I sette peccati: Gola




Una tragedia ti regala la felicita’ e il piu’ dolce dei pensieri ti devasta la vita.

Strano? No, Deum non vides, tamen deum agnoscis ex operibus eius.
In altre parole sei su una demo abbozzata in sei giorni da un creativo irresponsabile e megalomane. Lo stesso tanghero che subito dopo si e’ dato macchia regalando all’uomo l’enigma di un eterno, ambiguo ed imbarazzato silenzio.

Nessuna sorpresa, quindi, che la piu’ grande avventura della mia vita sia iniziata con un incidente.
Un maledetto, benedetto incidente di sci.

All’epoca avevo appena ventidue anni, pensate, e il mio mondo assomigliava ad una rosa dei venti in continua evoluzione: alle spalle, un ex-moroso e una sessione invernale d’esami condividevano il medesimo sex appeal.
Di fronte, il velluto bianco di una pista gattata mi induceva in tentazione quanto Antonio Banderas nudo e legato ad X su un termosifone da parete.
Sopra la testa, lo sferragliare ritmico della seggiovia mi prometteva una giornata da criceto e sotto, due Volkl rapaci supplicavano solo di volare.

Volare, si, perche’ sciare e’ un po’ come volare.
O planare, almeno.
Stasi e movimento insieme.

Immobile, lasci assaggiare la pendenza ai tuoi levrieri.
Con garbo, insinui l’anca nella prima curva.
Di scatto, spezzi la linea ed imponi il ritmo.

E poi giu’, sul bordo, a ritagliarsi una corsia lontano dagli umani.
Via, via, fino in fondo! Rompere i cambi di pendenza e ipnotizzarsi all’armonia delle curve strette. Accelerare il ritmo in una danza tzigana e sentire i muscoli delle gambe che tirano. Seviziarli sempre piu’, costringerli a gridare e tagliando l’aria pizzichina, cantare.

Gia’, perche’ quando scendo, io sono quella deficiente che canta.
Che cosa? Quello che capita, a voce alta o bassa, non ne ho la piu’ pallida idea e non mi frega.
Sono libera! E tu, tu stammi dietro… se puoi.
Fa quello che faccio io, provaci, dai!
Vediamo se non senti il bisogno di cantare quando sai che nulla ti reclama e ogni sogno, ogni pensiero, evapora in una danza schiava soltanto del tuo capriccio.

Per questo canto e sempre cantero’. Per questo cantavo quel giorno, o meglio, se non ricordo male storpiavo Battiato e lui, per vendetta, mi martellava in testa con un crescendo da marcia ungherese.
/Cerco un centro di gravita’ permanente/ swing
/Che non mi faccia mai cambiare idea/ swing
/Sulle cose e sulla gente…/ swing swing
Spigolai di coda per entrare in una curva e PADABAM! La sensazione di essere travolta dall’intercity Murge lanciato a velocita’ subsonica attraverso la steppa Faentina.

Poi aria, solo aria e neve sottile sollevata dall’impatto.
Volavo. Cazzo se volavo!
Persa in un’eternita’ bonsai nella quale l’alto si stravolgeva in basso e i punti cardinali giocavano a nascondino.

Non so se avete notato, ma in quei casi si prova la sfuggente sensazione di vagare per la stazione orbitale Mir nuotando in assenza di gravita’.
Tranquilli, e’ solo l’estasi allucinata che precede l’inevitabile, rovinoso smaltarsi al suolo e si accompagna sempre ad una metastasi di stupore a stadi progressivi.

Curioso stupore, mentre cerchi di capire che cazzo e’ successo.
Sbigottito stupore, perche’ sai di aver appena preso una tranvata da paura, ma non ti sembra di sentire ancora niente.
Sconcertato stupore, mentre la personalita’ si sbriciola nelle sue varie anime: quella pessimista che grida “nooooooo, la sedia a rotelle!”. Quella ottimista che gorgheggia “Ciapa qua, vara Nurayev!”. Quella cinico-sarcastica che irride “Sei viva! Vedi mo’, che gran botta di culo”.

