Il Nuovo Mondo



Non si puo’ fermare il tempo, no mio piccolo Ekatl.
Tanto meno farlo tornare indietro. No, proprio non si puo’.
Non si puo’ neanche guidarlo, no, nemmeno questo si puo’ fare, piccino.
Decide lui, e tu al massimo puoi dimenticare cio’ che e’ stato, sbirciare cio’ che e’ e temere cio’ che sara’. Oh, come lo detesto, come lo detesto! Anche tu, vero Ekatl?

Pazza? Dici che sono pazza?
Che bella novita’, lo so che sono pazza, ma non abbastanza purtroppo: persino questo mi ha strappato, il tempo. Perfino la consolante cecita’ della follia.

Ma tu ricordi come e’ cominciato tutto, vero Ekatl?
Ma certo, come potresti dimenticare: non avevi neanche quattro lune ed eri gia’ un bimbo sveglio, sano e anche troppo vivace. Eri la cosa piu’ bella che avessi mai avuto, forse perche’ assomigliavi tanto a tuo padre, forse perche’ eri il prodotto delle mie pene e del mio sangue o forse, piu’ semplicemente, perche’ eri mio. Non credi Ekatl? Si, e’ cosi’, non occorre che tu mi risponda.

Di certo sei stato il piu’ bel dono che Hamatili, tuo padre, potesse mai farmi e gliene ero grata, oh si scioccamente grata, perche’ eri tanto mio quanto suo e lui ti amava moltissimo. Lo sai che ti voleva bene, vero? Te l’avevo gia’ detto, no?
Si e’ cosi’, tu non l’hai mai conosciuto, ma lui poteva stare ore a guardarti con una tenerezza che non puoi immaginare, per non parlare della cautela con cui ti prendeva in braccio, neanche fossi fragile come un uovo. Quanta gioia devi avergli dato, mio piccolo Ekatl, quanta...

Si, in quel periodo la nostra vita era cosi’ felice e spensierata che nessuno si preoccupava troppo degli stranieri accampati alle porte di Tenochtitlan. C’era chi diceva fossero figli degli dei, c’era chi ribatteva che erano uomini come noi, solo con la pelle piu’ chiara. A me facevano paura comunque, ma che potevo fare? Se ne dovevano occupare re Motecuhzoma e i nobili e i sacerdoti, io avevo te a cui pensare e non avevo tempo per altro. Tempo, tempo... sempre il tempo.

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Ancora mi domandavo come diavolo avevano fatto quei luridi selvaggi a costruire una citta’ cosi’ maestosa e con templi tanto imponenti quanto blasfemi.
Diamine, non riuscivo a capacitarmene! D’altra parte io ero un soldato, non uno scalpellino, e nella mia ignoranza restavo sconcertato dal fatto che simili senzadio, privi di animali da soma ed ignari – a quel che si dice – perfino del concetto di ruota, fossero stati in grado di realizzare opere di tale portata.
“Al diavolo!” conclusi “Tutto questo pensare e’ lavoro da preti ed io non sono certo un uomo di chiesa: sono un veterano e la mia arte rifulge sul campo di battaglia, non tra i marmi dei palazzi”.

Ed era vero, si, perche’ io ho combattuto per Nostro Signore e per la Cristianissima Spagna fin da quando ero ragazzino. Ho vissuto la reconquista, ho lottato contro mori di Andalusia, ho visto assedi e citta’ messe a sacco, ho portato la prima croce nell’Alahambrar di Granata, eppure, di tutto questo, che mi era rimasto?
Un compenso misero, un mosaico di cicatrici, nessuna proprieta’ e tanto onore.

Gia’, ma “l’onore non da scudi”, come dicono le donne di malaffare, percio’, anche se i miei capelli ogni giorno ingrigivano e si facevano piu’ radi, decisi di tentare la sorte imbarcandomi per le Indie.
Le Indie, in tutto il regno non si parlava d’altro: correva voce che le terre scoperte da quell’italiano, Colombo, fossero ricche d’oro, d’argento e di ogni ben di Dio. Correva voce che fosse un nuovo mondo, vergine e popolato solo da primitivi miscredenti. Un paese nel quale – con l’aiuto del Signore – uno spirito determinato poteva mutare il proprio destino.

