Due parole




Due parole scarabocchiate su un muro.
Un graffito destinato a sbiadire per effetto della pioggia, per l’erosione della calce.
Due, due sole parole senza autore, né destinatario. Lettere viola su un fondo grigio figlie effimere del degrado, della maleducazione, della ribellione, della noia.
Due macchie di colore nel variopinto universo di una città, solo questo… eppure sempre due parole.

Gianfranco proprio non riusciva a comprendere perché lo avessero colpito.
Quanti messaggi gli passavano quotidianamente sotto gli occhi? Centinaia? Migliaia? Basti pensare agli infiniti cartelloni pubblicitari, agli ancor più numerosi spot di TV e radio, ai grattacieli di mail, lettere, circolari coi quali la sua segretaria lo bombardava sadicamente ogni giorno: fiumi di parole, torrenti di proposte ammiccanti, di affari, di occasioni. Un’infinità di informazioni, la maggior parte inutili, che vagano come plancton nell’oceano della comunicazione. E in tutto questo caos anonimo che cosa si era imposto alla sua attenzione?
Un graffito su un muro. Un graffito idiota, tra l’altro, scritto da qualche ultrà con poco senso civico, troppo alcool nel sangue e troppo tempo libro col quale sprecare la vita.
Ma guarda te che cretinata… vaffanculo! Ecco, si, vaffanculo e non pensiamoci più.
Eppure, eppure, quelle due parole…

Quasi non si rese conto, Gianfranco, di essere arrivato davanti ai cancelli dell’azienda. Della sua azienda, quella che aveva fondato con ostinazione, astuzia, coraggio e – perché no? – pure con una certa dose di culo e di spregiudicatezza, senza mai guardare in faccia nessuno e diffidando di tutti.
La Palmefor, leader europea nel campo dei semilavorati per la cantieristica edile, con un fatturato da capogiro. La sua creatura, sua figlia in un certo senso, strutturata in modo da essere agile e flessibile sul mercato. Competitiva e al contempo dotata di un know-how di nicchia difficilmente eguagliabile. In pratica, un monopolio.

“Dottore”, lo salutò rispettosamente l’usciere.
Dottore, si, dottore. Tre esami aveva fatto Gianfranco in tutta la sua vita e faticando sette camice. Poi si era reso conto di non avere una mente speculativa né eccezionali capacità di apprendimento e aveva mollato tutto per mettersi a guadagnare sul serio.
Una sconfitta? Solo in apparenza: dov’erano ora i suoi vecchi compagni di studi? Chi ad insegnare, chi a sgobbare per uno stipendio paragonabile a quello di Carlito, il suo factotum filippino.
Dottore. Quasi gli veniva da ridere a volte… già, perché alla fine lui dottore lo era diventato davvero: finanziando un paio di progetti di ricerca per un ateneo senza fama né passato ma con un gran futuro mercenario. Uno dei tanti parcheggi per giovani mediocri in cerca di un titolo ormai abusato.
Qualche centinaio di milioni di vecchie lire e si era tolto anche questo sassolino dalla scarpa. A conti fatti gli era costato meno dello yacht e a differenza di quest’ultimo ne godeva ogni giorno.