A quel punto la schizofrenia da incidente dilaga e, come i frammenti di uno specchio imprigionano raggi di luce mescolandoli tra loro, cosi’ pensieri, personaggi, sogni e ricordi si sovrappongono in un caleidoscopio di connessioni illogiche: cerchi Dio con cui vuoi intavolare un dialogo intimo (e cio’ e’ comprensibile, date le circostanze) ma ti appare Flavia, che ti ha appena scippato il moroso.

Al che fai di necessita’ virtu’ e la tratti come un dio.

Subito dopo rivedi il pizzaiolo della sera precedente, quello timido e carino, al quale hai frinito un incoraggiante “Domani torno, ok?” e, misteriosamente, ti viene in mente la prima volta che hai fatto un pompino.

La prima volta, gia’… che cesso di ricordo.
Avevo sedici anni, all’epoca, e un moroso insulso di nome Michael col quale flirtavo, limonavo ed avevo persino fatto l’amore (due volte), ma sempre in modo tradizionale e tragicamente impacciato.

Quel fatidico pomeriggio eravamo scesi a Tel per andare al cinema.
Lo spettacolo “yeled” [sbarby] delle 17.15, il confine del nulla: poltrone vuote a perdita d’occhio e una ventina di teenager alla disperata ricerca di un’oasi di intimita’ e percio’ strategicamente distribuiti a macchia di leopardo.

Che film davano?
Top Gun, il cult movie del momento, di cui ricordo pochi dialoghi e ancor meno fotogrammi.
Appena spensero le luci, infatti, Michael ingaggio’ un corpo a corpo spietato ma impari col gancetto del mio reggiseno, mentre la sottoscritta si tuffo’ a massaggiargli il pacco con interessata malizia.

Dopo dieci minuti, lui stava ancora armeggiando con la sua nemesi elastica ed io avevo una mano rattrappita sotto il confine dei jeans: cinque dita focomeliche come un piedino di geisha, immerse in un mare di peli e miseramente frustrate nelle loro fantasie.

Ostacoli cosi’ oscenamente evidenti imponevano soluzioni radicali.

Ce lo sussurrammo con gli occhi, un bacio sfiorato sigillo’ il Patto d’Acciaio e, mentre Tom Cruise faceva conoscenza con Kelly McGilles, io slacciai il reggiseno e lui sgancio’ cintura, bottone e cerniera a lampo con un unico, acrobatico volteggio da vero uomo.

Cosi’ era tutta un’altra cosa, cavoli!
Il cinema intero partecipo’ alla nostra gioia, perche’ nello stesso istante Maverik era stato accettato all’accademia dei bombaroli volanti.
Da parte mia, decisi di festeggiare l’evento masturbando il mio ragazzo con mano timida, e Michael ricambio’ sfiorandomi il seno, baciandomi il collo e grattandomi la schiena, performance che - resti un segreto, mi raccomando - ho sempre trovato selvaggiamente erotica.

Ci coccolammo cosi’ per diverso tempo, ma quando Goose si spezzo’ l’osso del collo come un pirla nel tentativo di ejettarsi da un caccia in avaria, fui sopraffatta dalla tristezza, mi piegai sul bracciolo del sedile e appoggiai la testa in grembo a Michael il quale, tramortito a sua volta dal colpo di scena, assunse la postura stravaccata di un grande infartuato.

Nella nuova posizione il mio universo si contrasse: il maxischermo, infatti, tramontava oltre lo schienale della poltrona davanti e quest’ultima mi abbracciava con la sua ombra, confinandomi in quel limbo vesperino che permette di intuire le sagome ma rende tutto indistinto e misterioso.

