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C’era una volta Claudia B.
Oggi non c’è più, o almeno lo spero.
Claudia è scomparsa circa un mese fa, il 26 settembre 1946, ma la sua storia comincia quasi due anni prima.
<< Aprite la porta, per Dio! >>
Nessuno si mosse. I miei genitori ed io eravamo semplicemente pietrificati, ammutoliti dalla paura.
L’istinto ci spingeva a comportarci come quegli animali selvatici che quando avvertono la presenza del predatore si fermano, si rannicchiano, si fanno piccini piccini e chiudono gli occhi, sperando contro ogni probabilità di essere risparmiati.
<< Aprite, luridi bastardi! >>
Un calcio o una spallata incrinarono pericolosamente l’assicella di legno che sbarrava la porta. Un secondo colpo la fece letteralmente scoppiare in una fontana di schegge e subito dopo loro si riversarono dentro.
Erano in cinque o sei, non ricordo bene. Sporchi, con la barba lunga e quell’odore selvatico di chi vive nei campi.
<< Perché non volevi aprire, eh, vecchio coglione? >> un manrovescio centrò il viso di papà e il colpo fu talmente inatteso e violento da farlo ruzzolare per terra.
<< E alzati, su, non fare la commedia che tanto con noi non attacca! >> tuonò all’indirizzo di mio padre l’uomo che l’aveva colpito, un giovane robusto che dimostrava la metà degli anni del babbo e che, a differenza di lui, non aveva certo i polmoni rovinati da una vita di lavoro in acciaieria.
Contemporaneamente un altro eroe, un ragazzino che avrà avuto si e no sedici anni, scovò me e mia madre rannicchiate vicino alla vecchia stufa a legna << Eccone altri! >> gridò eccitato, e subito ci puntò contro il suo schmeisser, il suo fucile mitragliatore tedesco. Sorrideva.
<< Hop! >> uno scatto in avanti col busto e con le braccia, poi ancora un sorriso.
<< Hop! >>…
Dio… ad ogni scatto mia madre gemeva ed io mi stringevo istintivamente a lei, come se avesse il potere miracoloso di proteggermi. Ogni volta mi sembrava quasi di sentire gli spari e le pallottole che entravano nel petto, invece erano solo i rintocchi del mio cuore.
<< Ma guarda cos’abbiamo qui >> esclamò uno degli altri uomini. Spostò in malomodo il ragazzino col mitra, si avvicino a noi sorridendo come una faina e mi accarezzò piano la guancia. Poi scese. Scese lungo il collo, la gola, le spalle… quando arrivò al seno la sua mano si chiuse ad artiglio. Non lo strinse forte, ma di certo ne saggiò la consistenza e lo esplorò con gusto.
Scattai indietro e cercai di sottrarmi alla sua presa. Ero troppo spaventata per riuscire ad organizzare una difesa più efficace: non ero nemmeno in grado di sillabare un semplice “no”.
Fu un suo compagno a salvarmi: << Lascia perdere, Lupo, non abbiamo tempo per queste boiate… Magari un'altra volta, eh? >>
Subito dopo e con sensibile cambio di tono nella voce, lo stesso individuo si rivolse a mio padre << Allora, vecchio, vediamo di fare in fretta. Dimmi dove hai nascosto la farina e noi ce ne andiamo, capito? Farina, patate, rape… tutto il cibo che hai >>
<< Ciò che abbiamo non basta nemmeno per noi >> cercò disperatamente di spiegare papà << Non ho un lavoro perché la fabbrica è stata bombardata. Non ho nemmeno campi. Ho solo un orto e… >>
Il babbo venne interrotto da un violento ceffone che gli investì la bocca e il viso << Allora non hai capito, stronzo! È per quelli come te che combattiamo ed è tuo dovere dividere con noi ciò che hai. Ce lo devi, capisci? >> urlò il capobranco << Quindi hai due possibilità: o collabori, o per me diventi uno sporco fascista. Ci metto un attimo a dar fuoco a questa catapecchia… con te dentro, magari. Vut scumettar che questo chiarirà le idee anche tuoi ai vicini? >>
Papà è sempre stato un buono e un duro. Gran lavoratore, serio e testardo, ma mai troppo rapido di intelletto: << Non abbiamo niente >> rispose dunque con ostinazione.
L’eroe lo guardò un attimo negli occhi. Poi, velocissimo, quasi invisibile, il primo pugno si schiantò sul viso del babbo. Lui scivolò a terra con un gemito e li ne arrivarono altri, insieme ai calci, alle scarpate, ai colpi dati col fucile mescolati con bestemmie e minacce: una sagassata di botte che sembrava non finire mai.
Mamma scattò subito in avanti per aiutare papà, ma il ragazzino armato di mitra la fece crollare bocconi con uno sgambetto. Prima che mamma riuscisse a capire cos’era accaduto il giovane si era già seduto cavalcioni su di lei, bloccandola e ridacchiando fiero della sua bravata.
A quel punto mamma cedette e, tra le lacrime, indicò loro il nascondiglio della nostra piccola riserva di cibo: in una vecchia botte mezza marcia e coperta da un velo di legna da ardere.
Si presero tutto, nonostante le suppliche e le preghiere. Senza pietà, “perché mio padre doveva imparare”. Minacciarono persino che sarebbero tornati, un giorno, magari a guerra finita, perché la nostra non poteva essere una famiglia di patrioti e pertanto la dovevamo pagare.
Per fortuna non li rivedemmo mai più, ma da quel giorno di gennaio per noi cominciarono tempi davvero duri. Mia madre si ridusse a chiedere la carità ai vicini: bucce di patata, cipolle muffite, quello che le davano. Papà ed io, invece, andavamo in cerca di erbe e di radici, di qualunque cosa fosse vagamente commestibile, e nonostante i parenti ci aiutassero come potevano, ben presto cominciammo a sentire i morsi della fame.
È terribile avere sempre fame, sapete?
È un dolore sordo e costante al ventre. Ti addormenti con lui, lui spadroneggia nei tuoi sogni, ti sveglia all’alba e ti tormenta fino a sera.