Gianfranco aprì meccanicamente la porta dell’ufficio presidenziale sempre immerso nei suoi pensieri. Fu la calda voce di Marta, la segretaria, a destarlo dal torpore speculativo nel quale era piombato “Dottore, hem… ci sarebbe un problema con la Peltrolux”
Nooooo! Quella voce mielata, sorridente, supplice. Quella voce da oca giuliva che intuisce di aver commesso una tragica cazzata e cerca salvezza trincerandosi dietro la linea Maginot della propria idiozia!
“Avanti” sospirò Gianfranco, fissandola negli occhi.
Senza accorgersene congiunse i polpastrelli delle dita a formare una piccola sfera immaginaria e la fece pulsare in ipotetica sincronia coi battiti cardiaci di Marta “Avanti, che cosa è andato storto, stavolta?”
“È che dovevo inoltrare il sollecito venerdì, ma poi… cioè, come dire, mi è passato di mente…” (risolino).
“Te ne sei dimenticata?” la voce era dolce, soffice come un battito di ciglia.
“No, cioè, quasi” sorrise lei “in realtà me ne sono ricordata stamattina”.
“Ah, beh, allora…” chiosò Gianfranco, ma come di consueto la sassata di sarcasmo si perse nel vuoto cosmico delle facoltà mentali dell’interlocutrice.
A dire il vero non era un problema così grave: la ditta avrebbe dovuto posticipare un paio di attività secondarie, tutto qui. In fin dei conti da quando era stata assunta Marta gli aveva procurato grattacapi ben peggiori.
D’altra parte era inutile nasconderlo: Marta non era una vera segretaria, o meglio lo era solo nominalmente, di fatto era una vanità, uno status symbol, un gioco e un antistress tutto integrato insieme come le multifunzioni di un cellulare.
Era anche una persona deliziosa quando non veniva chiamata ad esprimere concetti astratti: sorrideva in modo assolutamente amabile, aveva uno sguardo così sexy da far sospirare una statua di cera e aveva il corpo di una donnina di Manara dotato del movimento e della tridimensionalità che alla striscia di un fumetto sono crudelmente negati.
In sintesi era una specie di mostro di Frankenstein: un cervello atrofico confinato nel corpo di una Venere. Perfetta, per le sue funzioni.

“Di un pò, Marta, hai già risolto contattando la Peltrolux?” Domanda retorica, ma non si sa mai…
“No, dottore. Come prima cosa ho avvertito lei, per sicurezza” (Figurarsi) “Ma se vuole li chiamo subito, mi bastano due parole…”
“OK Marta chiamali, ma limitati ad annunciarmi e a passarmeli. Usa direttamente il mio telefono e resta accanto a me, che dopo dobbiamo fare una chiacchierata”.
Due parole… ora gli dava fastidio anche solo l’espressione? Due parole, un modo di dire come un altro, scevro di malizia e di doppi sensi, soprattutto se a farne uso era quella subdemente di Marta. Una figura retorica, niente altro… e allora perché gli lasciava quel sapore di chinino in bocca?

“Ecco dottore” la melodiosa voce della segretaria per la seconda volta nello stesso giorno interruppe il flusso delle sue riflessioni.
“Si? È lei Bignotti? Guardi, a causa di un disguido, venerdì sera…” e Gianfranco si lanciò a rincorrere il tempo perduto cercando di minimizzare il danno subito dall’azienda.
Mentre trattava con Bignotti squadrò Marta, ritta accanto a lui.
Iniziò dal basso e lentamente alzò lo sguardo, godendo di una carica emozionale simile a quella che si prova a teatro quando il sipario si solleva.

Scarpe col tacco a spillo slanciavano caviglie snelle in un gioco aereo delicato, quasi una citazione della spinta verso il cielo che caratterizza le grandi cattedrali gotiche. In entrambi i casi, infatti, la verticalità simboleggia la ricerca umana dello stato di grazia, spirituale in un caso, solo leggermente più profana e carnale nell’altro.

Le lunghe gambe di Marta, sode e sensuali nella loro abbronzatura artificiale, si nascondevano a metà coscia dietro il timpano beige di una gonna attillata, la quale copriva con apparente discrezione l’esplosione dorica delle natiche.
Risalendo ancora l’Empire State Marta, si giungeva alla base della schiena dove l’improvviso restringimento della vita, strozzata da una cintura Armani, sembrava accentuare quella leggera, deliziosa lordosi che unita alla linea del sedere disegnava un’enorme S e spingeva Gianfranco ad interrogarsi circa la sicurezza statica dell’intero complesso.
Anche se a pensarci bene non erano certo gli angoscianti disequilibri strutturali a stimolargli la salivazione.

