Consigli culinari




Carina.
Mi vesto carina.
Sabato mi vesto carina.
Perché sabato mi vesto carina?
Perché ho stretto un patto, un patto d'amore.

I patti nascono dall’esigenza di conciliare due necessità distinte e questo non fa eccezione: mio marito ed io, infatti, abbiamo due modi diversi di concepire l’amore. A me piace tendergli degli agguati, tanto per chiarire, magari quando torna a casa la sera, quando lavora in giardino, quando capita. “ : gli piombo addosso come un amazzone, lo spoglio, lo palpo, lo lecco, mi struscio facendo le fusa finché lui non manda a farsi fottere ciò che sta facendo e non pensa ad altro che a scoparmi. In due parole, lo stupro.

In genere non mi ci vuole molto per trasformarlo da uomo in suino, e dai grugniti che emette non sembrerebbe che questa mia perversione lo indisponga più di tanto. Eppure so per esperienza che lui raggiunge il suo top eccitativo in modo diverso.
Per carità non mi costringe a ruggire WROMM WROOMMM mentre mi monta a pecora calzando il casco di Gibernau, né mi tocca flagellarlo con un frustino da equitazione o recitare il ruolo di Wonder Woman che ammicca lasciva al cospetto della sua bat-virilità. Semplicemente, mentre io sono più istintiva, immediata e adoro il sapore dell’imprevisto, lui si eccita un sacco con la pianificazione metodica dell'atto (e pensare che l’ingegnere di famiglia sarei io). Prova piacere nel sapere anticipatamente come andranno le cose, nel sentirsi padrone della situazione, nell'ammirare un piano che va in porto. Chissà, forse sta accumulando troppe frustrazioni sul lavoro e allora, per compensazione…
Ma no, no, è sempre stato così.

È proprio per questo motivo che abbiamo raggiunto una specie di accordo: io mi approfitto di lui quasi tutte le volte che ne ho voglia, ma il sabato, in cambio, accetto di realizzare i suoi sogni erotici proibiti, sforzandomi di essere all’altezza delle sue perversioni, anche quando oltrepassano i confini dell’imbarazzo.
Naturalmente per me deve essere sempre una sorpresa, anche se ci sono alcune costanti nel nostro patto ed una di queste riguarda la mia mise: devo “vestirmi carina”, cioè elegante… Oddio non vorrei darvi una cattiva impressione, non è che di solito mi vesta come una cacciatrice di orsi del Wyoming, come la regina Elisabetta o come una qualsiasi turista tedesca. È solo che preferisco indumenti pratici, molto acqua e sapone: jeans, maglietta, talvolta pezzi dell'uniforme oliva (orribili, lo ammetto, ma comodi, eccheddiamine). D'estate posso persino folleggiare con qualche vestitino intero, ma poi mi guardo allo specchio e mi vedo così sexy che quasi mi spavento.
Carina, quindi, a casa mia vuol dire più femminile: tailleur, uno scamiciato stretto in vita, un'acconciatura curata dei capelli, gonna corta, scarpe con un minimo di tacco e cose cosi. Ah, si, dimenticavo: niente biancheria intima. Tassativo. Questa è una cosa che lo ingrifa in un modo… Solo l'idea che non la porti, dico: lo fa sprofondare in un’emozione primordiale.

Non sempre i piani seguono esattamente il programma. Talvolta è lui stesso ad improvvisare, folgorato da un’intuizione momentanea, talvolta sono le condizioni al contorno che impongono le loro regole. Non è mai un problema, anzi, dal mio punto di vista questi imprevisti aggiungono quella punta di pepe in più.
In particolare mi viene in mente un week-end di giugno. Lui si svegliò tutto bello pimpante, come un bimbo deve andare a Gardaland, si fece la doccia fischiettando e mi disse che il programma del giorno era semplice, quasi banale: una breve passeggiata per il sestiere e poi via, a casa per ora di pranzo. Una specie di struscio, insomma, almeno per quanto dovevo saperne io.