Non ti abbandona mai, nemmeno quando riesci a trovare qualcosa da mettere sotto i denti. In quei casi, al contrario, si fa più acuto e tormentoso e sembra che la tua pancia, stuzzicata da un boccone insufficiente, cerchi di mangiare se stessa, di digerirsi in una sorta di doloroso autocannibalismo.
Se mai vi accadesse di provare un patimento del genere non sareste più capaci di dimenticarlo, ve lo giuro: vi resterebbe nelle viscere per sempre come è successo a me.
Dio, almeno fossi stata un ragazzo robusto avrei potuto lavorare per i tedeschi e se solo Luigi fosse stato con noi… oh, non ci voglio pensare.
Invece mio fratello Luigi, più vecchio di me di tre anni, era stato richiamato alle armi nel ’42 insieme a tutti quelli della sua classe, poi era stato inviato come rincalzo sul fronte jugoslavo ed infine, dopo l’otto settembre del ’43, era stato catturato dai tedeschi.
A quel tempo nessuno ci capiva più nulla. Non si sapeva se i tedeschi erano alleati o nemici e perciò, nel caos, per loro fu cosa facile disarmare i nostri soldati e deportarli in massa nei campi di concentramento.
Luigi finì in Polonia, in un posto chiamato Biala Podlaska, e da li riuscì perfino a scrivere a casa un paio volte. Poche notizie frammentarie, ma almeno sapevamo che era ancora vivo.
Forse questa consapevolezza fu l’unico sollievo in quei mesi di indigenza. Per il resto, in famiglia ci aggrappavamo alla speranza che presto, con la fine della guerra e con l’arrivo degli americani, le cose migliorassero.
In realtà, dopo la liberazione di Bologna del 21 aprile, per noi non cambiò un bel nulla e papà, sempre tormentato dalla tosse, a volte non aveva nemmeno la forza di alzarsi dal letto.
Fu così che presi una decisione che avrebbe cambiato la mia vita.
Con una disperazione che non so descrivere e con l’assoluta prostrazione, con la totale rassegnazione di un manzo condotto al mattatoio, decisi infatti di rinunciare alla purezza, di tradire tutti i valori che fin da piccole ci vengono inculcati, di abbandonare per sempre il sogno di sposarmi un giorno in abito bianco, immacolato e puro come il mio corpo e la mia virtù.
Mi dissi che lo facevo per necessità, perché mamma e papà non soffrissero ancora, ma la realtà - oggi posso ammetterlo con me stessa - è che non sopportavo più di vivere con la fame e che avrei fatto di tutto pur di non sentire quell’immortale, eterno dolore al ventre.
Quel giorno stesso, allora, indossai il vestito migliore, ossia uno straccio in tessuto autarchico che a guardarlo oggi non sembrerebbe nemmeno un indumento. A quei tempi era tutto ciò che possedevo e grazie al cielo avevo una di quelle figure che sembrano far fiorire il peggiore dei cenci: alta, snella, famelica, ma non ancora priva delle sue rotondità.
Accorciai la gonna, sbottonai i primi due bottoni della camicia e scesi giù in città.
Ricordo che mi sembrava di camminare in un sogno: non vedevo niente, scavalcavo le macerie lasciate dai bombardamenti con l’automatismo che viene dalla consuetudine e anche l’udito non mi funzionava un granché, un po’ come se le orecchie fossero tappate da roventi batuffoli di vergogna.
Così, quando un soldato americano mi chiamò, io lo ignorai. Semplicemente non mi accorsi di lui e continuai diritta per la mia strada.
L’uomo, però, si dimostrò un tipo tenace: saltò giù dalla sua jeep, mi raggiunse, mi prese per un braccio e mi scosse, svegliandomi di colpo dall’intontito torpore nel quale ero piombata.
<< Ehy, Signorina >> esclamò << Si, dico a te, are you deaf? Sei sorda? >> Sembrava anche un po’ minaccioso.
<< No, no… scusa, non pensavo stessi chiamando me >>
Lo guardai meglio, sulla spalla aveva un rombo rosso con una specie di aquilotto giallo dai contorni geometrici. A quei tempi non mi disse nulla, ma in seguito imparai a riconoscerlo come il distintivo della 45a divisione americana di fanteria.
Continuai a fissare la giacca, senza il coraggio di alzare lo sguardo sul volto del soldato, e lui subito iniziò a parlare. Non ricordo cosa disse, nemmeno una parola, ricordo solo che aveva uno strano accento a metà tra l’inglese e un dialetto del sud.
Ricordo anche che mi offrì un passaggio sulla jeep e che io accettai. E poi il nome… ecco, se lo rivedessi non lo riconoscerei, ma il nome, quello non riesco a scordarlo: si chiamava William Sciarretta.
William inforcò una stradina secondaria e insieme ci allontanammo dalla città. Guidava come un pazzo e non la smetteva mai di parlare a voce alta in una quella lingua assurda avrebbe voluto essere italiano.
Ad un tratto, mentre eravamo in aperta campagna, si accostò al bordo della strada e fermò la jeep sotto i rami di una quercia nodosa e contorta, esposta da generazioni alla furia del vento.
Immediatamente mi mise le mani addosso: << Famme sentì quanto vali, signorina >>
Mi colse talmente di sorpresa che quasi gridai << Ma che fai? No! >>
<< Su, cinque dollars, ok? Se si bbrava I will give you otto dollars, ok? >>
<< Ma… io sono ancora vergine! >> balbettai.
<< WOW, good! I love Italy! >> chiosò lui raggiante << Allora ten dollars, ok? >>
Singhiozzai, ma lui non batté ciglio.
<< No, niente dollars >> dissi a quel punto << Cibo. Mangiare. Hai da mangiare? >>
<< Mangiare? Food? >> chiese lui incredulo, poi si mise a ridere.
Al momento arrossii, ma se ci penso oggi… che cazzo aveva mai da ridere quell’imbecille proprio non lo so.
<< Ok, ok, signorina. Tutto il mangiare che ho in my bag is your, è tuo, capisc’ammè? Ma ora no parlare, che non mi piace i fimmine che parlano: arap’ e cosc’ e statte sitta, ok? >>
Annuii. Chiusi gli occhi e mi morsi il labbro, lasciando che facesse del mio corpo ciò che voleva.