Meglio salire allora, salire con l’ascensore delle pupille fino ad incontrare il rigonfiamento del seno, invidiabilmente cullato da un wonderbra a barbacane, e soffermarsi un attimo ad ammirare come il geniale contenitore riusciva a comprimere due poppe giunoniche in uno spazio angusto, con tutto l’insensibile sadismo di un aguzzino di Abu-Grahib.
“Non ti curar di loro ma guarda e passa”, sussurrò una vocina nella testa di Gianfranco. Una vocina querula e disgustosamente simile a quella della vecchia professoressa di lettere, inevitabilmente zitella come esige il protocollo di categoria.

Ecco allora il lungo collo da levriero, la rotondità rosea del labbro luccicante di un rossetto color mattone, la piccola guglia del naso che puntava laddove l’intelletto della sua padrona non sarebbe mai arrivato, la radice bionda dei capelli che risalivano ordinati il capo per sbocciare nel pennacchio dorato di una coda di cavallo.
Una cupola quasi perfetta, per continuare la metafora, sormontata da quella vezzosa banderuola (che volendo poteva diventare un joystick) laddove l’architettura sacra avrebbe esatto la presenza di una croce ammonitrice.
Et finis coronat opus, a sigillo di questa creatura palladiana, ecco troneggiare quel raggiante, luminoso, tragico sorriso idiota. Rassicurante certo, ma alle volte così stonato!

Gianfranco richiamò l’attenzione di Marta con un tocco della mano gentile ma deciso, quindi, sempre a gesti, la fece girare di schiena, il busto ben premuto sulla scrivania.
Continuando a trattare con Bignotti si soffermò ad osservare il disegno inquietante delle natiche. Poi si mise ad accarezzarle, ma non con la lussuriosa bramosia di un camionista, bensì con la curiosa ammirazione di un esperto d’arte. Un fine connaisseur che percorre le linee curve di un bronzo di Murer senza quasi toccarle, che accompagna semplicemente la loro danza plasmando col gesto un sarcofago fatto d’aria.

D’un tratto Gianfranco sigillò il microfono con una mano e sussurrò “Alza”, quindi proseguì la sua discussione con Bignotti come se nulla fosse accaduto.
Marta ubbidì e sollevò la gonna con un fruscio invisibile e sensuale. Il sipario beige salì lentamente scoprendo lo spettacolo di un culetto ghiottamente tondo e Gianfranco ne saggiò la tonicità picchiettandoci sopra con la penna dell’ufficio. Poi, distrattamente, insinuò la biro sotto il confine del perizoma scostandolo appena e la fece scendere lungo il solco delle natiche fino ad incontrare il primo ostacolo, quello più stretto.
Marta girò la testa e sorrise bovina, ma lui finse di non notarla ed inserì con energia la sonda improvvisata costringendo la donna ad inghiottire un mugolio di sorpresa.
“Sto parlando, Marta, per cortesia, eh… e lei, Bignotti, di grazia, sia così gentile da non prendermi per cretino. Qui la situazione è chiara…” continuò Gianfranco impossessandosi della penna stilografica ed affiancandola alla prima.
Non ebbe il tempo di ammirare lo splendore di quell’impossibile fiore con due steli che Bignotti incalzò “Chiaro, chiaro: in due parole è un ricatto!”
“In due parole si, lo è” chiosò Gianfranco prima di sbattergli in faccia la cornetta.