Allora scandagliai con cura i più trascurati anfratti del mio guardaroba-bene e feci la mia scelta. Gonna celeste, stretta ma non troppo e tagliata a metà coscia, camicetta in tinta ed un leggero golfino bianco di cotone da buttare vezzosamente sulle spalle.
Misi un cerchietto per i capelli, altrimenti mi scendono sugli occhi come la tendina di un negozietto da banlieue. Due orecchini con gli opali, un bracciale, il pendaglio (in uno slancio perfezionista rinunciai perfino alle dog-tags: secondo una corrente di pensiero oscurantista pare siano poco femminili). Calzai delle scarpe a mezzo tacco ed ero pronta.
Mi guardai allo specchio. Fronte, profilo… alzai un po’ la gonna e divaricai un pelino le gambe. Peso tutto su una. Mezzo giro. OK un buon risultato, mi piacevo.
<< Ora puoi venire >> chiamai << Che ne dici? >>
<< Perfetto >> disse lui compiaciuto << sembri Michelle Pfeiffer>>

Come Michelle Pfeiffer?
Io son mora, lei è biondo ramata. Occhi verdini di qua, azzurro cielo di la. Carnagione olivastra… lattea. Capelli ricci… lisci.
<< Amore mio, dimmi che ti turbo fino a confonderti, dimmi che ti ricordo tua madre, straparla quanto vuoi, ma un minimo di credibilità, che diamine! >> dissi, forse con un’eccessiva punta di rimprovero.
<< Ma Nad è una donna splendida, una diva! Paragonarti a lei voleva essere un complimento >> si giustificò lui, con una contrizione così sincera che avrebbe commosso Polpot e quasi ci riuscì anche con me.
Mi resi conto di essere stata un po’ brusca e cercai di rimediare esplicitando con tatto il ragionamento << Si, certo, essere confusa con una donna di classe e fascinosa mi lusinga, ma siamo così diverse da legittimare il tragico sospetto che tu mi stia prendendo succosamente per il culo o – peggio – confondendo con un’altra, mi capisci caro? >>
------ Silenzio ------
OK, forse dovevo essere più didascalica: << Vedila così: tu sei alto, biondo, brachicefalo e se non ti hanno scelto come uomo immagine della gioventù hitleriana è solo perché sei nato nell’epoca sbagliata. Dimmi un po’, come ti sentiresti se ti dicessi che sei così affascinante che quasi quasi mi ricordi Willy Smith? >>
<< Un figo! >> rispose lui, con grande slancio evocativo e senza il ben che minimo tentennamento.

Vabbè, non importa. Gli sorrisi e gli diedi un bacio. In casi del genere preferisco sempre illudermi che lui sia talmente stregato dal mio conturbante fulgore da vivere un'esperienza allucinogena e mi ripeto che, in fondo, non è certo una tragedia se mi paragona alla pantera Naomi Campbell o alla vampiresca Madame Bovary a seconda dell'intensità del trasporto letterario.
Com’è bello e tranquillizzante il mondo quando lo si osserva attraverso la lente distorcente dell’amore o dell’alcol, no? È una specie di stato di grazia.
Vabbè, ma questa è filosofia pura. Che volete che gliene freghi agli uomini di tali sottigliezze?
Psicologia spiccia, su. Come pretendete anche solo che le intuiscano, eh? Fantascienza.

Non mi ero ancora completamente smarrita nel dedalo delle riflessioni che mio marito mi abbraccio con tenerezza sospetta. Mi baciò con allarmante passione e al contempo usò lo slancio affettivo per controllare a tatto se portavo il reggiseno (fatica sprecata, perché soprattutto d'estate ne faccio volentieri a meno) e se, come da accordi, non mi ero messa le mutandine.
“Ecco” pensai “tutto lavoro sprecato. Adesso finiamo a letto a grufolare torbidamente come facoceri in estro e l'impegno artistico che ci ho messo per apparire come Michelle Pfeiffer va a farsi benedire”
Dando conferma ai miei più rassegnati presentimenti, lui mi passò alle spalle, mi spinse contro il muro alzandomi la gonna fino alla vita, fino a scoprire l’esplosione bronzea delle natiche.

