo dei tre grandi esponenti della tragedia attica.
Come psicoterapeuta, non mi interessano, dunque, né il senso che è giustamente ricercato dall’ellenista e che come uomo di cultura amo conoscere, né il senso erroneamente supposto da Freud, secondo il quale sarebbe il successo costante e universale della tragedia di Edipo a provare l’esistenza altrettanto universale, nella psiche infantile, di una costellazione di tendenze simili a quella che porta l’eroe alla rovina.
E’ curioso il nostro lavoro di psicoterapeuti, perché da un lato deve essere squisitamente empirico e quindi sempre direttamente collegato all’esperienza con il paziente, dall’altro ci offre stimoli che ci spingono a studiare aspetti della storia e del pensiero umani apparentemente molti distanti tra loro e soprattutto dalla nostra pratica quotidiana. Questa forbice di interessi tra un pragmatismo terapeutico e una speculazione a volte ardita può, però, non essere vissuta come una contraddizione, ma anzi aggiungere sale alla nostra professione e farci sentire la sua entusiasmante specificità, anche in un’epoca che certo non è tra le più stimolanti, soprattutto per la povertà di contenuti delle domande di terapia attuali, che risentono di una generale miseria culturale ed esistenziale. Anche a costo di sembrare un vecchio nostalgico, mi permetto di dire che venticinque anni or sono il livello dei pazienti era mediamente di ben altro spessore, così come ben più stimolanti essi risultavano per il terapeuta, che si sentiva provocato alle radici del suo esistere. Questa, tuttavia, è una constatazione che non ci deve particolarmente deprimere, perché noi lavoriamo con ciò che c’è e non con ciò che fantastichiamo sarebbe bello se ci fosse...
Sviluppare un’attenzione per ciò che della dimensione tragica persiste nei nostri pazienti -ma, più realisticamente dovremmo dire: in tutti noi- comporta evitare gli estremismi sia dell’impostazione che analizza solamente il carattere relativo e storico di un’opera d’arte, sia quella che la considera in un’ottica assoluta e astorica. E’, infatti, evidente che la tragedia è sorta in un’epoca determinata per la presenza di particolari condizioni economiche, politiche, sociali, culturali e psicologiche, ma è altrettanto vero che essa -lungi dall’esaurirsi nel corso di un secolo- ha creato le basi per una nuova coscienza che, una volta divenuta “ufficialmente” obsoleta, ha continuato a persistere a quel livello che noi psicanalisti, per mancanza di un termine migliore, continuiamo a chiamare inconscio.
I Greci non rappresentano quindi, come afferma un’opinione largamente diffusa, l’”infanzia dell’umanità”, ma coloro che hanno saputo creare una forma di pensiero che è perdurata anche quando sono tramontate le basi economiche e sociali che la sottendevano. Il rovesciamento di prospettiva è abbastanza chiaro: non è che i Greci abbiano trovato qualcosa che sarebbe presente in tutta l’umanità (ad esempio il complesso di Edipo) e che renderebbe le loro opere imperiture e universali, così come, ovviamente non è nemmeno vero che la loro produzione artistica fosse solo determinata dalle particolari condizioni economiche e sociali. Piuttosto, essi hanno saputo produrre, partendo da determinate condizioni specifiche, qualcosa che non solo non è morto con il venir meno di queste condizioni, ma che addirittura ha determinato il modo di pensare -prima ufficiale e poi inconscio, appunto- di larga parte dell’umanità. Insomma, i Greci non hanno descritto qualcosa di eterno, ma hanno prodotto qualcosa che è perdurato, naturalmente per la forte valenza psichica che esso è venuto ad assumere.