Arrivato ad Hispaniola mi misi al seguito di un certo Cortes: uno scaltro bastardo che sapeva il fatto suo e nel quale avevo fiutato la stoffa del condottiero. Non mi ero sbagliato a valutarlo, no, egli infatti mi ha portato fino alle porte di quella citta’ dal nome barbaro e impronunciabile, tanto maestosa quanto ricca, tanto fiera quanto indifesa.
“E’ questione di giorni, forse ore” mi ripetevo in continuazione “dopodiche’ – questa volta – non sara’ solo gloria”.

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“Ti preoccupi troppo, donna” mi disse Hamatili “che minaccia vuoi che siano poche centinaia di stranieri? Guardati intorno: la citta’ e’ popolosa e potente, non c’e’ assolutamente nulla da temere.”
E gli credetti, perche’ volevo credergli, perche’ sembrava tutto cosi’ giusto, cosi’ logico… Si, e’ proprio vero che quando si e’ troppo felici gli dei si indispettiscono e, per invidia o per gelosia, accecano i mortali.

Tranquillizzata, abbracciai tuo padre e lo trascinai sulla stuoia di canapa per ringraziarlo a modo mio. In breve mi ritrovai nuda, con Hamatili che mi baciava il seno. Si Ekatl, questo stesso seno che ti ha nutrito e che allora era cosi’ sodo e procace come non l’avevo mai avuto.
Tuo padre mi sfiorava appena, sai? Si, aveva paura di sottrarre a te anche una sola goccia di prezioso latte. Che sciocco che era… eppure forse proprio per questo l’amavo tanto. Mi credi se ti dico che l’amavo, vero?

Oh, ma l’amavo anche per come sapeva essere un uomo, sai? Si, si, era un guerriero tuo padre, forte e robusto, e sapeva come far impazzire una donna: mi portava al piacere sfiorandomi con le dita e con la lingua, poi mi possedeva con vigore facendomi sentire a fondo tutta la sua virilita’, cosi’ a fondo che non di rado sentivo la lieve, ritmata carezza dei suoi testicoli sul ventre. Chissa’ se tu saresti mai stato capace di dare lo stesso piacere alle tue donne, Ekatl, chissa’… un'altra domanda a cui il tempo ha rubato la risposta.

Quella notte Hamatili volle che fossi io a cavalcarlo, non il contrario: diceva che era il modo migliore per non gravarmi sul seno e al contempo godersi lo spettacolo rigoglioso che da puerpera potevo regalargli. Non mi vergogno di dirlo a te, Ekatl, che sei suo figlio, ma sappi che tuo padre era decisamente lussurioso e che io non ero da meno, percio’ lo accontentai e lo feci sia perche’ in quel modo lo sentivo di piu’, sia perche’ mi incantava la sua espressione di trasognato stupore.

Feci appena in tempo a raccogliere in grembo il suo seme, che la citta’ intera sembro’ gridare.

Mi scostai di scatto, mi precipitai sull’uscio per scoprire cosa aveva provocato tanto subbuglio e, sbirciando tra le tende, vidi gruppi di guerrieri armati di torce che si dirigevano correndo verso il grande tempio.
Non compresi immediatamente cio’ che stava succedendo, ma Hamatili fu piu’ intuitivo di me: “Gli stranieri” disse, ed aveva gia la lancia in pugno.
“Ekatl” aggiunse sfiorandomi le labbra con le sue, e usci’ prima ancora che io riuscissi a ricambiare il bacio. Tempo, non c’era tempo. Capisci perche’ lo detesto, Ekatl? Mi capisci, vero?

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Fui uno dei primi ad attraversare i ponti e ad entrare in citta’, perche’ sono convinto che per accaparrarsi un buon bottino bisogna avere il fegato di rischiare la pelle.
Scagliammo i mastini contro le poche guardie lasciate a vigilare durante la notte, poi le travolgemmo letteralmente e ci lanciammo nel dedalo dei vicoli.
Era un gioco da ragazzi: quei pagani figli di puttana giravano nudi o protetti da ridicole imbottite di cotone. Non avevano nemmeno armi di metallo, ma solo mazze di legno o primitive spade di ossidiana.
Per carita’, anche con quelle si puo’ uccidere un uomo, ma con molta difficolta’ se questo e’ protetto da un buon elmo, una robusta corazza e si difende con un’eccellente lama di Toledo.

Non impugnai nemmeno la balestra, dato che e’ lenta da ricaricare ed e’ quasi inutile nei luoghi angusti. Mi affidai solo alla mia vecchia spada e ad una torcia.
Per mettere a sacco una citta’, infatti, bisogna spargere il caos: quando le fiamme divorano le case e la gente e’ terrorizzata, ognuno cerca di salvare se stesso, persino i guerrieri abbandonano i loro posti per proteggere i propri beni e i propri cari, cosi’ il nemico perde compattezza e puo’ essere facilmente isolato e sopraffatto.

