UNA PSICOLOGIA PERENNE?
di Adalberto Bonecchi
La mistica: uno stato della coscienza. Alcuni ritengono che per occuparsi seriamente di mistica si dovrebbe dare per acquisita una fede di base nell’esistenza di Dio e del suo rivelarsi agli uomini. Questo approccio, che certamente ha le proprie giustificazioni storiche, è però limitato e limitante, in quanto esclude già dal proprio campo di indagine ricche tradizioni, quali ad esempio il Taoismo e il Buddhismo, che non sono teiste, almeno in senso stretto. Se dunque non si vuole cadere nel vecchio pregiudizio, secondo cui in fondo la vera mistica sarebbe solo di tradizione giudaico-cristiana, occorre estendere le proprie prospettive, anziché imbrigliarle in limitazioni che non hanno più ragione d’essere.
La mistica, infatti, non è riconducibile ad alcuna religione particolare, né a una generica spiritualità. E’ piuttosto uno stato di coscienza, in cui mutano i rapporti con il mondo interno ed esterno e cessa la sensazione di essere un’entità incapsulata nella pelle e in continuo potenziale contrasto con l’altro uomo e la natura, in un universo indifferenziato, se non ostile.
Dal tempo all’eternità. La mistica è un passaggio dalla dimensione del tempo a quella dell’eternità, in cui la nozione stessa di tempo cronologico -e quindi anche di storia individuale e collettiva- si dissolve. Ciò porta a conoscenze e modalità di approccio alla “realtà” non accessibili in stati di coscienza ordinari, in cui le acquisizioni intellettuali avvengono di solito deduttivamente.
Non per questo però si devono trarre conclusioni irrazionaliste e antintellettuali, quasi come se nella mistica vi fosse in gioco solo una non meglio precisata “intuizione”. Questa impostazione ingenua trascura infatti che, poiché spesso l’esperienza mistica può essere preparata, essa non sempre presenta i tratti spontanei che le vengono attribuiti.
Il punto centrale della mistica -a cui si può giungere attraverso varie vie fideistiche o devozionali, ma anche scientifiche- consiste nella sensazione più o meno lucida e carica emotivamente che la natura ultima dei fenomeni e quindi anche dell’io non sia quella che solitamente ci appare. A questo punto, la vita assume un nuovo gusto che, se si riesce a evitare il terrore annichilente, tende verso la gioia estatica. In ogni caso, non vi è nulla di irrazionale in questo: si stanno solo sperimentando nuove dimensioni, che hanno una propria logica. I risultati di questa esplorazione, però, dipendono molto dalla sensibilità individuale: poiché infatti non è da tutti saper cogliere il tempo eterno, può facilmente sorgere l’impressione che questa conoscenza sia irrazionale; lo stesso mistico può cadere in tale errore, se non sa trovare parole pregnanti per esprimere ciò che sta accadendo.
I rischi della filosofia perenne. Il fatto che il fenomeno della mistica si sia così diffuso in epoche e culture differenti ha portato alcuni studiosi a considerarlo una sorta di filosofia perenne, al di fuori dello spazio e del tempo. Così facendo, però, si confondono ancora una volta l’esperienza e la conoscenza mistica dirette con le teorizzazioni che se ne possono fare: l’esperienza di unione e la conoscenza che la Realtà è Una sono infatti di per sé ineffabili e noi possiamo solo constatare alcune similarità nei modi con cui esse sono state descritte in momenti e luoghi differenti. Parlare di filosofia perenne non è dunque del tutto esatto, né del tutto errato. E’ infatti “perenne” -ma nel senso che trascende il tempo, non che si ripete in esso- l’esperienza che i mistici fanno, mentre varia la descrizione che essi ne danno, nonostante alcune similitudini possano trarre in inganno e portare a credere che appunto esista una filosofia imperitura, che si ripete in luoghi e tempi differenti. Ma la mistica è la realizzazione diretta della natura dei fenomeni, non la filosofia -che in quanto tale è contingente- con cui essa viene poi detta al mondo.
