25 aprile




Vi e' mai capitato di fare qualcosa e di avere al contempo la sensazione di averla gia’ fatta, di sapere gia', in un certo senso, come andra' a finire?
Ecco, e’ esattamente cio’ che provai io quando varcai la soglia che conduceva agli appartamenti della Signora Fosca: mi sembro’ ci aver gia’ vissuto quello specifico istante ed ebbi la certezza che stava per accadere qualcosa di insolito, forse sgradevole.

La premonizione duro' solo un attimo, evanescente come l'ombra di un fantasma, e mi lascio' sola di fronte al grande letto sul quale l'anziana, ormai, trascorreva gran parte delle sue giornate.

Trasalii, quando la Signora mi chiamo' con voce lenta, roca ma sonora: << Nadja >> disse << tu sei al mio servizio da quando eri bambina e per me sei come la figlia che non ho mai avuto. >>
<< Signora >> l’interruppi << voi mi confondete >> ed ero sincera.
<< Ascoltami, Nadja >> continuo' lei, come se non avessi proferito parola << sento che non mi resta ancora molto... >>
<< Ma cosa dite, Signora Fosca, certe cose non si pensano neppure! >>
<< Non ti angustiare, piccola mia >> prosegui' lei imperterrita.
<< Guardami. Sono cosi' vecchia che non ho piu' coetanei.
Sono cosi' vecchia che quasi non ricordo di aver avuto la tua eta'.
Quando si arriva a tanto, figlia mia – posso chiamarti cosi', vero? – ci si accorge di avere piu' affinita' con la morte di quanto si sarebbe mai sospettato. >>
<< Suvvia >> dissi, piu' per decenza che per convinzione << porta male dire certe cose! >>

Fu allora che accadde un evento raro: vidi la Signora scossa da quel sussulto silenzioso, tremolante e un po' ironico di cui talvolta ridono i vecchi. Quando si riprese, continuo':
<< Ascolta, ragazza mia, questo corpo decrepito e' una gomena logora che lega il mio spirito ad una baia che non gli appartiene. Presto questa gomena si spezzera' e il bastimento prendera' il largo per andare la dove il destino lo chiamo' tanti anni orsono, ma prima che cio' accada ho bisogno di un favore da te. Non e' un ordine – bada – ma una cortesia e se avessi discendenti mi rivolgerei ad uno di loro >>.
La mia mente vacillo’ per un attimo al cospetto d’una si’ pomposa retorica, ma presto mi ripresi e domandai sollecita: << Cosa volete che faccia, Signora Fosca? >>.
<< Prendi questa chiave >> mi disse << e' dello scrigno verde. Portalo nella tua stanza. Aprilo. Capirai da sola cosa fare >>.
<< Lo Scrigno Verde, siete sicura... >> balbettai incredula, col sincero turbamento di un suddito emozionato.
<< Si, figlia mia >> ribatte' lei, assumendo l'intonazione di voce di chi e' avvezzo ad essere ubbidito << e ora va e fa quello che ti ho chiesto. Per piacere. >>.

Lo Scrigno Verde era l'unico monile di cui la Signora Fosca fosse mai stata gelosa: si trattava infatti di un raffinato capolavoro, orgoglio del miglior mastro orafo della Serenissima. Un gioiello fatto di lamine d'oro modellate in forma di foglie d'edera e intrecciate tra loro in un intricato gioco di sbalzi e sovrapposizioni. Un oggetto impreziosito da tanti, piccoli e luminosi smeraldi che, facendo capolino tra l'aurea vegetazione, ne avevano condizionato il nome.

Si diceva che il prezioso contenitore non fosse mai stato aperto, nemmeno dalla Signora, percio' potete ben immaginare quanto fossi curiosa mentre lo portavo nella mia stanza. Curiosa come una gazza, si, lo sono sempre stata, ma al contempo timorosa che qualche forza sovrannaturale, negativa, diabolica mi vedesse e mi sottraesse lo scrigno o, peggio ancora, che qualche lurido bastardo mi accusasse di furto.