“Avanti, citrulli” gridai, con l’autorita’ concessami dall’esperienza “Alle fiamme questi trogoli! E gridate, perdio! Gridate forte! Fate sapere a questi bastardi che la loro ora e’ giunta!” E per dare l’esempio scagliai la mia torcia sul tetto dell’abitazione piu’ vicina.

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Piu’ tempo passava e piu’ mi scoprivo spaventata (lo vedi, Ekatl? Il tempo, sempre lui, quel maledetto).
Tu dormivi, percio’ non puoi ricordarti che la notte echeggiava delle urla dei guerrieri e dei suoni della battaglia, ne’ puoi ricordare che l’oscurita’ ostacolava la vista e dava la sensazione di vivere nell’incubo di un cieco.
Tutto cio’ duro’ fino a quando, alle flebili luci delle stelle, si unirono i bassi bagliori rossastri dei primi incendi. In quel momento ogni cosa cambio’.

Tu, piccolo mio, ti svegliasti improvvisamente ed eri talmente spaventato che cercai di consolarti stringendoti al petto. All’improvviso, mentre ti cullavo, del fumo biancastro si allargo’ sul nostro tetto e contemporaneamente il puzzo di paglia bruciata infesto’ la stanza.
In pochi attimi l’intero soffitto era fatto di fuoco e gialle vampe ballerine minacciavano ogni cosa. Si, si, che cosa terribile Ekatl, lo ricordi questo, vero?

Tu vagivi disperato e ti stringevi a me con tutte le tue forze di bimbo. Oh, Ekatl, tu non hai idea di quanta determinazione possa nascere in una madre in simili circostanze, anche in una giovane quanto lo ero io. Agii d’istinto, come la femmina di un puma: agguantai una coperta, te l’avvolsi intorno e mi precipitai in strada pensando solo a raggiungere il fiume.

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Una giovane donna mi sfreccio’ accanto correndo, istintivamente l’acchiappai per i capelli e la gettai a terra.
“Dove pensi di scappare, puttana?”
Vidi il fagotto del neonato che portava in grembo, glielo strappai e lo allontanai con un calcio.
Quella stupida troia si mise a gridare, come se servisse a qualcosa nel bel mezzo di una battaglia. E si dibatteva, persino. Cosi’ la percossi sul viso con la guardia della spada: una, due, tre volte. Continuai a colpirla finche’ il volto non fu che una maschera di sangue e lei giacque tramortita.
Allora le alzai la gonna e la stuprai. Era glabra come una bambina, quella cagna pagana… bello, ti da come una sensazione di purezza virginale.

La presi nel rispetto delle regole di Nostro Signore, come ci aveva raccomandato padre Fernando, il gesuita. E’ facile salvare la propria anima dall’inferno quando si hanno uomini di chiesa, dotti e premurosi, che ti spiegano quali siano i canoni della fede e quali siano le semplici regole che essa ci impone per distinguerci dalle bestie.

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Mi aveva massacrata di botte, lo straniero, mi stava stuprando ed ero convinta che mi avrebbe uccisa, che fosse giunta la mia ora (tempo, tempo, perche’ non mi hai davvero presa con te, maledetto tempo?). Eppure mi importava solo di cio’ che sarebbe accaduto a te, piccolo mio, e non smisi nemmeno per un attimo di pensare che, mentre lo straniero si sfogava col mio corpo, tu eri salvo.

Fu una cosa terribile, Ekatl, l’atto, la violenza, tutto… Lo straniero mi tratto’ come una cosa, come un animale: prima mi allargo’ con una mano o con un pugno, poi mi schiaccio’ sotto quel suo vestito di ferro in modo cosi’ brutale da spaccarmi persino delle ossa del petto ed infine mi riverso’ dentro il suo piacere.

Quando ebbe finito si alzo’ e se ne ando’, cosi’, semplicemente… gli fui quasi riconoscente (pensa te quant’ero stolta!) per non avermi uccisa, per quell’improvviso atto di pieta’.

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Abbandonai la femmina senza ucciderla perche’ poteva ancora servire a qualche compagno, ma mentre mi dirigevo verso il centro della citta’, inciampai su un dannato fagotto e finii bocconi nella mota.