La tragedia greca non è solo un’opera d’arte, ma è la creazione dell’uomo tragico, che è attraversato da due dimensioni inconciliabili e che più pensa di poter padroneggiare le situazioni, più si perde. Io credo che questa dimensione dell’uomo, del mortale, fondata dalla tragedia, sia il grande rimosso della storia successiva e che essa emerga, tragicamente appunto, nelle psicoterapie. E’, infatti, in parte vera la favoletta secondo cui una psicoterapia servirebbe a stare meglio: è indubbio che, quando essa riesce, l’individuo sperimenta una diminuizione della sofferenza che l’ha portato da noi e la sua vita acquista un nuovo sapore. Questo livello, però, sebbene da non sottovalutare, non è il più profondo che incontriamo lavorando con il paziente ed è in parte pur sempre determinato da una certa autosuggestione, anche se blanda. Il livello più radicale dell’esperienza terapeutica viene invece incontrato proprio quando emerge questo uomo tragico, questo enigma ricco di doppi sensi sempre da decifrare, ma mai da risolvere completamente. Solo allora sentiamo di non essere imbonitori che promettono una felicità a buon mercato, ma viviamo la pregnanza della nostra pratica, che è poi la pregnanza dell’esistenza umana.
A quel punto la terapia opera un vero salto di qualità. Non si tratta più, a quel punto di non star male perché si è convinti di stare bene..., bensì perché si è sperimentata la verità del nostro esistere e questa verità rende liberi, cioè libera dalla preoccupazione di soffrire o non soffrire. A quel punto, diveniamo simili a Edipo giunto a Colono...
Se tutti i tragici greci sono ricorsi all’ambiguità come mezzo di espressione e come modo di pensiero, essa nel capolavoro di Sofocle è presente in misura ancora maggiore: non tanto, o non solo, ambiguità lessicale, resa possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua, come avviene per Antigone nel conflitto con Creonte o sottointesi, come quelli usati coscientemente da Clitemnestra, che accogliendo Agamennone utilizza tra le righe un secondo discorso, coglibile solo da coloro che dispongono di particolari informazioni. L’ambiguità dell’Edipo re è diversa, perché non riguarda né l’opposizione dei valori tra due personaggi, né la doppiezza di uno in particolare: Edipo, infatti, sia è solo a condurre il gioco, a differenza di Antigone con Creonte, sia immagina di essere tutto di un pezzo, a differenza di Clitemnestra, nell’attuazione del suo obiettivo, che è semplicemente la ricerca della verità, a qualunque costo. E’ lo statuto stesso di Edipo ad essere ambiguo e a sostenere completamente la tragedia, in cui non vi sono in gioco differenti possibili interpretazioni di alcuni valori o la doppiezza caratteriale di certi personaggi. Gli stessi tentativi di Giocasta, una volta compresa la verità, di fermare la ricerca di Edipo sono solo i patetici tentativi di una madre sposa e regina di fermare il figlio marito e re, ma non mutano la struttura della tragedia, che è fondata sulla determinazione di Edipo a trovare la verità a qualunque costo, sino anche a perdersi. Proprio quando crede che la verità lo libererà dal peso che come re avverte per la propria città appestata.
Questa non comprensione di Edipo sul proprio essere, sul proprio discorso, può oggi essere considerata una metafora del meccanismo interiore che porta un paziente in terapia? Io credo di sì. Che cosa fa, infatti, un paziente, prima di rivolgersi a noi per chiedere aiuto, se non arrovellarsi alla ricerca della verità su se stesso, salvo continuare così a perdersi? Egli si trova in una sorta di scommessa, in cui sarà sempre perdente, perché se si fermerà nella ricerca non si conoscerà, mentre se proseguirà giungerà a una verità che non potrà sopportare. Occorre qui spezzare una lancia a favore di chi inizia una terapia, troppo spesso considerato dai familiari, dagli amici o dai mezzi di comunicazione un debole e un incapace. Ciò è assolutamente falso: chi si rivolge a noi, invece, ha coraggio e amore per la verità sufficienti a interrogarsi su se stesso e onestà intellettuale per riconoscere di aver bisogno di aiuto per proseguire e soprattutto per reggere ciò che sta trovando. Per questo, anche del paziente meno intelligente e più titubante uno psicoterapeuta deve avere una grande stima: ha, infatti, innanzi un essere umano che sta operando un tentativo che non è da tutti e che lo porterà a stravolgere la propria vita.