Insomma, mi feci scopare da lui… per tre scatolette di carne, una grossa pagnotta e un sacchetto di zucchero.
Non scendemmo nemmeno dalla jeep: lui si limitò a indicarmi il vano posteriore della vettura ed io con rassegnazione mi ci distesi, al che William mi raggiunse senza neppure spegnere il motore.
Mi sollevò il vestito fino alla vita, con un cenno pretese che esponessi il seno attraverso la scollatura e subito dopo mi ordinò di spalancare le cosce.
Si sbottonò le braghe e si inginocchiò di fronte a me. Io chiusi gli occhi attendendo di essere penetrata, ma lui prese invece a leccarmi tra le gambe, a bere il mio sapore. Mi fece capire con gesti e vocalizzi che la cosa lo eccitava e, mentre grufolava come un suino, iniziò anche a masturbarsi senza pudore.
Continuò così per un po’ di tempo poi si stufò. Allora si alzò in piedi, si abbassò i pantaloni fino alle caviglie e mi prese. Lo fece così, senza preavviso, senza dire nulla. Mi montò e basta, sverginandomi con la stessa facilità con la quale si apre la pancia di un pollo.
Io, per orgoglio, non volli dargli la soddisfazione di gridare. Mi limitai a restare ferma e disponibile, mordendomi un dito e guardando il cielo che sembrava stranamente umido e opaco al tempo stesso.
Poco dopo, però, quando tre camion militari coi fari oscurati sbucarono all’improvviso da una curva, fui sopraffatta dalla vergogna e mi aggrappai a lui, cercai di nascondere il viso nell’incavo della sua spalla.
William continuò a scoparmi. Non cambiò ritmo né posizione, nemmeno quando uno degli autisti fischiò il suo apprezzamento all’indirizzo della scena.
Io, invece, a quel suono lo strinsi ancora più forte e stavo talmente male che avrei quasi preferito morire. (Lo so che sembra sciocco, che sembra eccessivo, ma bisogna provarle di persona certe cose per poterle comprendere).
William probabilmente scambiò il mio gesto per uno slancio passionale e i miei singhiozzi per spasmi di piacere. Non so cosa provò, so solo che si emozionò e venne. Per fortuna lo fece fuori.
Poi si alzò sulle ginocchia, mi sorrise, mi baciò un seno e disse tutta una serie di parole che non capivo. Infine fece spallucce e si rivestì.
Mi accompagnò con la jeep fin fuori al paese e mi lasciò li, sotto una pioggerellina leggera come lacrime, e con un piccolo involto di carta tra le mani. Il mio pane, la mia carne e il mio zucchero.
Ecco fatto.
Ero completamente bagattata e mi sentivo peggio di una bestia, ma almeno per un po’ non avremo patito la fame.
Da allora, presi l’abitudine di scendere in città quasi ogni giorno.
Ai miei genitori dissi che lavavo i panni per l’esercito alleato, che pelavo patate, che facevo lavori così. Loro mi credettero.
Ci volevano credere.
Dio come mi vergognavo le prime volte…
Avevo l’impressione che tutti mi guardassero. Che ogni uomo, italiano o americano che fosse, mi squadrasse dalla testa ai piedi, valutasse il mio prezzo e il mio valore come se fossi una mucca o una cavalla. Non mi sarei stupita, insomma, se un cliente prima di violentarmi avesse preteso di esaminare minuziosamente lo stato della mia dentatura.
Era orribile.
Umiliante e orribile, ed io, che son sempre stata piuttosto timida, non riuscivo nemmeno a fare come le altre che camminavano spavalde, si mostravano e si offrivano ai soldati: mi limitavo a restare in piedi in un luogo trafficato. Le gambe nude fino al ginocchio e gli occhi bassi. Silenziosa.
Nonostante ciò non ho mai faticato a trovare compagnia, tutt’altro: dopo le prime volte, quando si era sparsa la voce che io fossi, diciamo così, disponibile, venivano in molti a cercarmi, anche italiani.
Non che fossi particolarmente brava a fare certe cose… anzi dovevo essere una vera e propria frana, però ero bella. Fin da bambina tutti quanti l’avevano sostenuto: ho le gambe snelle e lunghe e si diceva che avessi un viso d’angelo e che assomigliassi ad una diva del cinema.
Così mi limitavo ad offrirmi, a lasciar intendere che fossi disposta a vendere il mio corpo e gli uomini arrivavano, attratti dal mio aspetto e dalle mie forme come un falò attira le falene. Poi, per un pò di cibo, permettevo loro di usarmi in diversi modi, tanto la degenerazione è nell’anima, non nella carne, ed io sentivo di aver già toccato il fondo il primo giorno. Per scelta e per necessità.
Mi ero data un unico imperativo. Categorico, come si usava dire allora.
Mi ero imposta di accettare solo cibo ed eventualmente dei capi d’abbigliamento. Mai del denaro.
So che è una cosa stupida, ma il baratto, in un certo senso, mi sembrava preferibile alla vendita pura e semplice. Mi ero convinta che in questo modo non ero come le altre, che farlo per mangiare e non per lucro in un certo senso mi mondasse, mi sdoganasse, che… quanto ero ingenua e cretina a quei tempi!
Presto mi resi conto che gli americani erano più disponibili e generosi degli altri soldati, perciò iniziai a frequentare il campo che avevano montato vicino alla città e li, una sera, incontrai Sabina.
Lei veniva da un paese vicino e, nonostante fosse più vecchia di me di un paio d’anni, ci conoscevamo da una vita perché entrambe avevamo avuto la fortuna di frequentare la stessa scuola. Begli anni, quelli. Costati non pochi sacrifici ai rispettivi genitori e risultati assolutamente inutili per il nostro futuro, ma pur sempre degli anni sereni.
Sabina naturalmente faceva il mio stesso mestiere e riusciva ad essere addirittura più sfortunata di me: aveva una bimba di circa tre anni e mezzo ed era anche da sola, perché suo marito era stato richiamato nell’esercito ed inviato in Africa Settentrionale come rincalzo alla divisione di fanteria “Bologna”.
Dopo la grande battaglia di El-Alamein il marito di Sabina era stato dato per disperso (espressione pietosa, molto vicina al “caduto per la patria”), ma lei non voleva rassegnarsi e, nonostante non ricevesse più sue notizie da quasi due anni, si aggrappava ancora con la forza della disperazione a quell’ingannevole attributo: disperso.