Era quel bastardo urlante che la cagna teneva in braccio.
Non so se siano state le sua grida acute a farmi saltare i nervi, o l’eccitazione della battaglia, o lo scorno per esser scivolato nel fango ed essermi lordato come un porcaro. Mi ribolli’ il sangue nelle vene, questo so, allora agguantai per i piedi il marmocchio, reo di avermi fatto perdere l’equilibrio e gli sfracellai la testa contro un muro, proprio sotto quell’anello di pietra che questi pagani usano come gioco.
Fu questione di un attimo, ed ero di nuovo nel cuore della battaglia.

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Riuscii a trascinarmi fino alla coperta nella quale ti avevo avvolto, tesoro mio, ed appena ti riabbracciai mi sembro’ che quanto avevo appena vissuto fosse solo il frutto di un incubo passeggero.
No. Non mi accorsi subito che la coperta era insanguinata, perche’ alla luce delle fiamme terra e sangue si confondono. Non me ne accorsi ti dico, Ekatl, devi credermi!

Cosi’ ti strinsi in grembo, felice di sentire ancora una volta tra le mie mani il tuo amato corpicino. Per calmarti presi a dondolarmi li, in ginocchio in mezzo alla strada, e ti cantai quella nenia dolce che ti piaceva tanto e ti faceva smettere di piangere.

Passo’ del tempo prima che mi rendessi conto.
Davvero, Ekatl, ti prego, credimi: passo’ del tempo prima che mi rendessi conto che tu non ti muovevi, che non vagivi. Allora aprii la coperta e... tempo, tempo perche’ non ti fermi mai?
Perche’ non torni mai indietro? Non puoi’ farlo per me? Una volta, una volta sola! Ti prego, liberami dalle tue catene, torna indietro ed abbandonami li.

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Ero stremato. Avevo combattuto per ore e fatto strage dei pagani, ma la citta’ era finalmente nostra come tutti i suoi tesori.

Avevo sete. Mi appoggiai ad un muretto a secco, stappai l’otre e tracannai una generosa sorsata di quello stomachevole liquore dolciastro che si fa con le canne.
Bleah, che schifezza… ma d’altra parte come farne a meno?
Al diavolo! Era stata una giornata faticosa, un po’ di riposo me lo meritavo.

Mi misi ad ammirare le fiamme che divoravano Tenochtitlan e i fumi nerastri che salivano verso il firmamento. L’immagine mi ricordo’ la giusta punizione delle streghe, serve di satana: se Babilonia era una meretrice, Tenochtitlan poteva ben essere una strega, no? Bene, come sempre nei disegni del Signore tutto tornava.

Trangugiai un’altra sorsata di quel piscio di cavallo arroventato e mi scoprii ad ascoltare le grida dei moribondi, le bestemmie dei soldati. Udii le urla acute delle donne stuprate, il pianto disumano delle madri pagane, uguale a quello delle mamme andaluse, uguale a quello delle madri di tutte le citta’ e i paesi che si mettono a sacco.

Un altro sorso, via, avevo la gola dannatamente secca.
Svuotai l’otre tutto d’un fiato e il liquore comincio’ ad andarmi alla testa, mentre le narici fiutavano il familiare odore di sudore, sangue e sterco (perche’ un uomo perde il controllo del suo corpo prima di morire? Chissa’). E il fetore rancido, dolciastro, nauseabondo della carne bruciata. Come a Granada, come a Loja, come a Marbella, e poi ancora, ancora... Ancora.

All’improvviso, con l’inspiegabile lucidita’ dell’ubriaco, compresi che non c’era differenza tra le Indie e la Spagna. Avevo seguito Cortes e la rotta di ponente per cambiare vita, per lasciarmi alle spalle il mio passato ma gli spettri della reconquista tornavano a tormentarmi comunque, sempre uguali, solo da un’altra parte del mondo. Stesse fiamme, stesse grida, stessi disgustosi odori, stessi miraggi di ricchezza in una realta’ che non mutava mai. Non e’ cosi’ che si cambia un destino, no, diavolo!

Non so se fu quell’immondo liquore o se fu l’intervento di Nostro Signore, ma mi tolsi la corazza, gettai elmo e spada. Lasciai alle spalle ogni cosa, soprattutto i compagni.
Da allora vivo qui, randagio, sulle montagne della Sierra Madre.
Ho trovato cio’ che cercavo: il Nuovo Mondo.

Nadja Jacur

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