E’ fantastico quel mezzo-buio, c’avete mai fatto caso?
E’ intimo, fa sentire soli con se stessi ma soprattutto demolisce le inibizioni.
Cosa molto apprezzata se e’ la prima volta che una calda presenza ti pulsa a pochi centimetri dal naso, ti imprigiona tra profumi alieni e ti costringe combattere tra imbarazzo, vergogna ed animalesca eccitazione.

Nel buio, dunque, mi avvicinai al joystick di carne, vinsi la tentazione di giocarci quasi fosse una cloche di F-14 e vi soffiai sopra con quella delicatezza tenera che si puo’ avere solo a sedici anni.
Subito Michael inizio’ a grattarmi la schiena furiosamente. Con entrambe le mani.

Presi coraggio, appoggiai le labbra all’asta ed immediatamente lo sentii sussultare.
Che strana sensazione.
Orgoglio? Potere? Conferma della propria femminilita’?

Approccio sperimentale: rifeci il gesto. Altro sussulto.
“Se lo tocco” notai “fibrilla e smette di grattarmi. Se sto ferma, riprende a giocare con la mia schiena e mormora sconcezze insensate”. Dunque c’era una correlazione tra le due cose, azzardai sagace (gia’ si poteva sospettare che da grande sarei diventata ingegnere).

Okey, bello gioco!
Lo sfiorai una terza volta, ma Michael ebbe una reazione molto meno vistosa.
Indispettita e prepotente (mamma mi ha fatta cosi’), appoggiai senza preavviso le labbra sul glande. Sussulto.
Scesi un po’ e lo circondai per intero. Sussulto.
Lentamente, molto lentamente, spennellai la cappella con la punta della lingua. Sisma.

Decisi che la cosa si faceva intrigante percio’, mentre Tom Cruise entrava in crisi depressiva per i sensi di colpa correlati alla morte di Goose, mi concentrai sulla dinamica del pompino: iniziai a stimolarlo con le labbra, leccarlo sul frenulo, incavare le guance stringendolo dapprima timidamente, come una gattina, poi in modo ben piu’ licenzioso e maialesco, come avevo visto fare sui film prono.

Presto fui premiata da dolci goccioline che mi riempirono di stupore e ghiotta soddisfazione. In risposta mugolai piano, simulando partecipazione sincopata alla tragedia emotiva che si stava consumando sul grande schermo, e all’improvviso avvertii il peso di una mano tra i capelli.

L’orgoglio istintivo di reagire ad un imposizione si scopri’ in contrasto con un secondo, inatteso ed imbarazzante istinto: quello di lasciarsi andare, sottomettersi e farsi usare come uno strumento di piacere.
Vinse il primo, il meno perverso e sofisticato. Vinse l’anima da bulla di Benai Berak che si ribellava dicendosi “Ehy, bello… calmino, eh? Se mi va lo faccio da sola, senza mani”

Percio’ rialzai la testa e lo guardai negli occhi, immobile, cattiva, senza dire nulla.
Lui ritrasse la mano, ma io continuai a fissarlo per un po’, poi annuii e mi chinai a prenderglielo in bocca una seconda volta.

Dopo un po’, un’eternita’ o un istante, il cazzo comincio’ a tremargli piano, come una canna da giardinaggio che singhiozza sotto la spinta del primo getto d’acqua. Intuii percio’ che stava per venire e istintivamente sollevai la testa, ma subito mi scontrai con una resistenza imprevista.
La sua mano era di nuovo li, mi aveva colto di sorpresa e mi spingeva giu’, costringendomi a raccoglierlo tutto. Affondai il viso tra i peli e sentii l’asta che sfregava sull’ugola mentre la punta mi forzava l’esofago scopandolo. Era come avere un enorme, caldo ditone in gola.
Ora vomito e mi soffoco, pensai.
Che morte di merda.

Stavo davvero per rigettare quando la pressione si allento’.
Mi allontanai di scatto e liberai subito la bocca, ma solo per sentire uno schizzo caldo e salato sul palato, poi un altro sul viso e sulle labbra.

Non cosi’, vaffanculo!
L’avrei fatto, l’avrei anche bevuto probabilmente, ma non cosi’, cazzo!