Due parole, vaffanculo, ma cos’era una congiura? Due parole “Resta giù, Marta. Non ho ancora finito con te”. Lui che aveva fatto dell’autocontrollo una regola di vita sentiva questa rabbia montargli dentro solamente per due luride parole.
“Irrazionale” mormorò stringendo con forza l’evidenziatore giallo. Si accorse quasi per caso che stava spingendo dentro anche quello: lo fece con ferocia “E uno”.
Marta gemette ma tenne eroicamente la posizione.
“E due”, anche l’evidenziatore arancione segui il suo clone color canarino, dilatando sempre più i tessuti dello sfintere.
Gianfranco guardò allora il portapenne mestamente deserto e si rese conto d’aver dato fondo a tutte le sue munizioni.
“Marta, voglio più evidenziatori sulla mia scrivania: magari ti aiuteranno a ricordare, tu che ne dici?”
“Si, dottore” sorrise lei, curiosamente meno giuliva di prima “posso toglierli, adesso?”
“No, cara. Prima inginocchiati e assolvi alle tue funzioni mattutine. Con delicatezza, mi raccomando che oggi non è proprio giornata”.

Marta si prostrò ubbidiente e con le lunghe dita unghiute gli slacciò cintura e pantaloni. Con la consumata maestria che viene dalla quotidianità estrasse il membro del Boss e cominciò ad inumidire il prepuzio usando solo la punta della lingua mentre ne masturbava l’asta come lui le aveva insegnato: strinse dolcemente il pungo e lo rilassò, contemporaneamente ruotò il polso di appena pochi gradi in modo di scoprire il glande un millimetro per volta, man mano che l’organo muscolo membranoso mobile con funzione tattile e gustativa procedeva alla sua coscienziosa lubrificazione.
Quando il glande fu finalmente esposto del tutto, Marta lo raccolse in bocca, accarezzò la mano del dottore e la spostò sul proprio capo in modo che la istruisse circa il ritmo desiderato. Non oppose resistenza quando questi la costrinse ad ingoiare il membro fino alla radice, ma non appena cercò di risalire per prendere fiato avvertì la pressione di lui che le impediva di liberarsi, che continuava ad imporglielo così a fondo da fargli sgorgare le prime lacrime. Allora cominciò a muovere la lingua e a scuotere la testa per farlo venire più rapidamente, per soddisfarlo, possibilmente evitando di soffocare come un minatore ucraino intrappolato in una cava.
“Muovi anche il culo, Marta: fammi vedere la tua nuova coda”.
Lei ubbidì mugolando suo malgrado, ma la mano di lui restò irremovibile, impietosa.
Ogni tanto le permetteva di risalire un po’, a metà guancia diciamo, ma solo per il tempo strettamente necessario per fare snorkel, come un sottomarino classe kilo, e poi ancora giù, dolorosamente a profondità Kursk.

Forse per via di quella rabbia amara, forse per colpa della povera, sculettante Marta impossibilitata a soddisfarlo con un bel pompino canonico, Gianfranco non sembrava capace di raggiungere il piacere. Ci aveva quasi rinunciato quando la segretaria, evidentemente disperata, cominciò a massaggiargli con le dita quel muscolo carnoso che sta tra l’ano e i testicoli. Quasi si stupì nello scoprire che stava godendo: “Ecco, Marta, bevi, bevi tutto e mi raccomando che non si sporchino i pantaloni: alle 15 arrivano i clienti coreani e devo essere impeccabile”.
Gianfranco quasi riuscì a darle il colpo di grazia con una sborrata tiepida direttamente nell’esofago, poi fortunatamente le permise di liberare la testa. Marta retrocedette quasi di colpo, fissando le labbra al confine del prepuzio e raccogliendo con la lingua fino all’ultima goccia di sperma. Quando ebbe finito guardò il dottore e gli sorrise, conscia che la tempesta era ormai passata.
“Vatti a lavare e rifatti il trucco: le lacrime ti hanno sbavato il rimmel e sembri una squaw stravolta, forza, andale” (Pacca sul culo).
<< Bastardo, sei un lurido, orribile bastardo >> pensava Marta mentre cercava di riguadagnare la posizione eretta appoggiandosi alla scrivania.
Ma Gianfranco le piantò una mano sulle scapole “Alt!”.
Si chinò appena ed agguantò la cancelleria che le aveva artisticamente parcheggiato nel culo, la piegò leggermente obliqua e la strappò via in modo volutamente doloroso.
“Uaaahhghhh” esclamò Marta sobbalzando.
“Ecco fatto, riassettati la gonna e lava queste penne” (Buffetto sulle guancia con le penne medesime).
<< Bastardo, squallido coglione pervertito impotente bastardo. E cornuto. >> Marta sorrise annuendo, sforzandosi di assumere l’espressione più teatralmente ottusa di tutto il suo vasto repertorio.