I quattro cardini della filosofia perenne. Ad ogni modo, può ora essere utile ripercorrere i tratti salienti della “filosofia perenne” che, ricordiamolo, è una costruzione degli studiosi, non l’esperienza dei mistici.
In primo luogo, secondo la filosofia perenne il mondo fenomenico di materia e di coscienza individuale è solo una realtà parziale, in cui si manifesta un fondamento divino. Intorno a questo punto ruotano diverse domande, per l’uomo esistenzialmente inevitabili: qual è la natura della realtà? Quanto la nostra immagine di essa dipende dalla nostra limitata capacità percettiva? Quale immagine ci faremmo della realtà, se le nostre capacità cognitive fossero superiori?
In secondo luogo, dunque, la filosofia perenne afferma che l’uomo per sua natura può non solo avere una conoscenza deduttiva del fondamento divino della realtà, ma può anche accedervi mediante una percezione diretta, che è superiore alla deduzione, in quanto in essa il conoscitore e il conosciuto sono in qualche modo uniti.
Ciò è possibile grazie al terzo punto fermo della filosofia perenne: la certezza che nella natura dell’uomo convivano due sé. Uno di questi è fenomenico e, poiché risulta facilmente percepibile, quasi sempre ci si identifica con esso, considerandolo addirittura l’unico. L’altro sé invece non è fenomenico e quindi è più difficile da cogliere, ma la filosofia perenne afferma che è possibile identificarsi anche con esso e quindi con il fondamento divino, di cui condivide la natura.
Lo scopo dell’esistenza è pertanto, secondo la filosofia perenne, lo scoprire e l’identificare il proprio vero sé, giungendo così a una conoscenza intuitiva del fondamento divino, al di là delle nostre limitate percezioni: a questa dimensione sono stati dati nomi differenti in varie tradizioni, quali vita eterna, salvezza, illuminazione e così via.
Questi quattro punti si fondano su due convinzioni fondamentale della filosofia perenne: la prima è che gli esseri umani possiedano una sorta di facoltà, in grado di discernere la verità spirituale e di offrire un maggior affidamento di quello fornito dagli altri organi di percezione nel loro campo. La seconda è che per poter discernere la verità spirituale gli uomini debbano essere spirituali nella loro essenza: per conoscere il divino devono infatti in qualche modo esserlo a propria volta, almeno in potenza.
I livelli di coscienza nella psicologia perenne. Ken Wilber ha proseguito l’indagine di una dottrina universale sulla natura dell’uomo e della realtà che si trova al cuore delle maggiori tradizioni metafisiche, arrivando a parlare di psicologia perenne, vale a dire di una visione universale della natura della coscienza umana, che esprime le stesse realizzazioni della filosofia perenne, ma in un linguaggio più decisamente psicologico.
L’indagine di Wilber prende le mosse dal fatto che la personalità umana sarebbe una manifestazione a diversi livelli di un’unica coscienza. Da qui la necessità per Wilber -e per vasti settori della psicologia transpersonale- di individuare lo spettro della coscienza come approccio pluridimensionale all’identità umana, in quanto ogni livello dello spettro è caratterizzato da un differente e facilmente riconoscibile senso di identità personale, che dalla coscienza cosmica giunge gradualmente al ristretto senso di identità associato con la coscienza egoica.
Al cuore della psicologia perenne, troviamo che la più riposta coscienza dell’uomo è identica alla realtà assoluta e ultima dell’universo, conosciuta come Brahma, Tao, Dharmakaya, Dio, Allah ecc. La psicologia perenne chiama questa realtà Mente, scritta con la maiuscola proprio per distinguerla dall’apparente pluralità di singole menti. In quest’ottica, la Mente è tutto ciò che è, senza spazio e perciò infinita, senza tempo e perciò eterna. Al di fuori di essa nulla esiste.
A questo livello di coscienza, l’uomo è identificato con l’universo: anzi è il Tutto. Sebbene possa sembrare uno stato alterato di coscienza, questo secondo la psicologia perenne è l’unico stato reale di coscienza, in quanto gli altri, come vedremo, sono essenzialmente illusori.