Sputai, e Maverik lancio’ un AIM-54 Phoenix contro un caccia russo.
Mi pulii con una mano e poi addosso a Michael.
Mi alzai per andarmene e lui mi fu a fianco: “Scusa”.
Scusa un cazzo.

Un MIG 21 esplose in una palla di fuoco e la sala intera tremo’ per il boato amplificato dai megawoofer. Contemporaneamente schiantai un diretto sul naso di Michael. Un cartone secco, duro, da strada e con schiocco callifonico.
Uno solo pero’, perche’ sono una che si controlla, e lasciai il cinema sibilando di rabbia come la turbina di un jet.

Che ricordo di merda, ragionai, e quasi per contrappasso stampai una musata olimpica sulla pista da sci, una sindone perfetta, seguita dall’olocausto di spalle, nuca, schiena, pancia.

Nema problema, il mio corpo si era addestrato una vita per affrontare simili imprevisti, percio’ fu con fierezza che ogni muscolo rispose alla chiamata: ignorai il dolore come Rambo, mi appallottolai in volo Bruce Lee, la testa si incasso’, le braccia si chiusero come ali di farfalla, le gambe si piegarono in una spettacolare flessione shaolin e sbadaBAM!
La coda dello sci mi si incastono’ sulla nuca.

Tonata assurda e altra tragica musata.

Aggraziata come un vitello, mi aggrovigliai con la neve che entrava dappertutto, ma preferenzialmente nel collo, a regalare un bacio vizioso ed indesiderato.
Grugnii? Smadonnai? Di tutto un po’, probabilmente, ma solo per un istante perche’ subito la mandibola impatto’ al suolo e vi scavo’ un ricciolo di neve del tutto identico ad un ricciolo di burro da prima colazione.

Arai la pista in silenzio coatto. Dolore!
Rewind: Dio, Flavia, pizzaiolo, pompino, dolore…
Correlazione: e’ possibile slogarsi una mascella facendo un pompino?
(E’ sempre nei momenti di maggior esitazione che l’uomo si interroga sui grandi misteri della vita).

Per mia esperienza direi di no.
Si, perche’ dopo il primo, traumatizzante exploit non e’ che abbia desistito.
Anzi, il giorno stesso, a casa, cercai di rivedere i fatti a mente fredda: ero fiera ma anche dispiaciuta.

Perche’? Perche’, cazzo?
Mi autoanalizzai senza pieta’ e scoprii che io, diretta, prepotente, maschile and proud to be, proprio io, mi sentivo attratta dal piacere perverso d’essere usata e violata. D’essere dominata dalla mano di un uomo che mi tratteneva, mi possedeva e mi costringeva a subire il sesso come imposizione.
Porca miseria, se era stato eccitante! Eppure sarei morta piuttosto che ammetterlo con Michael.

Ma con altri…
Le volte successive fui io stessa a cercare quelle condizioni, ma dovevo arrivarci per gradi. Dovevo essere io a decidere quando… ed era una cosa che i miei compagni imparavano presto. Con le buone o con le cattive.

Inoltre preferivo il buio, mio grande complice.
Non vedere, si, perche’ all’inizio un po’ mi vergognavo a provare piacere a quel modo.
Cioe’, ti insegnano che e’ una cosa zozza, no? Quindi ti senti degradata… e ti piace, cazzo se ti piace, ma ti imbarazza anche. Allora chiudi gli occhi o – con un pizzico di perversione in piu’ – ti fai bendare, privando la coscienza della vista ma aprendo l’anima all’immaginazione… e l’anima e’ mille volte piu’ perversa dello sguardo perche’ si fa guidare da stimoli piu’ sconci e primitivi.
Come l’odore.

L’odore umido che c’e’ tra le cosce degli uomini, per esempio, che ti chiama ad infilarci la testa dentro, a leccare, a baciare e a scoparti il cervello da sola su quella verga che senti ma non vedi, che diventa totem, presenza da adorare e compiacere in ogni modo e con ogni degradazione.
Il tuo dio dell’amplesso.
Non l’uomo, ma il suo cazzo.
Impersonale.