<< Ok, spingi in fuori, adesso >> disse, insinuandomi due dita tra le cosce e serrandole con determinazione sulle mie grandi labbra. Ed io obbedii, o meglio, seguii speranzosa le dita col bacino, mentre appoggiavo le mani al muro (sono sempre stata attratta dalla sensualità semiprimitiva delle dinamiche improvvisate, mi sembra di averlo già detto, no?).
Ma lui non mi prese, anzi. Mi fece vedere un dildo. No, non un dildo, ma un cuneo, un punteruolo anale o come diavolo si chiama. Una specie di paracarro in miniatura, un suppostone strozzato forte di un piedistallo di sicurezza.
<< Voglio che tu calzi questo, ma prima… >> e me lo poggiò sulle labbra, esercitando una morbida pressione.
Abbassai lo sguardo (simulare imbarazzo, con lui, ha sempre un ritorno pneumatico) e schiusi pian piano la bocca, lasciando che fosse lui a spingermelo dentro gradualmente.

Non so se avete mai succhiato un fallo di lattice, ma è una sensazione strana. Non ha lo stesso odore, in primo luogo, poi è troppo liscio, freddo e ha un sapore decisamente artefatto, da pisello transgenico al retrogusto fruttato (alla fragola, nel nostro caso).
Non è il massimo, onestamente, e non c’è minimamente paragone con l’originale.
Per dare un’idea fruibile è tutti, è come maneggiare una pistola a salve invece di un bel lanciarazzi LAW M-72: nel primo caso sapete che non spara, quindi vi da un decimo della soddisfazione. Più chiaro così, no?

In ogni caso a lui piaceva così e quel giorno era sabato. Mi fissava negli occhi col suo sguardo celeste, cercando di sfoggiare un autocontrollo vulcaniano ed impermeabile ad ogni emozione umana. Nonostante ciò sentivo la sua eccitazione montare come moka, man mano che il dildo mi scompariva nella gola costringendomi ad inghiottire saliva per raccoglierlo fino in fondo.
Lo sentivo perché le dita che aveva poggiato lissotto e che avevano prepotentemente divaricato le mie grandi labbra, quelle dita - dicevo - gli tremavano un po’ e si ancoravano all’illusoria salvezza del clitoride inturgidito per non farsi inghiottire dall’umida cavità che pretendevano di sigillare.
Oh si, tremavano, scivolavano, recuperavano, si aggrappavano ed io approfittavo senza vergogna di questa traballante precarietà.
Bagnai il cuneo il più possibile (anche per sordido calcolo, dato che immaginavo dove sarebbe andato a finire) e mio marito, coscienziosamente, procedette all’operazione complementare, risalendo con le dita umide il solco delle natiche e insistendo nel punto giusto, il quale per sua natura richiede l’ammirazione di una mano curiosa e delicata.

<< Ecco, ora apriti, fammi vedere come entra >>
Appoggiai una guancia al muro ed usai entrambe le mani. Entrò abbastanza facilmente, in un modo più dolce di un… sarà stata la forma, che ne so. Cacchio, però, le menti eccelse che studiano il designing di questi oggetti indispensabili al benessere collettivo meriterebbero qualche riconoscimento planetario. Un tremolante busto in lattice al Louvre, un calco in bronzo della loro creazione più riuscita da esibire in soggiorno o almeno un padiglione esclusivo alla biennale di Venezia. Qualcosa di tangibile, insomma, che plauda al loro sforzo metafisico e ne celebri lo slancio artistico-creativo.
Ignaro di queste considerazioni filosofiche, l’intruso scivolò sempre più in profondità e mio marito colse l’occasione per scostarmi dal muro e stringermi a se, perché a lui piace baciarmi o mordermi le labbra mentre fa certe cose.
Quando fu dentro del tutto e sentii il contatto con la base, mossi un po’ il bacino per essere sicura di averlo calzato bene. Allora lui mi passò le mani sulle cosce, si leccò le dita e mi rimise a posto la gonna. << Sei pronta per la passeggiata? >>
<< Io si. Tu hai studiato altre intrusioni o possiamo andare? >>
<< Nient’altro, giuro! >> e per un istante ebbi la netta impressione che la sua mente fosse preda di dubbi atroci: “Mannaggia che altro potevo pensare? Sto invecchiando? L’ho delusa?” Baratri d’insicurezza in grado di spingere un uomo sulla soglia della più equina follia.
Per non perderlo, mi risolsi << Allora andiamo>>. Poi mi voltai, ancheggiai un po’ per provocarlo e gli feci l’occhiolino.
Scendemmo le scale mano nella mano.