In altri termini continuava a sperare che il suo uomo si fosse nascosto tra i beduini o che fosse prigioniero degli inglesi. In India, in Sud Africa, da qualunque parte ma vivo, e ogni giorno attendeva una cartolina che non arrivava mai.
Nel frattempo Sabina si era trovata costretta a “lavare i panni” e, come nel mio caso, la sua scelta non era stata particolarmente complessa, dal momento che l’alternativa consisteva nel morire di fame insieme alla sua piccola.
Ci vedevamo quasi ogni sera, lei ed io: ci raccontavamo le rispettive disgrazie, soddisfavamo gli stessi uomini e ci consolavamo a vicenda.
In breve decidemmo di fare coppia, di aiutarci. Di venderci insieme, per essere onesta e brutale, e tanto per cominciare lei si trasferì a vivere da noi insieme alla bambina, così i miei vecchi genitori avrebbero potuto badare alla piccola mentre noi, appunto, andavamo a “lavare i panni”.
Non voglio raccontare i dettagli di quei mesi, non voglio nemmeno ricordarli, a dire il vero, e quando sarò anziana e smemorata, accoglierò come una benedizione il fatto di averli dimenticati.
Dirò solo che insieme a Sabina scesi ancora più in basso nella scala della mia considerazione. Feci l’amore (che parolona, che bugia!) con più uomini insieme, mi accoppiai persino con la mia amica pur di soddisfare la lussuria dei soldati, ma soprattutto contravveni all’unica regola che mi ero data: cominciai a farlo non solo per la farina, la carne e lo zucchero. Cominciai a farlo anche per denaro.
All’inizio fu a causa dello stato di salute del babbo: aveva bisogno di medicine e per quelle occorrevano soldi, non pane e patate. Poi fu per sostituire il vestito in stoffa autarchica che si era definitivamente sfasciato, poi, poi…
Poi diventò un’abitudine e fu un bene così, perché in fondo la mia non era altro che una chimera. Mi ingannavo fingendo di non essere ciò che ero: una donna che si vende per qualcosa. Che questo qualcosa sia poi del denaro, un favore, un regalo o del cibo, la sostanza non cambia.
Si è sempre e solo prostitute.
Per qualche tempo la vita andò avanti senza che vi fossero grandi cambiamenti, poi, una sera d’estate, proprio quando l’orizzonte si vestiva di tramonto, uno sconosciuto intabarrato in lisi stracci grigioverdi si presentò davanti a casa.
Lurido e con la barba lunga. Il viso emaciato, scavato dalla fame e pieno di croste e di sporcizia. I pochi capelli e i cenci militari infestati dai pidocchi e da chissà quale altro parassita.
<< Non abbiamo nulla >> esordii subito con voce dura in modo da stroncare ogni pretesa sul nascere. Poi mi fermai sull’uscio, le mani sui fianchi e la vanga pronta dietro lo stipite.
<< Ma, io… >> lo sconosciuto sbatté gli occhi un paio di volte con incredulità, tanto che pensai fosse un po’ strambo o un povero invornito e che mi sarebbe toccato scacciarlo a badilate.
Avevo già imbracciato l’attrezzo, quando uno spintone sulla schiena mi fece quasi perdere l’equilibrio: mamma, in genere così timida e controllata, si era lanciata verso l’accattone singhiozzando. Giuntagli di fronte l’aveva abbracciato, incurante della sporcizia e dei pidocchi.
Non era impazzita, come avevamo temuto il babbo ed io, era solo stata l’unica a riconoscere in quel relitto umano suo figlio Luigi. Mio fratello.
Naturalmente l’arrivo di Luigi fu una gioia immensa per tutti, ma nell’immediato il poveretto non era in grado di aiutare la famiglia: era troppo debole e denutrito, occorreva tempo perché si rimettesse in forze e fino ad allora, per me, tutto questo avrebbe significato solo una bocca in più da sfamare e quindi molti “panni in più da lavare”.
Iniziai dunque a scendere in città tutte le sere, moltiplicai gli sforzi e proprio così conobbi una persona veramente speciale: era un pilota di Sherman della 1a divisione corazzata USA, veniva da Clemson nella Carolina del Sud ed era… immenso. Un sabadone alto più di due metri, con un fisico massiccio e due spalle così. Sembrava quasi un’apparizione impossibile per chi, come me, aveva tutti i giorni sotto gli occhi il corpo scheletrito di Luigi.
Inoltre lui era… non era come gli altri.
Lo vidi per la prima volta una sera che, insieme a Sabina, ero andata a vendermi nei pressi di un locale notoriamente frequentato da soldati e da altri avventori che si sforzavano di dare un senso alla loro pacifica vita di branco.
Lui mi mise immediatamente gli occhi addosso e si avvicinò per contrattare.
<< Ehy, tu, gospel singer >> intervenne un commilitone << Va bene che quella è solo una puttana-spaghetti, ma è pur sempre bianca: vedi di non dimenticare mai qual è il tuo posto, zio Tom >>
Il gigante si immobilizzo e si girò piano verso il compagno. Lo squadrò in silenzio, più minaccioso che mai, ma quello continuò imperterrito << È che non ho alcuna intenzione di mettere il mio magico attrezzo dove c’è stato il tuo, negro. Tu devi accoppiarti solo con quelle della tua razza o con le altre specie di scimm… >> fu schiantato al suolo da un destro poderoso.
Immediatamente scoppiò una rissa furibonda che si concluse con tre svenuti, un naso spappolato e tanti lividi generosamente distribuiti dai manganelli degli MP, prontamente materializzatisi in mezzo alla gazzarra.
Sabina ed io, naturalmente, scappammo ai primi accenni di violenza.
Va bene la vergogna e lo schifo di vendersi per un tozzo di pane, ma anche essere picchiate, no cavoli! Perciò decidemmo di saltare un giorno di lavoro e di tornarcene subito in paese.
Stavamo ancora camminando sul ciglio buio della strada, quando sentimmo uno scalpiccio alle nostre spalle.