Fortunatamente non accadde nulla del genere ed io approdai nei miei alloggi senza sorprese, accompagnata solo da un martellante batticuore.
Chiusi a chiave la porta e mi assicurai che persino le finestre fossero sigillate, nonostante la giornata fosse calda e ricca d'umidita' come spesso capita nelle estati lagunari.
Poi mi sedetti sul letto con lo scrigno in grembo, inserii la chiave nella serratura, la girai e il meccanismo scatto' silenzioso, come se venisse oliato regolarmente.
Sollevai lentamente il coperchio con la testa che mi girava un po', forse eccessivamente esaltata dal miraggio dei tesori che di li a poco avrei carpito con le mie avide manine.

Potere ben immaginare il mio scorno quando nel velluto del comparto interno (verde, naturalmente) trovai solo un plico di pergamene e una specie di rametto, anzi no, non un rametto, ma un fiore. Si, probabilmente una rosa. Secca e fragilissima. Certamente piu' vecchia di me.
Ebbi quasi un cedimento.
Non capivo...
Perche' mai la Signora Fosca era cosi' gelosa di questo ciarpame?
Folgorata da una spavalda intuizione, svuotai lo scrigno alla ricerca di un doppiofondo, ma evidentemente era destino che il mio interessato zelo fosse frustrato dall'insuccesso. Piombai allora in un tale stato di sconsolata prostrazione da ridurmi a frugare tra le pergamene per soddisfare almeno la curiosita', dato che il mio io cupido e rapace era costretto a leccarsi le ferite.

Anche un osservatore distratto avrebbe subito notato che i manoscritti appartenevano a due differenti autori: alcuni erano infatti della Signora Fosca, altri, viceversa, avevano la calligrafia piu' spigolosa e sgraziata di un uomo.
I primi sembravano pagine di diario, i secondi, invece, erano senza dubbio il frutto di una corrispondenza.
Tutte le pergamene erano state accuratamente piegate e siglate per mezzo di una data. Tutte tranne una che, sola, era intonsa e sigillata con lo stemma del casato.
Meccanicamente le ordinai per cronologia e misi per ultima quella con la ceralacca. Poi mi immersi nella lettura, con lo zelo stacanovista di una virtuosa del gossip.

A.D. 866, maggio
<< Sono fortunata. Mio padre e' un uomo saggio e di cuore almeno quanto si dice sia stato un valente guerriero in gioventu'.
Stamane ha declamato pubblicamente la sua rinunzia nello scegliermi un consorte e contestualmente ha abdicato a me questa facolta', purche' >>Egli sia una persona di rango e stimata dal Consiglio >>.
Senza dubbio la sua decisione e' influenzata tanto dall'affetto quanto da ragioni politiche, poiche’ un suo intervento ufficiale nella scelta di un pretendente, da un lato farebbe la felicita' di uno, ma dall'altro sarebbe cagione di scontento per molti.
Mio padre deve aver riletto l'Iliade e scovato tra le parole dell'astuto Odisseo quest'espediente che “non modo” trae lui d'impaccio, “sed etiam” concede a me, sua unica figlia, un privilegio raro tra le mie pari.>>

Si, ero al corrente di questa storia, perche' la decisione del Doge Orso I Partecipazio, defunto padre della Signora Fosca, fece scalpore ai suoi tempi e al contempo ricevette il plauso del Maggior Consiglio il quale apprezzo' l'abile mossa diplomatica astutamente celata dietro un atto di bonomia paterna.

