Il pendaglio




Si, porto un pendaglio, un pendaglio arabo e non lo tolgo mai.
Se sono musulmana? No, no, decisamente no.
Ma questo pendaglio non è un oggetto qualunque e, pur non avendo un grande valore, ha una sua storia.

Lo possiedo da anni ormai, perché è passata una vita da quando l’ho ricevuto. Letteralmente una vita, anche se son pronta a giurare che era solo ieri.

All’epoca ero sotto le armi e il mio plotone carri doveva effettuare un'esercitazione combinata con la fanteria. Roba di routine, insomma. Area d'operazione: Golan Settentrionale. Tempo: 12 giorni.
Parpar, farfalla, come l’equipaggio aveva battezzato il nostro Merkava mkIII, fungeva d'appoggio corazzato per una squadra del sayeret hadruzim. Soldati di TSHAL, come noi. Solo che loro sono drusi, non ebrei.
Ora, è normale che ci si prenda in giro tra soldati. Lo è ancor di più se a questo si aggiungono le diversità di religione, di sesso e quant’altro. Come sempre, basta non esagerare.

Così, col mio equipaggio (eravamo tutte giovani, al massimo 20 anni), decidemmo di provocare - nulla di indecoroso, sia ben chiaro – i nostri colleghi. Di farlo così, come passatempo, per avere qualcosa di cui ridere, per vanità.
Perciò, quando sentii gracchiare l'interfono con l'aspirato accento arabo << Squadra pronta >> aprii il portellone e balzai a terra << Eccomi >> mentre Irina, la nostra pilota oseziana faceva capolino da un portellone.
<< Rabat Ishem Dalouf, màkim >> [Caporale Ishem Dalouf, caposquadra], mi salutò un giovane che avrebbe potuto avere più o meno la mia età.
<< Segen [Tenente] Nadja Jacur >> risposi, e mi misi al suo fianco. << Mi presenti ai suoi uomini, rabat >>
Passai 10 minuti buoni ad ancheggiare davanti a quei poveretti mentre la biondissima Irina, emersa dalle viscere di parpar, se ne stava appoggiata alla torretta come una Paolina Bonaparte scandinava.

Quello fu l’inizio perché per i 10 giorni successivi, pur assolvendo ai nostri compiti (ché non avrei mai tollerato il contrario), a quei ragazzi gli facemmo uscire gli occhi fuori dalle orbite. Senza mai fargli concludere nulla, ça va sans dire.
Privilegi del grado, mi ero riservata il caposquadra "avversario", il rabat Ishem Dalouf, appunto, e mi divertivo a provocarlo in ogni modo... anche perché in fondo mi piaceva: taciturno e capace, ottimo soldato, eccellente caposquadra (mi sarebbe anche piaciuto combattere al suo fianco) ma soprattutto bello. Di quella bellezza magica che hanno i ragazzi qui in medio oriente. Pelle colore del the, morbida come i suoi riccioli d'ebano. Occhi grandi e neri, che luccicano come stelle cadute e si nascondono dietro lunghe ciglia di pece, curve come sciabole.
… Poveri, sorrido ancor oggi quando penso a quello che facevamo a quei ragazzi.

Il penultimo giorno volli vedere se riuscivo a far implodere il mio Ishem.
Lo feci un po' per noia, un po' per sadismo, un po' perché mi piaceva leggere l'imbarazzo nei sui occhi di velluto.
<< Rabat >> lo chiamai << venga nel carro, portellone posteriore: dobbiamo discutere il percorso di domani, topografica alla mano >>
<< Segen >> salutò prontamente Ishem, e salì nel vano posteriore del Merkava, quello che viene usato per caricare le munizioni di riserva o come possibile via di fuga qualora il mezzo venisse colpito frontalmente.
<< Chiuda il portellone, Rabat >>

Mentre eseguiva l'ordine, io aprii le carte topografiche del Golan settentrionale e, con molta naturalezza, abbassai fino al seno la cerniera della tuta da combattimento. Non si vedeva nulla, per carità... finché non mi chinavo in avanti.
Tuttavia tutto poteva sembrare molto naturale: in un carro fa caldo, lo spazio è angusto, l'equipaggio è come una famiglia e, si sa, ci son pochi pudori tra consanguinei.
<< Dunque >> cominciai << domani noi attraverseremo questa zona... >> e mi chinai sulla mappa.
Con l'angolo degli occhi lo vidi deglutire e dentro di me sorrisi.
<< Ma mi sta seguendo? >> Chiesi con voce dura.
<< Si, Segen >>
<< Diamine, si concentri >> dissi, allungando con nonchalance una gamba fino a sfiorarlo e mordendo delicatamente la matita, con labbra semichiuse, come soprappensiero.
Lui deglutì ancora... mi stavo proprio divertendo.