A quel punto diventavo schiava della perversione e da essa mi lasciavo trascinare giu’, a profondita’ Nautilus. Solo quando mi sentivo pronta, pero’, porca, succube del mio uomo (o del suo cazzo?) e al tempo stesso signora assoluta del suo mondo sessuale, solo allora gli prendevo la mano e me la accompagnavo sulla testa.

Quello era il segnale.
Da quel momento avrei accettato ogni cosa, dovunque.
Lo avrei accolto fino in gola, fino alle lacrime, mi sarei lasciata sborrare dove voleva, avrei leccato, bevuto, mi sarei fatta dire di tutto. Avrei supplicato per essere usata… ma quando premeva sull’ugola. Che rabbia!
Quando era troppo in fondo e sentivo l’incontrollabile stimolo a rigettare.
Che rabbia, che rabbia! Perche’ mi piaceva, cazzo se mi piaceva, eppure…

Eppure tutto continuava a vorticare: pini, bordopista, racchette erano i corpi celesti di un astrolabio impazzito sotto i colpi di un bambino, ed io ne ero il centro.
Io non giravo, no, il mondo girava per me e girando mi mazzuolava di legnate.

Poi, all’improvviso, l’effetto antigravita’ cesso’ e tutto si trasformo’ in scivolio.
Attorno… cavoli, prima il sole si rifletteva sul manto candido con l’arroganza di una modella in abito da sera. Adesso, invece, un’unica massa di polvere ghiacciata imprigionava ogni cosa in un pantagruelico batuffolo di cotone.

Respiravo neve, mangiavo neve e attraverso la neve in sospensione individuai una sagoma vagamente antropomorfa, un orso bianco avvolto nella tormenta o forse un uomo tutto intorcinato
“E’ lui!” mi dissi “E’ la merda umana che mi ha travolta!”
Al che, il plantigrado si agito’, scosse la testa smarrito e mi vide.
Era ad un metro e mezzo da me e poteva gia’ considerarsi carne morta.

Sollevai il capo reso ancor piu’ truce dalla postura sbilenca della mascherina, bloccata in diserzione come la benda di Capitan Harlock. Incrociai il suo sguardo attraverso i mulinelli candidi ancora in sospensione e, con un’unica saetta guercia da sfida all’OK Corral, gli comunicai in silenzio il suo imminente decesso. Perche’ in fondo aveva diritto di sapere, il verme.

Dopo cercai di issarmi sulle braccia e muovere le gambe… e provai la netta sensazione che un dentista sadico mi aprisse il ginocchio come un melograno e ci ravanasse dentro con tenaglie, trapani e chiavi inglesi.
Dio, che male!

Il respiro mi si impiglio’ nei polmoni mentre il nevischio sollevato dalla catastrofe riguadagnava piano la forza di gravita’ e si trasforma in abbacinanti pagliuzze dorate di sole.
Male! Cazzo-che-malemalemale!

Neve, lacrime, riflessi di oro fuso mi bruciavano gli occhi.
Mi morsi il labbro a sangue e quando intravidi il pirata che si rialzava intero lo odiai fortissimamente.
Avvicinati. Coraggio, creaturo, vieni a me.
Sii uomo e fatti ammazzare.

Come un galata morente protesi il braccio alla ricerca della terza dimensione e, con sforzo titanico, tentai di artigliare a morte l’aborrita sagoma, la quale per tutta risposta esplose: “Alles gut?”
Arrrgggg! Pirata, assassino, infame e perfino tedesco!