Ne ero al corrente, come sapevo della leggendaria bellezza della Signora, ereditata con le origini bizantine del casato.
Si diceva infatti che fosse d'incarnato bruno, mora di chioma e alta come un uomo.
Si diceva che i suoi capelli fossero mossi come cirri, che si spandessero in morbide volute fin quasi alla cinta e che avessero lo stesso spirito fiero e ribelle della loro padrona.
Si diceva che la Signora sfoggiasse un seno ricco ed orgoglioso, ma al contempo avesse ereditato il fisico atletico del padre, che, com'e' noto, era slanciato ed ampio di spalle.
Questo ed altro ancora, si diceva, anche se ormai il tempo aveva svuotato le parole di sostanza... Eppure un unico tratto della Signora era stato risparmiato dall'impietoso incedere della vecchiaia: i suoi occhi espressivi e dolci che nel colore grigio metallico richiamavano e allo stesso tempo bisticciavano col nome.

A.D. 866, giugno
<< Fosca, amore mio diletto, vostro padre e' un uomo eccezionale: e' un prode guerriero, un condottiero illuminato, un padre premuroso, un santo. Vi do la mia parola che se non fosse blasfemo lo adorerei come faccio con Nostro Signore.
Mia diletta, io non sono uomo di rango ne' il mio nome e' rinomato in citta', ma cio' che non si ha per nascita lo si puo' conquistare con la fede, col coraggio e con la spada.
Ho deciso quindi di imbarcarmi sui legni che vedono garrire il nostro leone, giacche' il capitano Erizzo, che e' un buon amico della mia famiglia, ha accettato di prendermi con lui.
Vedrete, mia diletta, sapro' far valere il mio nome e quando tornero' potro' chiedere ufficialmente la vostra mano.
So che mi aspetterete, me ne avete data la prova piu' dolce che un innamorato possa sognare.
Vostro, Marco.>>

Dunque era una lettera del promesso sposo della Signora... non sapevo si chiamasse Marco, anzi, ad essere onesta di lui conoscevo ben poco. Avevo sentito dire che era uno spasimante di bellezza paragonabile a quella della sua amata, scaltro e temerario, ma di bassa estrazione sociale. Nulla di originale, insomma, perche' nelle leggende nessun innamorato traumatizza mai per il suo aspetto inquietante.
A dire il vero avevo anche provato ad indagare con elegante discrezione, ma la Signora aveva sempre sviato la conversazione o mi aveva ignorata o si era limitata a volgere lo sguardo verso S.Giorgio, la laguna e le porte da mar, perdendosi in uno di quegli spazi che si possono vedere solo con gli occhi dell'anima o attraverso le ombre dei ricordi.
In poche parole era un argomento che la Signora non amava trattare ed ora mi si presentava la ghiotta chance di scoprire il perche'.

A.D. 866, ottobre
<< Marco, Marco, o indimenticabile Marco, un giorno senza di lui e' eterno come una stagione piovosa.
Ogni tanto arriva una sua lettera e allora la mia vita si tinge di tutti i colori del creato e anche di qualcuno in piu'.
Non ho rimpianti per essermi concessa a lui prima della partenza come avrebbe fatto una moglie devota. Anzi, sono felice di avergli donato un pegno d'amore davvero unico e ben piu' concreto di un drappo, di un ninnolo o di un monile dozzinale >>

Sussultai di sincero rossore di fronte ad una rivelazione tanto scabrosa, ma proseguii nella lettura senza tentennamenti, stregata dal dolce, poco nobile ma molto umano, sapore del pettegolezzo.

<< Sono convita che esso gli dara' piu' forza e determinazione di una profumata sciarpetta, e spero in cuor mio che la concretezza della nostra passione gli ispiri prudenza.
Sarebbe sconveniente confessarlo a qualcuno, ma ogni mattina io mi sveglio con la speranza di averlo accanto e ogni sera mi addormento sognando, senza pudori ne' vergogne, il giorno in cui lo serviro' come moglie. La solitudine delle coltri e l'incerta luce del vespro sono gli unici, muti testimoni della mia passione.
Pazienza. Devo avere pazienza.