Ci voltammo e vedemmo un’ombra nera, immensa, nella quale i denti e gli occhi spiccavano come perle scintillanti tingendo di candore un volto d’ebano, alieno e demoniaco.
In un attimo la creatura ci raggiunse e si fermò di fronte a me.
Feci istintivamente un passo indietro prima di rendermi conto che si trattava del negro che si era appena azzuffato per il diritto di scoparmi.
<< Tu con me adesso? >> sputò fuori lui, tra un ansito e un’espirazione.
Per tutta risposta tesi la mano destra col palmo aperto e rivolto verso l’alto.
Lui sorrise mostrando i denti più bianchi che avessi mai visto e mi consegnò diversi dollari (non quelle ridicole Am-lire), poi mi cinse la vita e mi trascinò quasi di peso oltre il ciglio della strada.
<< Calma! >> protestai.
Mi lasciò. Permise che scegliessi un cespuglio dietro il quale nasconderci, un biancospino. Quindi, con inattesa cavalleria, si tolse la giacca per costruire un rudimentale giaciglio.
Mi lasciai cadere carponi sopra la stoffa verde oliva e sotto un mare di stelle indifferenti, sollevai la gonna e attesi.
<< No. No così >> disse lui << Nudi >>
Girai la testa e vidi che si era già spogliato quasi del tutto. << OK >> risposi, tanto per me che cambiava?
Mi sfilai i vestiti e mi misi nella medesima posizione. La schiena inarcata, il ventre esposto e il capo reclinato tra le braccia.
Avvertii di colpo il peso e il calore della sue mani sulle natiche, poi iniziai a sentire la sua lingua. Enorme anch’essa, come quella di un bue.
La passava su e giù, su e giù, strappandomi più di un gemito mentre aspettavo che mi penetrasse, mentre cercavo di non pensare, di ingannare il tempo osservando, attraverso le foglie del biancospino, le gambe di Sabina che camminava avanti e indietro sulla strada.
Il negro continuò a leccare finché non fui così bagnata di saliva da gocciolare letteralmente dalle cosce, poi fece uno strano rumore. Allargai le gambe e abbassai la testa tra i gomiti nel tentativo di sbirciare cosa stesse combinando. Lui riprodusse il rumore e così mi accorsi che si stava sputando sul membro.
Non feci nemmeno in tempo a stupirmi per le tremende dimensioni di questo, che cominciai a sentire una ben nota pressione al basso ventre. Avvertii un leggero strappo e strinsi i denti. Lui spinse di botto, un vero e proprio colpo di reni che mi strappò un gemito di dolore.
<< Ehy, ma sei matto? Cosi me la rompi, idiota! Aspetta, lascia fa fare a me >>
Per fortuna si fermò. Allora mi lasciai andare in avanti, sulle spalle, allungai le braccia all’indietro e mi aprii bene con le dita. Quindi piano, molto piano, mi impalai su quella specie di tronco nodoso.
Non fu facile, né veloce, né certamente piacevole, ma alla fine riuscii ad accoglierlo: i tessuti si adattarono al nuovo ingombro e devo ammettere che il negro fu d’aiuto, restando immobile per tutto il tempo, docile e paziente. Quando gli dissi << OK, ora puoi >> iniziò a muoversi lentamente, con molta delicatezza, e contemporaneamente prese a massaggiarmi il ventre con una delle sue manone bollenti, a leccarmi piano tra le spalle, le scapole e il collo.
Mi squartò, sia ben chiaro, ma lo fece nel modo meno doloroso possibile e dopo un po’, riuscì perfino a darmi un minimo di piacere, cosa rarissima, che non succedeva quasi mai.
Quando venne, dopo un tempo che sembrò un’eternità, lo tirò fuori e mi lavò completamente la schiena. Si divertì a spalmarmi il suo seme su tutto il corpo, sulle spalle e sui seni, fregandosene altamente delle mie proteste. Infine si lasciò andare in avanti imprigionandomi sotto di se con il suo peso e la sua mole.
<< Basta. Hai finito. Lasciami andare via, adesso >>
Niente.
Provai a togliermelo di dosso sgroppando.
Pessima idea: non ottenni nulla, ma in compenso avvertii la pressione del suo membro caldo che tornava ad irrigidirsi sfregando tra le mie cosce e la schiena.
Lui mugolò qualcosa, poi mi accarezzò le spalle e iniziò a percorrere le braccia. Con dolcezza mi costrinse ad allungarle in avanti, completamente, fino a che non mi ritrovai distesa come un tappeto. A quel punto, all’improvviso, mi bloccò i polsi con quelle due mani enormi, alzò il sedere e si avvicinò come per entrare una seconda volta.
<< No, no! Non come prima, che non voglio correre rischi! >>
<< OK >> rispose, e fortunatamente si sollevò liberandomi.
Mi voltai e trovai a pochi centimetri dal mio viso il suo sesso ringalluzzito da una seconda, orgogliosa erezione. Vedendolo in tutta la sua esuberanza, compresi al volo perché mi aveva fatto così male. << Senti, se vuoi lo prendo in bocca, ma per questo mi devi pagare un’altra volta, ok? >> dissi, mimando l’operazione.
<< Uh? >>
<< Dollari. Altri dollari, understand? >>
<< Ok, ok! >> tuonò lui. Prese altre banconote da una tasca dei pantaloni, me le mise in mano e contemporaneamente mi agguantò la testa e me lo impose sulle labbra spingendolo giù, in gola.
Quella sera tornammo a casa tardi, Sabina ed io, e fu solo di fronte all’aureola gialla di un lume di candela che mi accorsi di avere le cosce insanguinate, ma allo stesso tempo scoprii che il negro mi aveva pagata molto più del prezzo corrente e quindi, tutto sommato, decisi di essere soddisfatta. Dolorante e soddisfatta, perché per un paio giorni avremmo potuto evitare di lavare panni.
La domenica successiva, quando Sabina ed io scendemmo di nuovo in paese, ero convinta che Spike (così aveva detto di chiamarsi il negro) fosse solo una pagina del libro della mia vita. Una pagina già sfogliata che non avrei letto mai più.
Mi sbagliavo.
Mi stavo infatti appartando con il secondo cliente della giornata, quando lo vidi che aspettava appoggiato ad un vecchio acero e, lo confesso, la cosa mi spaventò parecchio.