<< Stock! >>
Il legamento crociato si ribello’ alla scabrosa rivelazione e una frustata parti’ dalla rotula scavandomi la coscia come un serpente di fuoco. Subito fitte lancinanti passarono all’inguine ed alla pancia in ondate da sbarco successive.
L’artiglio scese al suolo innocuo e la sete di vendetta si stempero’ in autocommiserazione.
Per un attimo mi consumai nei sogni di cio’ che avrei potuto essere.
Per un attimo percepii il culo vitruviano di un ragazzo del soccorso alpino.
Per un attimo mi domandai perche’ le cose migliori capitano sempre e solo quando non puoi approfittarne, poi la luce divenne grigia.
Rossa e grigia, e tutti i suoni si addormentano con lei.

Ripresi a connettere sensatamente solo il giorno dopo, in un reparto di ortopedia, mentre un tizio agitato in camice bianco cercava di comunicare con me al di la delle nebbie del post anestesia.
“Signorina, l’operazione e’ riuscita” diceva “Nessun problema, davvero: dovra’ fare un po’ di ginnastica riabilitativa, sara’ lungo e fastidioso, ma tornera’ esattamente come prima… quasi”.
“Gh?”
“Si perche’, cioe’, io non so come dirglielo... sono sinceramente imbarazzato, le assicuro. (Cazzo, tutte a me le rogne, tutte a me, cazzocazzocazzissimo)… Ma non si inquieti, eh”
“Iguetami? Io? Digo… le semgro pforse ‘l tipo?”
“Eh, ok… allora, aspetti che le spiego. Dunque, per l’anestesia e’ stata intubata. E’ la prassi, si fidi, nulla di che. Ne facciamo centinaia al mese. E poi, si ecco, come dire, ad operazione conclusa l’infermiere che le ha tolto i tubi e’ stato… troppo zelante, energico. In pratica (come glielo dico adesso, come? Tutto d’un fiato?) le ha strappato l’ugola, signorina. Sono costernato, davvero e… si, insomma, se volesse far causa all’ospedale ne avrebbe ogni diritto, si ricordi solo che io non c’entro e che (vaffanculo, macheffigura di merda), cioe’, sono stato incaricato di riferire ma quel giorno io nemmeno c’ero. Mi rendo conto che la sua mutilazione sia un peccato, ma…”

Ma… Cacchio, sono passati anni e se reincontro quel paramedico dallo strappo energico gli faccio un servizio di bocca faraonico, altroche’!
Una pompa soltanto (anche la riconoscenza ha un limite, dopotutto) ma per lui sarei solo labbra morbide, sarei le pareti vellutate della gola e la lingua servile che implora di bere. Mi inginocchierei davanti a lui, lo masturberei con un bacio dell’epiglottide e lo guarderei godere oltre il velo delle lacrime. Quel velo che mi avvolge ora quando faccio un soffocone perche’, senza lo stimolo fisiologico al rigetto dovuto all’ugola, posso raccoglierlo fino alla radice, cosi’ meravigliosamente a fondo che gli occhi s’inumidiscono, appunto, di lacrime.

Ecco, adesso concentratevi.
Pensate che tutto cio’ deriva da un incidente.
Di piu’, da un incidente nell’incidente, il caso nel caso, una piramide di sfighe a matrioska, il cui risultato finale e’ stato curiosamente definito un “peccato” e a sua volta, in perfetta sintonia con questa pazza demo, ha spalancato le porte a ben altri tipi di peccato, piu’ lussuriosi e sugosetti.

Che poi, peccato… ma in fondo, che cos’e’ il peccato?
Decidere cosa e’ puro e cosa no, e’ peccato?
Dispensare anatemi, fatwe, herem, strafulminare per sette generazioni, e’ peccato?
E’ peccato usare il peccato per impedire al prossimo di godesi la vita? Per rovinarsi la propria?
Parole, parole, fiumi di parole condannano cose belle, brutte, innocue o persino romantiche e milioni di voci gridano al peccato attraverso i secoli, le isterie, le fobie di personalita’ represse.
Peccato, peccato!... Peccato?
E se i peccati fossero quelli che escono dalla bocca e non quelli che entrano?


Nadja Jacur

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