Nel processo di differenziazione, subito dopo la Mente troviamo le Bande Transpersonali, che rappresentano quanto vi è di sovraindividuale, allorché l’uomo non è conscio della sua identità con il Tutto, senza tuttavia che la sua identità sia confinata nei lacci di un organismo individuale.
In seguito abbiamo il Livello Esistenziale, in cui l’uomo è identificato esclusivamente con il proprio organismo psicofisiologico nell’ambito spaziotemporale: è come se fosse stata tracciata una linea netta tra sé e l’altro, tra l’organismo e l’ambiente, in questo che è il livello della razionalità, della volontà, dell’introiezione dei parametri culturali e delle relazioni familiari.
Al Livello Egoico, invece, l’uomo non è direttamente identificato con il proprio organismo psicosomatico, ma solo con una sua più o meno precisa rappresentazione: l’io, appunto. Vi è qui la frattura tra psiche e soma e uno sbilanciamento verso la prima che porta ad esempio a credere di “avere” un corpo.
A questo punto, è breve il passo verso il quinto livello, quello dell’Ombra, caratterizzato da un’ulteriore frattura tra le immagini positive e negative (l’ombra, appunto) di sé. Tutte le proprie tendenze e rappresentazioni spiacevoli o condannabili non sono più riconosciute, ma vengono relegate nell’ombra, una sorta di sgabuzzino in cui immagazzinare e nascondere tutto ciò di noi stessi che per qualche motivo non ci piace.
Perché l’illusione? Al di là dell’accettazione o meno dei singoli livelli di organizzazione (lo stesso Wilber ha proposto classificazioni più precise e dettagliate), è importante riprendere una domanda centrale in questo filone della psicologia transpersonale: se infatti il livello della Mente universale è l’unica realtà, perché di fatto ci troviamo poi catturati nell’illusorietà degli altri livelli? Secondo la psicologia perenne, è il dualismo a creare questo velo di illusione, però questa risposta allontana solamente il problema, senza risolverlo. Da dove sorge infatti il dualismo? Perché tutti noi creiamo barriere, che ci imprigionano dolorosamente? Non sarebbe ben più semplice dimorare tranquilli sin dall’inizio nella Mente?
Un nuovo dualismo. Forse questi problemi sorgono perché la psicologia perenne tenta di spiegare cronologicamente, in termini di sviluppo, ciò che per essere compreso richiede invece una radicale reinterpretazione del tempo stesso. Non vi è infatti alcun prima in cui tutto era Mente: è solo un’illusione di ora (ma anche parlare di “ora” è un’illusione...) il crederlo. Che cosa significa ciò? Semplicemente che noi non possiamo spiegare dualisticamente ciò che non è dualista. Se invece crediamo che il dualismo sia il male all’origine di tutte le nostre sofferenze, ne creiamo di fatto una nuova versione, più sottile e quindi anche forse più pericolosa.
Le esposizioni della psicologia perenne oscillano spesso tra il riconoscimento di questa verità che sfiora l’ineffabile e le reiterate filippiche contro il velo illusorio di Maya, che non fanno altro che aggiungere un nuovo dualismo ai molti che già ci dominano.
Non è però certo il caso di demonizzare il dualismo, che è indispensabile quando ci muoviamo nel mondo fenomenico. Si tratta invece di realizzare direttamente -nella contemplazione, ma anche nell’azione- che contemporaneamente al dualismo è possibile una visione unificante mistica.
Possiamo allora parlare di un’origine del dualismo solo in forma mitica, come i Greci con il mito di Crono, il quale evirando il padre Urano (il cielo) lo staccò da Gaia (la terra), a cui era “prima” indissolubilmente unito.
La psicologia perenne: un mito contemporaneo. Questo è il mito greco. Per quanto ci riguarda, la visione mistica coglie contemporaneamente la differenza tra cielo e terra e la loro unione, mentre la psicologia perenne -che non è mistica, ma una psicologia della mistica- costruisce un mito in apparenza universale, ma in realtà adatto alla cultura in cui ci troviamo, per spiegare il nostro essere imprigionati nel velo illusorio del dualismo. Attribuire una maggiore realtà alla psicologia perenne sarebbe quindi un’ulteriore prova di accecamento.