Anche lui si era vestito bene e sembravamo una coppietta di rampanti giovani in carriera, morigerati e perbenino, non due lussuriosi pervertiti a caccia di emozioni proibite (una dei due con un dildo incastonato nel culo).
Camminare con quel coso dietro all’inizio dava un po’ fastidio ma pian piano mi ci abituai, anche se mi sembrava di spingere un po’ troppo in fuori il sedere come le sorellastre racchie di Cenerentola.
Era una bella sfida passeggiare con naturalezza e farcita a quel modo, ma era anche eccitante: una specie di esibizionismo pudico, un voler rompere gli schemi della decenza pur mantenendo nell’intimità della coppia quanto vi era di scabroso.
Eccitante, si, lo ripeto: incrociare gli sguardi dei passanti, notare come gli uomini guardavano le mie gambe o la mia figura, indovinare i loro pensieri osceni, immaginare “se sapessero…” e nel frattempo sbirciare complice mio marito, che procedeva soddisfatto accanto a me con quel sorrisino malizioso che negli anni ho imparato ad amare.

Facemmo un bel giro lungo, passando per SS Giovanni e Paolo, per S. Maria Formosa, per Rialto e tornando indietro passammo anche davanti al piccolo supermercato che è quasi di fronte a casa.
<< Entriamo? >>, domandai.
<< Ok, che ci serve? >>
<< Latte, conserva di pomodoro, uova ed un paio d'altre cose >>
<< Prendo un cestino allora, è più pratico>>

Ci aggirammo così per il supermercato, stranamente deserto per essere sabato mattina. Ad un tratto se ne accorse anche lui: << Non c'è nessuno! >> esclamò il mio Poirrot, con uno sguardo maliziosamente ispirato. << Non c'è proprio un'anima… Bene bene, allora. Adesso. Alzati la gonna e spingilo fuori >>
<< Ma.. qui? >>
<< Si, dai, alzati appena appena la gonna e appoggiati allo scaffale, io lo prendo prima che cada.
Forza, dai, prima che arrivi qualcuno! >>
Va bene, inutile discutere.
Mi aggrappai alla mensola degli scatolami, allargai un po’ le gambe e spinsi, spinsi, spinsi, ma quel coso non voleva saperne di uscire perché quei dannati designer sapevano il fatto loro. Improvvisamente non mi sembrarono più dei geni trascurati, ma solo dei falliti segaioli.
<< Avanti, fai in fretta che sento dei rumori >>
<< Ok, ci sono quasi. >> Inarcai la schiena, mi morsi piano il labbro inferiore e spinsi ancora più forte, mentre un marinaio con la pipa mi guardava beffardo da una scatola di tonno, con l'aria di uno che ne aveva viste di ben peggiori solcando i lascivi mari del sud.
Mi concentrai sempre più in un lacerante sforzo espulsivo.
Eccolo…
<< Hep!>> Penso di aver spalancato gli occhi come un barbagianni e forse anche la bocca, quando l'ho sentito rientrare di colpo, rozzamente imposto da una prepotente manata.

Mi sono aggrappata senza fiato alla mensola dello scatolame, più per dare un punto di riferimento alle mie pulsazioni cardiache che per una reale necessità di equilibrio.
Una signora (la dirimpettaia, tra l'altro. La “digos”) ci sfilò accanto.
<< 'Ngiorno >>
<< Buongiorno, signora >> echeggiammo in coro come scolaretti.
<< Toh, prendete il tonno di quella marca? Com'è? Non l'ho mai provato…>>
<< Guardi, nemmeno noi. Eravamo curiosi, le farò sapere >>
<< Grazie infinite >> sorrise << arrivederci e complimenti ancora per la bambina >>
<< Arrivederla, signora >> sempre in coro. Mi sentivo come Heidi e Remì. Stomachevole.

Strinsi un po’ il bacino, cominciava a darmi fastidio.
Glielo feci capire con un'occhiata e proposi << Andiamo a casa? >>
<< Come vuoi >>, rispose lui con una scrollata di spalle.
Ah, il tonno… non era un granchè.


Nadja Jacur

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