La giornata proseguì routinaria. Nel primo pomeriggio giunse la delegazione coreana ed il tempo scivolò tra convenevoli forzati, battutine di maniera ed l’annunciata stipula di un ennesimo contratto.
Normale amministrazione, tanto che Gianfranco riuscì a rincasare per le 21.30, un’ora canonica ormai, negli ultimi vent’anni. Canonica quando andava bene.

Parcheggiò la macchina sotto le arcate del giardino e suonò il campanello.
Gli aprì uno sconosciuto dall’apparente età di 15-16 anni: T-shirt laida, jeans di Levis brutalmente seviziati nel vano tentativo di tradire velleità artistiche, due enormi scarpe da ginnastica slacciate e piercing ovunque “Ah, sei tu pa’” esordì con voce delusa.
“Ciao, c’è anche tua sorella?” fece eco Gianfranco con calore.
“Boh”, un muggito dall’Ade.
“La mamma?
“Mah…” Lo sbuffo di una solfatara.
“Mioddio, ma che ti sei fumato?”
“A pà, ma la smetti di rompere i coglioni?”
“Ehi tu, vedi di cambiare tono, sennò…”
“Sennò? Ma che vuoi da me? Ma te chissei?”
“Tuo padre”.
“Chi?”
“Tuo padre!” ruggì Gianfranco salendo di un’ottava.
E lo sconosciuto gli rise in faccia: “Ma se non sai nemmeno come mi chiamo, ma vergognati!” e se ne andò con una gestualità espressiva ma non proprio signorile. Etnica, per usare il suo linguaggio.
“Marco” si scoprì a sussurrare Gianfranco.

Proprio in quel momento un biondo testone paffuto fece capolino dalla porta del soggiorno “La smettete di gridare voi due? Qui non si sente niente!”.
Appena il tempo di mettere a fuoco quel volto minoico e l’apparizione si era già dileguata come bruma mattutina. Gianfranco abbandonò la ventiquattrore su una sedia dell’ingresso e si diresse a grandi passi nel luogo in cui si era materializzata l’inquietante presenza.

Guadagnato il salotto individuò facilmente la sagoma di una pachidermica giovane sui vent’anni stravaccata sulla poltrona patronale, una mano sullo scettro del potere (il telecomando) e l’altra affondata su un caleidoscopio di M&M’s. La creatura, ipnotizzata dall’ultima soap opera trasmessa in TV, non diede il benché minimo segno di vita.
“Ciao Matilda, sai dov’è la mamma?”
“Fuori”.
“Fuori dove?”
“Che ne so, pa’? Fuori”.
“Ma quando è uscita tu non eri qui?”
“Si, ma io sono Matilda, mica la Gestapo”.
“Ok, sai per caso quando torna?”
“No”, rispose ella senza mai staccare gli occhi dal monitor.
Minchia che accoglienza, pensò Gianfranco.
Strano, in tutti questi anni doveva essere sempre stata così o anche peggiore, eppure non ci aveva mai fatto caso. No, non era esatto: non se ne era proprio mai accorto. E per la prima volta, ora, gli pesava.
Avrebbe voluto gridare “Matilda, sposta quel tuo dannato, immenso, terraqueo culo e vieni a dare un bacio a tuo padre!”, ma fu solo capace di borbottare qualche sconclusionato fonema, snobbato perfino dal gatto di casa.