Forse, col senno di poi, passai un po' il limite: finsi di aver perso una mappa ed esclamai << Ma dov'è finita la piantina del monte Hermon? >>
Gli diedi la schiena e badai bene a spingere in fuori il sedere, poi scivolai verso di lui fin quasi a piantarglielo in faccia... sentivo la sua tensione, sentivo che stava per scoppiare e la cosa mi eccitava. Poi ad un tratto mi voltai di scatto e gli fui davanti, col seno a 5 centimetri dal suo naso
<< Trovata! >> esclamai trionfante.
E mi resi subito conto che avevo esagerato.

Con la mano sinistra agguantò i miei capelli, che tenevo raccolti a coda di cavallo.
Tirandoli mi costrinse ad alzare la testa e prima che riuscissi a protestare le sue labbra calde premevano sulle mie e la sua lingua s'insinuava tra loro. E sapeva baciare, sapeva farlo eccome: sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Una scossa istintiva di quelle che accapponano la pelle, intontiscono il cervello e stuprano il pudore.
Sentii le sue mani sulle spalle e che cominciava a sfilarmi la tuta.
Mi rendevo conto di averlo scatenato e che ora non mi sarebbe stato facile riportarlo sotto controllo. Tuttavia mi rendevo anche conto che non avevo nessuna intenzione di farlo: tutti e due avevano meno di 20 anni e tanta voglia di fare l'amore.

Non opposi resistenza ma al contrario! Mi divincolai in modo da spogliarmi più rapidamente della tuta e in apparenza mi opponevo. E fingevo di lottare, di respingerlo << Ma come si permette, rabat! >> dicevo, ma sottovoce. In modo che nessuno ci sentisse.
E nella mia "lotta disperata" feci in modo di aprirgli la camicia (strappandogli qualche bottone, che poi si sarebbe dovuto ricucire. Tié, bastardo!) e sfilargliela, quasi.

Non ci volle molto perché entrambi fossimo operativi. Io mi trovai con le spalle alle granate HEAT, nuda, una gamba ancora infilata nella tuta. Lui era davanti a me. Bellissimo. Con la morbida pelle d'ambra, i ricci capelli d'ebano e gli occhi magnetici di un predatore.
Allargai le cosce e lui mi prese: aveva spalle ampie e forti, proprio come dev'essere il soldato da sayeret, ma soprattutto era resistente e mi sbatté a lungo, con forza, immobilizzandomi e consentendomi di muovere solo il bacino. Mi fece godere tre, quattro, cinque volte... non ricordo più. Io, fingendo di resistergli, gli graffiavo la schiena e gli mordevo piano le spalle o il collo. Quasi non mi accorgevo delle zuccate che stampavo sul rivestimento metallico di un proiettile a punta cava.

Poi ad un tratto si fermò. Così, di botto. Lo sentii uscire e lo guardai negli occhi, esprimendo un muto interrogativo. Anche lui mi guardò, e mi sorrise. Un sorriso malizioso e luciferino, che prometteva vendetta.
Mi prese le gambe e le spinse verso l'altro. Mi ritrovai tutta accartocciata prima di intuire dove volesse arrivare. Accartocciata, ma anche esposta, vulnerabile. << Oh, nooo >> mugolai. Ma lui non rispose e sentii qualcosa di grosso e duro che premeva, che entrava, che si faceva strada. Spalancai gli occhi e mi morsi il labbro. << No, ti prego >>. Se ne infischiò, naturalmente, e cominciò a sbattermi anche per quella nuova via. Voleva gustarsela bene, la sua vendetta.
Mi sentivo squartata, ma al contempo avvertivo la sua eccitazione che mi stordiva come un narcotico. Non ce la facevo, non riuscivo, non volevo restargli indifferente. Perciò – vaffanculo il mondo – mi arresi. Con la punta della lingua cominciai a leccar via la polvere che aveva sul viso, sul collo, sulle guance. La polvere del Golan. Lo feci venire dentro di me in quel modo, leccandolo piano mentre godeva, come una leonessa domata.