Come Edipo al coro di nobili e anziani tebani, egli può dire: io sono uno straniero e non andrei molto lontano, se non avessi qualche indizio. A questo punto, si apre lo spazio mentale per interrogare il terapeuta/Tiresia. E’ ciò che avviene nel paziente, senza, però, che egli alla fine abbia bisogno di accecarsi, in quanto la terapia comporta una sorta di accettazione del proprio destino: se così possiamo dire, un paziente giunge direttamente alla trasmutazione che Edipo subirà invece solo a Colono, con la morte che gli alita sul collo. Questa accettazione del proprio destino, però, è ben diversa da tutte le operazioni consolatorie tentate dalle varie Giocaste da cui il paziente è circondato e che egli stesso tenta quasi a ogni seduta: è una accettazione tragica, perché consapevole della frattura irrisolvibile che attraversa l’essere umano e con cui si può solo imparare a convivere, almeno sino a che non si giungerà in punto di morte. Ogni pretesa di risolverla, infatti, ci sposta dal campo psicologico al campo religioso, in cui però è ben difficile distinguere tra le realizzazioni effettivamente conseguite e le illusioni di chi non ha il coraggio e l’amore della verità dimostrati invece da Edipo.
Perché, dunque, la pestilenza ha colpito ancora Tebe? Proprio mentre il sacerdote anziano prega Edipo di trovare un rimedio, così come lo trovò all’epoca della Sfinge, Creonte torna da Delfi, portando il responso di Apollo: scacciare dalla città il miasma che i tebani stessi hanno allevato e nutrito. Punire con la morte la morte. Scovare l’assassino di Laio e colpirlo: ciò che si cerca si trova e non si trova se non si cerca... Il meccanismo è avviato ed Edipo inizia a indagare, teso verso la verità che lo rovinerà: “ricomincerò io da principio, farò io la luce.” Al desiderio di giustizia per ripulire la città si uniscone anche il timore per la propria vita: chi ha ucciso il vecchio re potrebbe, infatti, attentare anche alla sua vita... Un’illusione lo sostiene: o saremo tutti felici con l’aiuto del dio, o tutti insieme cadremo. Proclama dunque che chiunque sia a conoscenza del nome dell’assassino lo dica: persino il colpevole stesso potrà confessare ed avrà salva la vita. Nel caso ciò non avvenga, Edipo lancia una maledizione che suona raccapricciante, perché profetica, così come è conturbante il paragone che egli fa: voglio combattere per lui come fosse mio padre... Tutto, in questo proclama di Edipo, ci fa gelare il sangue nelle vene: Edipo, il potente re di Tebe, nel momento in cui si pone come soggetto attivo alla ricerca del colpevole e terribile sovrano nella minaccia enuncia senza saperlo una verità per lui distruttrice e il destino che lo colpirà. Tiresia aggiungerà, nelle sue parole di veggente, altra ambiguità.
Nel dialogo tra Edipo e Tiresia si gioca il dramma tra chi non sa e vuole sapere e chi invece sa, ma non vuole dire. Inizialmente, il re si mette nelle mani dell’anziano veggente e implora il suo aiuto, ma è subito raggelato dal vecchio, che già nell’aspetto mostra come il suo turbamento stia aumentando sempre più: tremenda cosa è sapere, quando non giova a chi sa... In fondo, quando veniamo interpellati dal potenziale paziente nel colloquio preliminare ci troviamo per molti versi nella posizione di Tiresia: abbiamo, infatti, un sapere che non serve né a noi né a lui, in quanto “prematuro” e quindi inefficace. Se, per inesperienza o desiderio di stupire, comunicassimo a chi ci sta innanzi ciò che già sappiamo per i lunghi anni di pratica e ciò che ora stiamo intuendo su di lui, il nostro intervento verrebbe interrotto dalle sue proteste e probabilmente dalle sue minacce.