Meccanicamente si diresse verso la cucina dove un allegro post-it giallo affisso al frigo attirò la sua attenzione. Sulla carta solo due parole: “Finire pasta”. Dopo averle lette Gianfranco scoprì che gli era improvvisamente passata la fame.
Tutta colpa dello stress, senza dubbio. In fondo può capitare a chiunque un piccolo esaurimento, no? Una bella dormita avrebbe risolto ogni cosa, meglio favorirla con un buon sonnifero allora.
Gianfranco ne assunse una dosa generosa e non appena la sua testa sfiorò il cuscino lui piombò in un lungo e pesante sogno ristoratore. Catalessi terapeutica, per usare un fine tecnicismo.

Non si svegliò nemmeno al rincasare della moglie, ma il mattino dopo, al suono della sveglia, accarezzò il suo profilo con lo sguardo e la salutò con un bacio: “Buongiorno amore”. Due parole.
“Lasciami dormire”. Due parole.
“OK, scusa”. Due parole.
Gianfranco si alzò in silenzio, andò in bagno, si lavò, si fece la barba e durante la delicata operazione si tagliò appena sotto il mento cosicché soprapensiero mormorò “Puttana troia”. Due…
Meglio non pensarci.

Salì in macchina più nervoso, terribilmente più incazzato della sera precedente. Mise in moto e sfrecciò tra le vie ancora addormentate della città.
Come d’abitudine passò davanti a quella stramaledetta scritta viola. La guardò quasi con sfida e così si accorse che non era nemmeno isolata, no. Era solo uno scarabocchio anonimo tra tanti: tra un cuore spaccato e un simbolo fallico, tra una falce e martello ed una croce celtica. C’era perfino un culo, stilizzato certo, ma un riconoscibilissimo culo e li, in quella babele insensata e dozzinale, due parole: “Inutile fallito”.
Che cosa assurda. Lui, un imprenditore di successo, ricco, invidiato, temuto… Lui, dottore sulla carta, marito trascurato, amante non amato, padre senza figli…

Fermò la macchina ad un semaforo e l’immancabile extracomunitario armato di secchiello e spazzolone gli si accostò muovendosi a scatti, i muscoli indolenziti dall’aria frizzantina.
Gianfranco gli fece un cenno scocciato con la mano e avanzò di qualche centimetro per sottolineare il messaggio.
Il lavavetri lo guardò con aria rassegnata e fatalistica. Uno dei tanti volti della miseria, niente di più.
Forse fu per questo che Gianfranco ebbe un’intuizione: abbassò il finestrino e chiamò “Ehi tu” e l’extracomunitario si avvicinò sorridendo, con lo spazzolone in resta come un cavaliere ad Agincourt “No, non lavarmi il vetro, ma prendi questi spiccioli” disse “Inutile fallito” e lasciò cadere per terra una moneta da due euro.
Ecco, lo aveva detto. Un po’ sottotono forse, ma lo aveva detto. Oh, che sollievo! Lui, lurido lavavetri, lui era il destinatario di quella scritta viola.

E l’extracomunitario si chinò a raccogliere il denaro.
Si, lui, lui. Prostrato per una miseria: Inutile Fallito! Inutile Fallito!
Ora si sentiva di gridarlo al mondo e sorrideva, sorrideva come un lupo.
Era salvo. Oh, come si sentiva leggero!
Vaffanculo alle due parole. Vaffanculo!
Due parole non sono niente e non significano niente. Due parole sono uno spauracchio, un’ombra cinese che spaventa i bambini: l’uomo nero, il feroce Saladino, fantasie col corpo di una favola o innocue immagini di cartone.

Il tintinnio di una moneta all’interno dell’abitacolo lo colse di sorpresa.
Un sorriso creolo e cortese fece anche di peggio.
“No, grazie”. Due parole.


Nadja Jacur

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