Subito dopo ci rivestimmo in fretta. Silenziosi e complici. Eravamo stati già troppo fortunati, ma di sottecchi continuavamo a guardarci. Eravamo consci di aver rubato un amore clandestino. Prima che chiudessi la cerniera della tuta lui mi indicò il petto e rise. Sulle prime non capii, poi mi guardai e scoprii che poco sopra ai seni s’era stampata la sagoma di una piccola manina aperta con un cerchietto al centro.
Ishem, allora, si sfilò una collana d'argento con un pendaglio: una mano di Fatima con un turchese piccino piccino. Un amuleto piuttosto comune tra drusi e musulmani. Me la mise al collo, mi baciò e mi disse << così ti ricorderai di questo rabat. Quando tornerai a Tel Aviv. Quando andrai all'università >>. Poi mi prese in giro salutandomi militarmente ed usci.

Come da programma, il giorno dopo ci separammo. Parpar doveva riunirsi agli altri tre carri del plotone per convergere insieme verso Gonen. I sayeretim drusi, invece, avrebbero atteso in quota l'avvicendamento con un'altra squadra per poi di tornare a valle. Alla loro base e ai loro villaggi.

Ci salutammo su un'altura che digradava verso il confine siriano. Fu un addio cortese ma sbrigativo e i sayeretim s'incamminarono per la loro strada.
Ishem si lasciò superare dagli altri, poi, quando era ad una ventina di metri da parpar, si girò verso di me e s'irrigidì nel formale saluto militare. Ma stava sorridendo. Quel suo sorriso ironico, spregiudicato, contagioso. Dalla torretta del tank mi portai una mano alla bocca per soffiargli un bacio e lui allargo le braccia, come per catturarlo. Per non lasciarselo sfuggire. E allargò le gambe.
Fu un attimo. Un lampo. Un baleno.
Poi il boato. Lo spostamento d'aria.
Prima di rendermene conto ero saltata giù dal carro e correvo incoscientemente su quella pietraia sterile. Correvo dov'era Ishem pochi istanti prima, senza sentire le gambe, ma solo il ritmico oscillare dei capelli raccolti a coda di cavallo che mi sfioravano le spalle.

Lo trovai supino. Il ventre dilaniato da una scheggia grande quanto una mano.
<< Ishem >>, gridai.
Ma lui non aveva più la forza di rispondermi, né di tossire il sangue che gli saliva dai polmoni squarciati.
<< Ishem >>, dissi.
E mi inginocchiai - o forse caddi - al suo fianco. Gli alzai piano la testa. Per cullarlo, consolarlo. Come fosse un bambino.
<< Ishem >>, sussurrai. Yeled [bambino].
E lui mi guardò. Non so se mi vide, ma mia fu l'ultima scintilla di quegli occhi splendidi di giaietto. Mio fu l'ultimo battito delle sua ciglia lunghe come trame notturne.
<< Ishem >>, pensai.
E lo baciai.
Baciai quelle labbra rosse, dolci del suo sangue e amare delle mie lacrime.
Baciai il sapore arido del Golan, la cui polvere fine ci copriva come un sudario.
Baciai ciò che era stato Ishem. E ciò che non era più.

Poi arrivarono gli altri: i fanti drusi, Anna, Yael e Irina. Il mio equipaggio.
Ricostruimmo. Probabilmente Ishem aveva calpestato un ordigno inesploso della guerra del Kippur, che proprio in quest'area, nel '73, aveva visto immolarsi la nostra hativat - la 7a -, la 188a barak (un po' più a sud) e almeno 5 divisioni siriane.
Di chi era l'ordigno? Nostro? Siriano? Non aveva senso domandarselo, così restò un mistero.

Sono passati anni, ormai. Del rabat Ishem Dalouf restano solo il ricordo e un pendaglio d'argento: una mano di Fatima con un turchese piccolo piccolo.
Io li porto entrambi, anche quando faccio l'amore.

Nadja Jacur

Pagina principale