Nel colloquio preliminare -e spesso anche durante lunghi periodi della terapia- dobbiamo così passare attraverso le rimostranze del paziente che, simile a Edipo, ci spinge a rispondere: “che dici? Tu sai e non parli?... O scellerato! Anche un cuore di pietra faresti irritare! E dunque non parlerai? Così inflessibile, così ostinato vuoi rimanere?” A differenza di Tiresia, che queste parole spingono a rispondere, perché “ciò che deve accadere accadrà, anche se io lo ricopro col mio silenzio”, noi sappiamo che una risposta diretta, una “spiegazione” impedirebbero il percorso di autoconoscenza del paziente o, per meglio dire, non lo preserverebbero dalla devastazione finale. In fondo, noi accompagnamo il paziente sino al punto in cui può conoscere la verità su se stesso, tollerarla e quindi evitare di accecarsi...
Ma qual è questa verità? La terapia ne opera un rovesciamento: lì ove qualcuno pensava di avere una determinata identità, essa, non il terapeuta, ne indica un’altra, che si affianca gradualmente alla prima, “ufficiale”, sino a soppiantarla. Per questo non c’è bisogno che, come Tiresia, noi subito si dica la verità: tu sei l’empio, l’assassino del padre e l’amante della madre... D’altra parte, già Tiresia lo afferma: non è destino che per cagione mia tu cada; basta Apollo...
Da un lato c’è Tiresia, che conosce il destino, dall’altro Edipo, che l’orrore della nuova verità spinge verso affermazioni che noi oggi potremmo definire “paranoiche”: si sente invidiato, minacciato e teme che Tiresia sia manovrato da Creonte, che lo vorrebbe rovesciare per impossessarsi del trono. Questa reazione di Edipo, che da supplice implorante si trasforma rapidamente in pericoloso iracondo, dovrebbe far riflettere ogni psicoterapeuta che, per vari motivi, si sentisse portato a un’interpretazione prematura, cioè un’interpretazione per la quale il paziente non è pronto. Così facendo, infatti, lungi dal risolvergli i problemi, egli scatenerebbe in lui forze ben difficilmente gestibili, che si ritorcerebbero contro il processo terapeutico, oltre che contro il terapeuta...
Ma perché la nostra professione è divenuta sempre più banale? Perché la pregnanza delle domande di terapia sta progressivamente scemando? Perché, più otteniamo riconoscimento sociale e diveniamo “visibili” -secondo un’orrenda espressione oggi di moda- più sentiamo di allontanarci dal cuore della nostra esperienza, per divenire blandi consolatori o, nella migliore delle ipotesi, psicotecnici a cui si chiede un semplice intervento riparatore? Sempre più colleghi mi testimoniano questi disagi, oltre a una certa nostalgia per i tempi in cui la scelta di inizare una psicoterapia aveva una forte connotazione esistenziale e rappresentava una decisione in grado di dare una svolta totale alla propria vita.
Mi pare evidente che si venga spesso a creare una sorta di complicità tra i pazienti e la nostra “categoria” di psicoterapeuti, per cui essi si impegnano a riconoscerci come professionisti -al pari ad esempio dei dentisti, degli avvocati o dei consulenti finanziari- e noi facciamo finta che ciò sia vero, rinunciando a mettere in discussione le loro parti più profonde e meno accettate. Come dire: il paziente si traveste da soggetto giuridico e ci riconosce un ruolo sociale accettato e noi ci impegnamo a far finta che in lui non ci sia altro che la persona, la maschera, insomma quel fantoccio che perde continuamente colpi. La “pigrizia” intellettuale e la mancanza di coraggio dei pazienti procedono così di pari passo con il conformismo confortante del terapeuta, in un’alleanza che è agli antipodi del genuino lavoro analitico, che può veramente avere effetti terapeutici.
Ognuno di noi, aprendo lo studio all’inizio di una giornata lavorativa, deve decidere se assecondare questa associazione a delinquere -i tre termini sono: il paziente, il terapeuta e la sua organizzazione professionale- contro la verità, o tentare uno sforzo eroico, cioè conforme a un’etica del passato, che fortunatamente lascia ancora uno strascico, per far proseguire l’essenza dell’esperienza terapeutica. La quale, contrariamente a tutte le promesse degli imbonitori tesi solo a svendere la propria merce, non è né veloce, né sicura, né a buon mercato. Come, d’altra parte, potrebbe esserlo, se chiama in gioco la dimensione tragica del nostro esistere?