Temevo che facesse qualcosa di insensato o violento, temevo… non so di preciso, è che era così grosso e nero… mi faceva paura, ecco.
Sembrava un selvaggio, un cannibale, uno zulu, ma alla fine non era nessuna di queste cose: si limitò ad attendere che fossi libera, come facevano gli altri, mi tese un rotolino di dollari e disse << Tutto il giorno, si? >> Diedi un occhio alla cifra ed accettai.
Da quel giorno Spike fece sempre così. Anzi, arrivò ad chiedermi quando intendevo scendere all’accampamento per potermi avere solo per lui.
Fu un amante tenero e generoso, premuroso e appassionato. Fu soprattutto un’amante innamorato e dopo i primi, dolorosi approcci riuscì spesso a farmi godere. Con la lingua, con le dita, col suo coso… addirittura con le sole labbra: aveva un modo splendido di succhiare i capezzoli e il clitoride, di spremerli tra quei suoi margini carnosi, di giocarci aspirandoli e titillandoli.
In fondo, anche se era negro, in altre circostanze avrebbe addirittura potuto piacermi come uomo. Ma a quei tempi era solo uno dei tanti. Uno che pagava bene e non mi maltrattava. Tutto li.
Ciò nonostante quei mesi furono i più massacranti: lavoravo tutti i giorni perché, dopo l’arrivo di Luigi, in famiglia c’era una bocca in più da sfamare e mio fratello, poveretto, non era certo in grado di provvedere a se stesso.
Era ridotto talmente uno straccio che nei primi tempi faceva perfino fatica a stare in piedi. Aveva perso le unghie e parte dei capelli e, quando mamma lo aiutava a cambiarsi, vederlo faceva impressione: sotto lo sterno, al posto della pancia, si apriva una caverna di pelle, le sue cosce erano poco più grosse di un bastone e una specie di filo spinato fatto d’ossa gli disegnava la colonna vertebrale.
Uno scheletro coperto da un lenzuolo di carne, ecco cosa sembrava.
Povero Luigi mio, pensate che di giorno era capace di starsene seduto su una sedia per ore, silenzioso e immobile, a guardare fuori dalla finestra come una statua inanimata, ma di notte… di notte si agitava sempre: pronunciava parole incomprensibili in una lingua slava, pregava e singhiozzava.
Ci vollero più di due mesi di cure e cibo regolare perché mio fratello si riprendesse: i suoi muscoli pian piano riapparvero, le unghie gli spuntarono timide come sottili spicchi di luna e lui tornò addirittura a sorridere. Era un uomo diverso, però, da quello che era partito. Cupo e senza sogni. E vinto. Per sempre.
Una sera, mentre già l’ombra galleggiava sui boschi ed io tornavo dal lavoro insieme a Sabina, lo vidi seduto sulla pietra miliare che da sempre segna l’ingresso in paese. Era tardi e Luigi doveva essere rimasto li ad aspettarci per diverse ore.
Rimase immobile finché non fummo abbastanza vicine, poi si alzò, ci venne incontro e abbracciò Sabina. Quindi fece lo stesso con me, mi baciò entrambe le guance ed infine crollò in ginocchio.
<< Scusa, sorellina >> disse, senza nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi << Scusa per questi mesi. Scusa anche per la mamma e il babbo, che fortunatamente non sanno >>
Mio fratello invece sapeva, com’era evidente.
La cosa non mi stupì perché in fondo Luigi non era mai stato un ingenuo e negli ultimi anni, vissuti tra il fronte e i campi di concentramento, doveva aver visto anche lui l’altra faccia della guerra.
<< Ormai sto bene, sorellina. >> Continuò << Sono di nuovo forte e da domani inizio a lavorare come manovale edile giù in città. Da fare ce n’è in abbondanza, con tutte le case che son state distrutte, e qualche lira in più non può certo farci male. Io penso che fra qualche tempo… si, insomma, il prima possibile tu potrai … Oh, scusa ancora sorellina. Scusa ancora. >>
Era una cosa sciocca, lo so, ma mi commosse. Quella sera tornammo a casa insieme, Luigi, Sabina ed io. Abbracciati e in silenzio, perché nemmeno i muri dovevano sapere il nostro segreto.
Già la settimana successiva vidi i primi cambiamenti: continuai a “lavare i panni” esattamente come prima, ma il contributo economico di Luigi si fece sentire e per la prima volta mi resi conto che stavo risparmiando del denaro.
Dopo pochi giorni anche il babbo si mise a fare piccoli lavori di falegnameria che potevano facilmente essere venduti o barattati. Insomma, la vita cominciò a rientrare lentamente nella nostra casa.
Calcolai che presto il mio contributo non sarebbe stato più necessario. Che presto avrei potuto davvero lavare panni o cucire, che presto sarei tornata ad essere un donna come tutte le altre e non una “signorina”. Non più un anima in svendita tutta carne da palpare e buchi da fottere.
Eppure, mentre facevo questi pensieri, mi resi conto che ormai ero diventata esattamente quello. Per i soldati americani e per diversi civili italiani, per il paese e soprattutto per me.
Avevo scritto una pagina della mia vita che in alcun modo avrei potuto cancellare.
In quell’istante compresi che, per me, sarebbe stato impossibile vivere come prima nei posti in cui ero nata e che, di conseguenza, appena fossi riuscita a racimolare abbastanza denaro avrei dovuto andarmene lontano. Lontano per dimenticare e ricostruirmi una vita.
In fondo avevo dato tutto alla mia famiglia, almeno questo lo dovevo a me stessa.
Iniziai così a risparmiare e in un solo mese riuscii a mettere da parte un bel po’ di denaro. Poi, inaspettatamente, ebbi un unico, enorme colpo di fortuna: Spike mi confessò che presto sarebbe tornato in America e mi raccontò che gli avevano pagato una serie di premi, di indennità o che so io, per tutto il periodo che era stato in guerra. Sottolineò che si trattava di diverse centinaia di dollari e mi chiese di sposarlo e di trasferirmi in America con lui.
Povero. Mi fece tenerezza quel giorno, davvero: così immenso e dolce, erculeo e fragile. In splendido contrasto.