Le notizie qui, a Venezia, giungono veloci, portate dai marinai, traghettate dalle agili lingue dei mercanti, e talvolta – quando saettano fulminee di bocca in bocca – si dice giungano persino volando sulle ali dei gabbiani.
“La guerra sta andando bene” dicono tutti.
Gia', i pirati Narentani sono stati schiacciati dalla flotta di Erizzo. Le isole dalmate sono state in buona parte liberate e il nostro leone alato domina le acque fino ad Ancona, fino a Spalato e ancora piu' a sud.

Eppure io, figlia e nipote di guerrieri, anche se non ho mai imbracciato un'arma so bene che belva spietata sia quella compagna che gli uomini sognano in gioventu', cavalcano in eta' matura e, se sono fortunati, cantano con nostalgia in vecchiaia. Quella fiera che tutti chiamano guerra, io la conosco e la temo.
Ma non devo pensarci, cosi' come non devo dar credito a tutte le voci che si sentono nei mercati. Devo solo aspettare.
Pazienza. Devo avere pazienza.>>

Ormai la lettura delle pergamene mi aveva talmente rapita che le divorai con avidita', mettendo a nudo via via i sentimenti piu' intimi della Signora e giungendo quasi a condividerli tanto la trama era coinvolgente.
Fui quasi altrettanto colpita dalle lettere di Marco, brevi, un po' rozze ma intense. Intrise di un amore tenero e sincero, mielato qua e la da stucchevoli smancerie. Adorabile.
Le lessi tutte, senza fermarmi, finche' non giunsi alle ultime due:

A.D. 867, aprile
<< Fosca, amor mio, grandi notizie.
Ieri abbiamo sbaragliato la flotta dell'Emiro di Bari: i legni saraceni giacciono in fondo al mare, ormai, o sono nostra preda o fuggono in disordine verso levante.
Ma questi son marginali dettagli, Fosca mia, rispetto a cio' che realmente ho da dirvi.
Nella battaglia ho spinto la galea nel cuore dello scontro e le azioni mie e dei miei marinai hanno tanto compiaciuto il Capitano da Mar che ha deciso di concedermi il piu' alto degli onori: portero' infatti personalmente i vessilli e le insegne strappate al nemico al cospetto del vostro Serenissimo padre e del Maggior Consiglio.
Comprendete? E' il riconoscimento ufficiale che tanto bramavamo e con esso c'e' il lasciapassare per i nostri sensali.
Vi giuro sul mio onore, Fosca, consegnate le insegne, vi chiedero' in sposa.
Vostro, Marco.>>

Ed infine, l'ultima, la piu' recente: una pergamena scritta con calligrafia storta ed irregolare, sbiadita laddove l'inchiostro si era allargato per effetto di piccole chiazze ammuffite d'umidita'.

A.D. 867, maggio
<< Oddio, oddio... Signore mio vi prego, datemi la forza di scrivere. Voi solo sapete quante volte ci abbia provato ma sia stata costretta a desistere.
Devo scrivere, ne ho bisogno, perche' solo fissando le parole sulla carta il mio cuore intendera' che tutto cio' e' avvenuto realmente e non e' frutto di un terribile incubo.
Vi prego, Signore, fammi portare a termine questo compito e io vi giuro che terminato lo scritto, pieghero' la pergamena, la rinchiudero' in uno scrigno e non la leggero' mai piu'.

Non posso riportare i miei pensieri perche' in questo momento sono cosi' confusi che otterrei solo di trasmettere lo smarrimento che ho nell'anima sulla nuda pergamena.
No, non posso farlo. Devo riportare invece il racconto di Teodoro, amico d'infanzia del mio Marco e suo compagno d'arme fin dall'inizio di questa guerra.

----- Il Racconto di Teodoro
Eravamo sulla strada di Venezia, vi dico, col nostro bagaglio di gloria e poco altro per viaggiar piu' veloci.
D'un tratto la vedetta avvisto' un malandato sciabecco saraceno, sicuramente reduce da una scorreria sottocosta e quindi carico di schiavi cristiani e di bottino.
Una preda facile, madonna, tanto che ci mettemmo subito in caccia.
Essendo il nostro legno piu' agile e i nostri marinai piu' numerosi ed esperti, in breve riuscimmo ad azzoppare il vascello nemico e lo costringemmo a riparare nella baia di un'isoletta come ce ne sono tante lungo la costa dell'adriatico orientale.