Il paziente, come Edipo, sperimenta il conflitto insanabile tra il punto di vista degli uomini e quello degli dèi, cioè, fuor di metafora, del suo mondo interiore, che a volte gli ritorna per bocca del terapeuta, il quale, come Tiresia, può dire: è la forza della verità che mi sostiene... e tu me l’hai insegnata! Quante volte il paziente, considerato magari nel suo ambiente sociale un individuo particolarmente riuscito, letteralmente si squaglia sul nostro divano e noi sappiamo che non possiamo rimettere insieme i pezzi, ma dobbiamo lasciare che il processo giunga alle estreme conseguenze, per permettere non tanto la nascita di un nuovo individuo, quanto di un essere umano più in sintonia con il proprio mondo interiore? Mondo interiore che, tanto spesso, è in contrasto con quella facciata -quel falso sé, potremmo dire- che invece il paziente ci chiede di restaurare. Quante volte, invece, lo psicoterapeuta -per conformismo, amore del quieto vivere o timore di una denuncia all’Ordine degli psicologi o addirittura alla magistratura...- a questo punto rinuncia alla propria funzione realmente terapeutica e si prostituisce, svendendo per pochi denari la propria dignità esistenziale, prima ancora che professionale?
Il problema, fondamentalmente, è questo: o accompagnamo il paziente a comprendere che -come individuo, ma soprattutto come essere umano- egli è un enigma o, per nostre meschine motivazioni, lo turlupiniamo, convalidando tutte le sue illusioni su chi veramente egli sia. Non avremmo a quel punto il coraggio di Tiresia, servo di Apollo, ma vilmente compiaceremmo il paziente come soggetto giuridico, per perderlo invece su un piano più profondo e più vero, rinunciando a un rovesciamento di prospettiva. E’ questa riunione di termini inconciliabili -il soggetto giuridico, la persona rispettabile e il soggetto dell’inconscio, il mondo del desiderio- che la terapia opera, ponendo l’individuo innanzi all’enigma che egli stesso rappresenta. Perché questo accada, però, occorre amore per la verità, sia sul versante del paziente sia su quello del terapeuta. E’ questo amore, che oggi tende a mancare e senza il quale la nostra pratica rischia di divenire avvilente per entrambi i protagonisti.
Più la terapia procede, più il paziente si accorge che la “volontà” sta lasciando spazio al destino: egli, come Edipo, si scopre sempre meno soggetto attivo e sempre più vissuto da storie e da forze che sono sì in lui, ma che egli avverte come estranee: questo disvelamento è sempre, almeno all’inizio, doloroso e può essere affrontato solo se c’è, come si espresse una volta una paziente, la voglia di vedere come va a finire... Senza questa motivazione, il lavoro terapeutico sarebbe vuoto e banale, quasi una semplice opera di restauro di un monumento narcisistico che perde pezzi in continuazione.
E’ questo il vero passaggio a una dimensione "transpersonale", che non è tale in quanto più nobile, alta o spirituale, ma in quanto indica quanto poco noi siamo gli artefici della nostra vita. Anzi, come Edipo, più ci sentiamo attivi, più costruiamo la nostra rovina. La psicoterapia, quando non è una misera attività consolatoria, porta a imbattersi in questa dimensione dell’esistenza umana, quando un altro senso, opposto e contrastante rispetto a quello atteso, emerge dalle azioni del paziente. A quel punto egli continua a esistere, ma come soggetto di una storia che si è scritta in un’altra dimensione, rispetto a quella che egli credeva di aver costruito: la psicoterapia ha effetti stranianti, perché in essa il paziente conosce sì se stesso, ma certo non nel modo che si sarebbe aspettato.
Gli esponenti della psicologia transpersonale, che così spesso pretendono di portare il paziente “al di là dell’io”, non si accorgono che questo “al di là” è già nella sua storia: è l’altro senso che i suoi propositi, le sue azioni e i suoi risultati assumono, più egli cerca di chiarirsi a se stesso. E’ il doppio senso ineliminabile dalla dimensione umana e contro il quale sorge ogni fantasia di armonia, totalità o unione. Non c’è nessun luogo ove andare, se non quello in cui già ci troviamo. Non c’è nulla da raggiungere, se non ciò che già abbiamo. Non c’è da essere, se non ciò che già siamo. Chi non comprende ciò, non può che cercare di combattere il materialismo in nome dell’idealismo, rinfocolando così ancora una volta il dualismo, l’integralismo e quindi l’illusione...