Naturalmente rifiutai.
Non potevo fare altrimenti.
Lo portai invece in un vecchio cascinale cadente e li mi spogliai per lui. Completamente, come sapevo piacergli. Lasciai che mi sfiorasse piano con le dita, che mi godesse con gli occhi e con l’olfatto, come un animale selvatico, come gli avevo visto fare tante volte. Lasciai che mi accarezzasse piano, che col fiato mi scaldasse e allo stesso tempo mi facesse venire i brividi.
Lasciai che mi esplorasse, che mi scopasse, che bevesse i miei umori e mi spalmasse il petto con i suoi. Gli regalai una passione che mai avevo dato a nessun altro, e lo feci godere talmente tante volte che alla fine crollò sfinito e felice.
Poco prima che si rivestisse, però, mi si presentò l’occasione che tanto avevo atteso: Spike si voltò verso un muro per orinare ed io, col cuore che martellava come una batteria contraerea, ne approfittai per rubare tutta la buonuscita elargitagli dall’esercito americano. Era un bel rotolino di soldi e lo nascosi tra la camicia e la gonna. Dio… le mani mi tremavano, sentivo la testa vuota e ero talmente terrorizzata dall’idea che lui si accorgesse del furto da sentirmi come ubriaca.
Un secondo dopo Spike si voltò e fece per prendere il denaro per pagarmi. Allora mi sentii perduta, reagii d’istinto e lo bloccai << No Spike, no… questa volta non voglio nulla da te. Questa volta l’ho fatto per amore >>, mentii.
<< Oh, Claudia >> mormorò lui commosso << Allora non lasciare che torni da solo negli States. Vieni via con me, ti prego! >> supplicò, le mani giunte e il busto leggermente piegato in avanti per guardarmi negli occhi.
Lo fissai un attimo e tanto bastò perché mi perdessi in due universi gemelli color nocciola scuro.
Restai semplicemente immobile, imprigionata in uno sguardo tenerissimo e reso umido da un sentimento grande che gioiva per l’illusione d’esser corrisposto.
In quell’istante qualcosa mi prese dentro e stavo quasi per dirgli di si, stavo per buttargli le braccia al collo, per confessargli ogni cosa, per chiedergli di perdonarmi e di portarmi via con se.
Per un momento temo di essermi sentita addirittura felice… ma non ne sono sicura.
Poi avvertii di nuovo quel crampo allo stomaco, istintivamente portai le mani al ventre e con le dita sfiorai il rotolino di denaro.
Allora l’attimo di follia scomparve, portando con se tutte le sue terribili emozioni.
Immediatamente tornai padrona di me stessa e seppi con certezza ciò che dovevo fare: lo abbracciai forte, baciai quelle splendide labbra grosse e tumide che sapevano ancora di me. Le premetti con tale passione che, separandoci, schioccarono un saluto umido e sensuale << Addio, Spike >> dissi, sprofondando i miei occhi blu notte nel suo sguardo nero ed innamorato.
Poi gli sorrisi un ultima volta, mi girai e me ne andai.
M’incamminai verso il paese con calma, senza fretta. Schiena dritta e andatura regolare.
Dopo un centinaio di metri, un po’ alla volta, iniziai ad aumentare involontariamente il passo. Da principio avanzai solo un po’ più spedita, poi via via sempre più veloce fino a che mi misi veramente a correte ed arrivai a casa senza fiato.
Spalancai la porta e mi precipitai nella camera che dividevo con Sabina e la sua piccola: stavo così male che mi sentivo esplodere.
Mi rannicchiai nell’angolo più buio della stanza, quello a tramontana, e li finalmente scoppiai a piangere.
Avevo pianto tanto negli ultimi mesi. Per la fame, per la disperazione, per le umiliazioni e la vergogna, ma non mi ero mai sentita a quel modo. Perché in fondo mi ero prostituita, certo, avevo soffocato ogni dignità e perso per sempre ogni briciolo d’onore, ma fino ad allora non avevo mai derubato nessuno, nè tradito una persona, a prescindere dal fatto che mi volesse bene o meno.
Non mi preoccupava tanto l’aver trasgredito ad un comandamento, perché ormai avevo deciso che l’uomo è solo nel creato e che se esiste un Dio, questi doveva vergognarsi più di me data la sua presunta onnipotenza.
No, non era certo la dannazione dell’anima ad affliggermi, ma il baratro d’infamia nel quale io stessa mi ero calata. Rubando, infatti, mi sembrava quasi di essere scesa al medesimo livello di quei luridi e prepotenti bastardi che avevano terrorizzato il paese e malmenato papà, che avevano sottratto tutto il cibo alla mia famiglia condannandola alla fame e che, di conseguenza, erano la causa prima della mia condizione.
Oltretutto come vittima avevo scelto proprio Spike, che alla fin fine era un buon sabadone, ingenuo e un po’ invornito. Senza dubbio mi dispiaceva anche per lui, perché ero riuscita a deluderlo, a rubargli il cuore facendogli bere in cambio il gusto amaro del tradimento e dell’inganno.
Non che l’abbia mai amato, intendiamoci, perché in fondo Spike era un puttaniere come tutti gli altri… solo che col tempo mi ero abituata a lui, avevo imparato a vedere la persona che si nascondeva sotto quella massa di carne e di muscoli, sotto la sua pelle nera di pece e glabra come quella di un bimbo.
Era un uomo buono, ma non posso averlo amato.
È fuori discussione, suvvia.
Fu il mio gesto orribile a farmi soffrire in quel modo, non un sentimento impossibile per un negro.
Si, perché se fosse stato amore me ne sarei accorta, non è vero?
<< Cos’hai zia? Perché piangi? >> squillò improvvisa una vocina soffice come un raggio di luce.
Porca miseria, non mi ero accorta che nella stanza ci fosse anche Anna, la bimba di Sabina!