A quel punto, mentre nostromo e nocchieri mettevano alla fonda la nave, noi sbarcammo coi fanti da mar per dar battaglia.
Lo scontro coi predoni saraceni fu breve, vittorioso e quasi incruento. Solo quando il nemico era gia' in fuga vidi Marco barcollare e notai che una freccia (una di quelle a punta sottile) gli s'era infissa nel petto, sotto la spalla sinistra, insinuandosi attraverso le maglie e la corazza.
Il dardo gocciolava di un liquido color rosso carminio, e questo non e' mai un buon segno, madonna, perche' vuol dire che ha forato una di quelle grosse vene cave che portano sangue al cuore.

Marco si lascio cadere con le spalle ad un candido roseto e nel suo sguardo c'era soprattutto stupore, mentre la mano destra scorreva lungo l'asta della freccia come alla ricerca dell'impugnatura migliore per strapparla.

<< Fermo! >> gli intimai << Se l'estrai la tua vita scivolera' via con lei! >>
<< Credi che non lo sappia, Teodoro, amico mio? >> mi fece eco lui << E' da un anno che combatto sui mari e ne ho viste di ferite come questa... anche se ci fosse un cerusico avrei una possibilita' su mille di farcela >>.
E sapevamo entrambi che aveva ragione.

<< In ogni caso bisogna toglierla altrimenti la ferita si infettera'. Se, uscendo, la freccia lascera' dietro di se' solo il foro, potro' ancora sperare. Se invece portera' con se un fiotto di sangue rosso, io moriro', ma almeno sara' breve... Teodoro, voglio che sia tu a farlo. >>
Era la stessa richiesta che gli avrei rivolto io se fossi stato al suo posto, percio' non mi trovo' impreparato.

Mi chinai su di lui, puntai un ginocchio al suolo e una mano sul suo petto, afferrai l'asta e l'estrassi con tutta la delicatezza di cui ero capace.
E il sangue usci' rosso.
A fiotti.

Allora Marco mi sorrise, di un sorriso triste e malinconico. Con le ultime forze allungo' una mano e colse uno dei tanti boccioli di rosa bianca che punteggiavano i rovi attorno a noi. L'odoro' e me lo porse.
Riusci' a pronunziare il vostro nome, madonna, ma una volta soltanto.

Pochi giorni dopo, quando sbarcai tra le porte da mar, in pompa magna, con gli alfieri armati delle insegne nemiche, io in mano avevo solo un fiore, ve lo ricordate, madonna? Ecco, guidai il corteo attraverso la piazza e poi su, nel palazzo ducale. Mi diressi verso la Sala del Maggior Consiglio e, ve lo giuro, ad ogni passo lo spirito mi si confondeva sempre piu'.
Sull'uscio vidi vostro padre, maestosamente assiso sullo scranno dogale, ed alla sua sinistra vidi voi, madonna Fosca, lo sguardo sfuocato alla ricerca di qualcuno, qualcuno alle mie spalle, qualcuno che non ci sarebbe stato.

In quell'istante ogni verbo, ogni pensiero mi abbandonarono ed io avanzai nella sala come in un sogno. Cosi’ giunsi di fronte a voi e al cospetto del Doge. E vi fissavo, madonna, i miei occhi si perdevano nei vostri cercando di dirvi cio' che nemmeno con mille parole sarei mai riuscito a comunicare.
Quando compresi che avevate inteso e che solo l'orgoglio e l'educazione vi impedivano di scoppiare pubblicamente in pianto, io stesso mi sentii sopraffare e posai il ginocchio destro al suolo non, come dissero, per di omaggio alla sovranita' dogale, ma perche' schiacciato dal peso di un magone che mi moriva nel cuore.