Più l’altra verità avanza, più Edipo è combattuto tra il vederla e il rifiutarla: si aggrappa a ogni appiglio che la rinvii -le parole di Giocasta, in primo luogo-, ma essa avanza spietata e inevitabile. La madre e sposa tenta di rassicurarlo, parlandogli del vaticinio che avrebbe voluto Laio ucciso dal figlio, del suo viaggio a Delfi e dell’effettivo assassinio, compiuto a un incrocio di tre strade, ma tutto ciò ha un effetto contrario ed Edipo si angoscia sempre più, implora Zeus chiedendogli che cosa voglia fare di lui e comprende che le maledizioni appena scagliate contro l’omicida del vecchio re gli si ritorceranno contro. Giocasta, poi, descrivendogli l’aspetto fisico di Laio, pronuncia parole che, se non fossero per noi drammatiche, suonerebbero ironiche: il suo precedente marito non era, infatti, dissimile dal nuovo...
Edipo racconta allora a Giocasta la propria storia, o meglio quella che credeva essere la propria storia: la nascita a Corinto dai genitori Polibo e Merope, i dubbi sulla propria nascita, il viaggio a Delfi, la lite per un diritto di precedenza a un trivio, l’uccisione del vecchio e della sua scorta... Ma forse una speranza c’è: forse l’unico superstite alla strage può testimoniare che gli assassini furono molti, non uno solo. Presto, bisogna chiamarlo!
Ma ecco giungere un nunzio da Corinto: Polibo è morto, Edipo può ritornare e divenire re. La speranza rinasce, ma solo per brevi attimi, poi nuove parole del nunzio avvicinano ancor di più alla verità e alla vera storia di Edipo: l’incontro con un pastore tebano, la presa in consegna del piccolo Edipo, i suoi piedi traforati... E il corifeo annuncia che il pastore e l’unico sopravvissuto al massacro sono la stessa persona. Giocasta ha ormai capito tutto, ma tenta un ultimo disperato tentativo di distogliere Edipo e di convincerlo che queste sono tutte ciarle. Edipo, ancora una volta, fraintende e crede che la propria sposa si vergogni per le sue umili origini. L’equivoco, però, dura poco, perché ecco subito comparire il pastore, scontroso, pieno di ritrosia, ma che non può non confermare ciò che ormai appare chiaro e che Edipo grida prima di precipitarsi ad accecarsi: “Io che da chi non dovevo nascere sono nato, io che con chi non mi dovevo congiungere mi sono congiunto, io che chi non dovevo uccidere ho ucciso!” A questo punto, il coro non può non commentare: “Ahi progenie di mortali, come simile al nulla è vostra vita! Di felicità non più che un’apparenza ha ciascuno, e anche questa, appena avuta, subito declina e cade. Solo che a te come esempio io guardi e alla tua vita, Edipo miserando, cosa nessuna io reputo dei mortali felice.”
Allora tutto precipita. Giocasta, delirante, corre verso il talamo nuziale, strappandosi i capelli: geme, chiama Laio, impreca contro il letto, ove dal marito partorì un marito e figli dal figlio. Ma ecco irrompere Edipo, come pazzo, chiede una spada e di sapere dove sia la donna, si avventa contro la porta del talamo nuziale, la scardina, trova la madre e sposa impiccata, taglia il cappio, le strappa le fibule d’oro che le trattenevano le vesti e con esse si acceca...
Edipo, che tanto orgogliosamente all’inizio della tragedia affermava “io so!”, ora si trova schiacciato da un altro sapere, che è emerso gradualmente e che egli ha contrastato, a cui, potremmo dire, ha resistito. Gli resta solo l’esilio.
E' a questo infausto destino che, con le nostre umili forze, cerchiamo di sottrarre il paziente...