<< Nulla, Anna, la zia è solo tanto triste >>
<< E perché sei triste, zia? >>
<< Perché… oh, Anna, abbraccia la zia, ti prego >> la piccola mi si gettò addosso come un cagnolino festoso e dimenticò all’istante la domanda << Si, così Anna. Stretta stretta. La zia ti vuole tanto bene, sai? Tanto quanto il sole, la terra e la luna insieme. Tanto quanto tu ne vuoi a Camilla, la bambola di stoppa >>
<< Impossibile >> sbottò lei serissima << Io Camilla la amo! >>
Con quelle parole Anna riuscì a strapparmi un sorriso. Forse era l’unica che potesse farlo, dato lo stato in cui ero: soffocata dal magone, gli occhi offuscati da una cataratta di lacrime e la gola rivestita di carta vetrata. In quel momento mi facevo schifo da sola, ecco. Assolutamente schifo.
<< C’è la mamma in casa, Anna? >>
La piccola annuì con solennità.
<< Me la vai a chiamare, per favore? >> le chiesi.
<< Certo, zia >> e subito scomparve dalla stanza, veloce come una schioppettata.
Poco dopo arrivò Sabina e le bastò uno sguardo per intuire che era successo qualcosa di grave.
Si inginocchiò vicino a me, laggiù nell’angolo buio di tramontana, e senza dire una parola mi abbracciò stringendomi come una mamma o una sorella maggiore.
Io nascosi la testa nell’incavo della sua spalla, mi feci scudo coi suoi lunghi capelli color del miele e finalmente piansi, piansi, piansi, fino a quando non ebbi buttato fuori tutta la tensione nervosa e non mi restò dentro altro che il dolore.
<< Sabina, io devo andare >> dissi, quando sentii di poterlo fare senza patetici singhiozzi.
<< Dove? >>
<< Via. Via per sempre.
Lontano dall’Italia, lontano da coloro a cui voglio bene, lontano da me stessa.
Via, in un posto nuovo dove non vi sia nessuno da dimenticare o che possa dimenticarsi di me. Un posto dove io non sia semplicemente mai esistita. >> Trassi un respiro profondo e continuai << Ormai lo posso fare, Sabina: Luigi si è ripreso e può badare a mamma e papà. Io… io non ce la faccio più e non basterebbe smettere, perché mi porterò sempre appresso la vergogna, lo schifo di essere ciò che sono >>
<< Sei solo una poveraccia, Claudia, come lo sono io >> mormorò lei per consolarmi.
<< No. Non voglio essere nemmeno questo. Ho messo via del denaro e oggi… oggi ho derubato Spike di tutto ciò che aveva. Questo è diventata Claudia B. e io non voglio più essere lei, voglio che Claudia B. scompaia per sempre. Voglio che muoia >>
<< Cosa dici, sei impazzita? >> esclamò Sabina scuotendomi le spalle con apprensione.
<< Forse si. Non lo so e non mi importa. >> replicai divincolandomi << Comunque non temere, non avrei mai il fegato di uccidermi. Voglio solo sparire, sparire per sempre, e voglio che tu mi aiuti >>
<< In che modo? >>
<< Fingendo che io sia morta per davvero, ora ti spiego… >>
Ci mettemmo tutto il pomeriggio ad organizzare “l’incidente” e il giorno dopo lo mettemmo in atto: Sabina trovò una bomba d’aereo inesplosa (ce n’erano talmente tante vicino alla ferrovia), poi confezionò un fagotto avvolgendo della carne di maiale in un mio vecchio abito, depositò il tutto accanto all’ordigno ed infine convinse un soldato americano a farlo brillare a fucilate.
Dopo non le restò altro da fare che correre a casa in lacrime e annunciare la tragedia ai miei genitori.
A quell’ora io ero già su un treno diretto a Genova.
Indossavo i miei indumenti migliori, avevo una valigia di cartone, poche cianfrusaglie e tutto il denaro che ero riuscita a racimolare tranne quello che avevo lasciato a Sabina come regalo d’addio.
Pochi giorni dopo mi imbarcai sul Tetis, un piroscafo diretto in Argentina.
Via, lontano per sempre dall’Italia.
Via, lontano dalla famiglia e dal passato.
Via, via, via dalla vergogna.
Addio, Claudia B.
Rinunciavo consciamente a tutto, moriva il mio passato e con esso morivo anch’io. Era il prezzo da pagare per rinascere pulita, pura, senza radici e in un mondo nuovo come me.
Il viaggio durò quasi un mese e fu un inferno: dal momento che sono nata e vissuta sulla terraferma, infatti, ho sofferto il mare per tutto il tempo. Avevo sempre la nausea e non facevo altro che vomitare, anche quando non c’era più nulla che potesse uscirmi dal corpo.
E piangevo, oh si, piangevo, perché quando un legame si spezza si versano lacrime di sangue.
Piangevo la separazione dai miei cari: dalla mamma, dal babbo e da Luigi che insieme ad Anna e Sabina sono le uniche persone alle quali abbia mai voluto bene.
Stavo male dentro e fuori, certo, ma preferivo non rivedere mai più i miei genitori piuttosto che sopportare il loro sguardo e la loro commiserazione una volta che la verità fosse venuta a galla. In fondo era il primo passo per ricominciare da zero: essere soli, ma proprio per questo più forti che mai.
A Buenos Aires non ho avuto difficoltà ad ambientarmi: qui c’è una comunità italiana fiorente e numerosa, ben felice di dar lavoro ad una compatriota preferendola a concittadini o ad altri immigrati.
Oggi, infatti, dopo una settimana esatta dal mio arrivo, già lavoro come sarta. Lo faccio bene e il salario è più che dignitoso.
Adesso mi chiamo Renata Alba e mi sembra davvero di essere riuscita a nascere una seconda volta, a cancellare le miserie di una Claudia B. che ho ripudiato: finalmente sono serena perché il passato è morto con lei e qui non c’è più nulla che mi possa legare ad esso.
Nulla.
Solo una cosa mi fa specie: pur essendo sbarcata dalla Tetis parecchi giorni fa, soffro ancora di mal di mare. Ho la nausea e vomito più di una volta al giorno.
È strano che lo scombussolio del viaggio duri così a lungo e non capisco perché ci stia mettendo più degli altri ad ambientarmi… Chissà, forse sono fatta male o forse è tutta una questione di testa, collegata in qualche modo al mio sollievo.
In fondo non m’importa cosa sia: ancora qualche giorno e sicuramente anche questo malessere passerà.
Deve passare e allora… oh, allora finalmente sarò libera.
Libera e felice.
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