Allora, senza pronunziar verbo, vi diedi la rosa ormai sbocciata in tutto il suo splendore, ma che, tinta di sangue, aveva cambiato il color della veste sua da bianco in scarlatto.
------------

Cosi' si conclude il Racconto di Teodoro e ad esso si accompagnano i miei ringraziamenti, Signore, che mi avete concesso la forza di vergare questa storia con le parole del solo che l'abbia vissuta lucidamente.
Vi ringrazio e mantengo la mia parola: ripieghero' lo scritto per non aprirlo mai piu'.>>

A quel punto non mi restava da leggere che la pergamena sigillata, quella senza data. Ruppi spietatamente la ceralacca e spiegai il manoscritto con una riverenza ed una lentezza nelle quali non mi riconoscevo.
Aveva la calligrafia della Signora:

<< Chiunque tu sia non sarai mio figlio ma io ti avro' amato come tale.
Chiunque tu sia, ora sei il mio confidente, il mio erede spirituale, colui che ha letto nel mio cuore i pudori piu' segreti.
Ora sai che non fu per superbia, come le malelingue sussurrano, che rifiutai tutti i pretendenti.
Sai che esercitai la facolta' di scegliere che mi fu concessa e che alla mia parola fui fedele.
Chiunque tu sia io ti chiedo un ultimo favore: prendi la rosa e riponila nelle mie mani, quando sara' il momento.
Fallo tu e nessun altro.
Come mio ricordo tieni lo scrigno e delle pergamene, quel giorno, fanne cio' che vuoi >>.

Ripiegai il manoscritto meccanicamente, fissando il vuoto, e quel vuoto pian piano si fece bruma mattutina, promessa di una nuova giornata afosa.
Era come se il tempo avesse avuto la consistenza di una nuvola, perche' io gia' vedevo davanti a me la Signora serenamente assopita nella gondola parata a lutto ed in procinto di salpare per San Michele.

Fermai il gondoliere con un cenno, poi mi chinai su di lei per scostarle dal viso una ciocca di quei lunghi capelli color della neve che tante volte avevo pettinato. Allora riposi la rosa tra il petto e le mani, come aveva desiderato. Una rosa secca, antico fiore di maggio, testimone di due vite cosi' lontane nel tempo e cosi' indissolubilmente legate.

Non appena mi scostai il gondoliere premette sul remo.
<< Ooooeeee >>.
La barca di stacco' dalla fondamenta e si accinse ad attraversare languida la laguna, accompagnata dal nostro silenzio, dal rumore dell'acqua fessa dalla chiglia e dall'onnipresente grido dei gabbiani che, come in un rito religioso, sembrano celebrare l'eternita' dell'anima cantando l'eternita' del mare.

Il garrire dei gabbiani si fece via via piu' intenso, piu' chiassoso, e si fuse con lo sciabordio dell'onde che ora non sembrava piu' prodotto dal ritmico immergersi del remo, bensi' dal piu' sonoro scrosciare di una fontana.

Un baluginio di luce.
Uno sbadiglio.
Volto la testa ed apro pigramente gli occhi. Sul comodino, vicino alla radiosveglia, due boccioli di rosa dischiudono gia' la loro veste purpurea, come tante ballerine di flamenco: li ha portati mio marito, uno per me ed uno per nostra figlia, simbolo d'amore e d'affetto, tradizione d'una leggenda antica.
San Marco, 25 aprile.

Allora mi giro, sbircio la sagoma del grosso tricheco spiaggiato al mio fianco. Senza un fruscio mi spoglio della sottoveste, poi mi avventuro silenziosa come una tigre di Mompracen. Gli mordo piano il collo, leccandolo. Gli faccio sentire le unghie sulla schiena, un seno sodo sulla guancia.
Sobbalza. Apre gli occhi.
Sshhttt senno' si sveglia la bambina.



[Ispirato ad un'antica leggenda veneziana]


Nadja Jacur

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