Il cliente




<< Solo parlare >>, mi disse.
Lo guardai una seconda volta e con maggior attenzione.
<< Il prezzo non cambia >>
<< Lo so. Non c’è problema >>

Mise una mano in tasca ed estrasse un sacchetto di pelle ben rigonfio di denaro.
Annuii, lo presi sotto braccio ed andammo a casa mia.
Chiusi la porta alle nostre spalle e abbandonai lo scialle sulla vecchia sedia di paglia che uso come comodino. L’unica della stanza, la quale, detto per inciso, non rifulgeva certo per il lusso dell’arredamento.
Lui si guardò in giro, non apparve particolarmente impressionato dall’essenzialità spartana dell’ambiente e si lascio scivolare sulle ginocchia di fronte alle braci del camino.

Non ci feci caso. All’inizio alcuni clienti sono timidi e per sbloccarsi hanno necessità di annusare il territorio, di pasturarci un po’ come i cavalli.
La realtà è che non sono abituati a trattare con le donne e la situazione è talmente insolita per loro, che si sentono spaesati e talvolta hanno addirittura bisogno di farsi coraggio.

Mi abbandonai sul letto mentre lui ravvivava il fuoco, imbarazzato e bofonchiante.
<< Sono un marinaio… >> iniziò.
<< Ed io una puttana >> puntualizzai, anche per metterlo a suo agio.
<< Si, l’avevo intuito >> continuò sorridendo a mezza bocca << vorrei raccontarti alcuni fatti: idee, sogni, pensieri e paure che non ho mai detto a nessuno, che tengo dentro e scompariranno con me.
Sento il bisogno di condividerli e ti pago per ascoltare. Tutto qui e nulla più…
In fondo io non sono nessuno e tu nemmeno, quindi le condizioni sono eccellenti.
Accetti?>>

<< Prego >> replicai dubbiosa, e allo stesso tempo pensai che doveva essere davvero in difficoltà se il disagio lo spingeva a tanto.
Probabilmente era stato troppo a lungo per mare ed era impazzito.

Lui annuii, mi guardò e sorrise ancora.
Nel suo sguardo notai quelle lucciole scintillanti e lascive che ho visto mille volte negli occhi degli uomini e l’indizio mi fece sospettare che il caso non fosse poi così disperato. Mi convinsi infatti che la frenesia dialettica del cliente sarebbe durata ben poco e che presto si sarebbe affrettato a consumare come avevano fatto tutti gli altri.

Nel frattempo lui iniziò a raccontare ed io, lo confesso, non ascoltai nemmeno una parola.
Lo osservai, invece… non era un bell’uomo: basso, robusto, con mani grandi come badili e ruvide come corteccia di robinia.
Dava l’impressione di essere forte come un bue, tanto che mi scoprii a sperare che non fosse anche violento e nel farlo continuavo a ripetermi che no, non era decisamente un bell’uomo: faccia grossa rovinata dal vaiolo, zigomi troppo alti, capelli sottili legati in un codino e all’apparenza nemmeno troppo puliti.

Gli occhi invece avevano un che. Non che fossero belli, intendiamoci, ma sembravano miti e intelligenti, e insieme alla voce…
Ecco, la voce, quella si che era meravigliosa. Solo lei.
O meglio, è probabile che a me sembrasse tale perché era come ho sempre sognato la voce di un uomo: un timbro forte e placido, un suono fondo e pacato come l’eco di tuoni lontani.
Si, a me la sua voce è sempre piaciuta da morire: una rassicurante melodia imprigionata in un guscio obbrobrioso.

Passò il tempo e lui continuò a raccontare. Storie di mare, di giornate incantate e tempeste terribili. Storie di libertà solitarie e fragorosi silenzi.
Storie noiosissime, per la maggior parte, come quelle che narrava mio padre.

Appoggiai la testa sul guanciale e chiusi gli occhi per un istante. Volevo solo evadere dallo sciabordio di parole e farmi accarezzare dalla risacca senza significato di quella voce sensuale. Immaginare per un attimo che essa appartenesse allo sposo dei miei sogni e non ad un rospo in forma umana.

Così, nell’attesa che il cliente mi usasse o si stufasse di parlarsi addosso, senza nemmeno rendermene conto, imperdonabilmente mi addormentai.
Mi svegliai la mattina dopo, coricata nel letto, vestita ma con le coperte ben rimboccate.
Il fuoco del camino era stato coscienziosamente ravvivato. Al mio fianco, sul cuscino, luccicava una discreta somma di denaro, ma nella stanza c’ero solo io perché il cliente si era dileguato con la bruma mattutina.

<< Un pazzo >>, mormorai.
Il sole e il mare – si sa – a volte scavano nella testa degli uomini. Li rendono strani, metà persone e metà pesci, più a loro agio tra le onde che sulla terra ferma.
Se non si è come loro è impossibile capire queste creature perché sono imprevedibili come l’oceano: miti e crudeli, vitali e assassine, passionali ma senza amore. Nomadi nell’anima.
Io lo so bene, dal momento che sono stata a letto con molti uomini del genere, dal momento che alcuni di loro mi hanno posseduta, altri picchiata, altri ancora persino amata e tutti quanti sono andati e venuti senza lasciar traccia, come la marea. Perché io, la puttana, sono un punto fermo mentre loro sono dannati all’eterno movimento.

<< Un pazzo >>, ripetei. Si, perché mi era capitato di tutto, ma mai che qualcuno pagasse per il mio corpo e si accontentasse solamente di parlare, di stordirmi con storie talmente noiose da conciliarmi il sonno.
<< Amen. Un colpo di fortuna. >> Con tutte le rotte che ci sono nel mondo non avrei più rivisto quell’uomo.
Nessun problema, nessun dispiacere, nessun sentimento. Chi fa il mio mestiere per vivere, semplicemente, se ne può permettere ben pochi.

“Donnacce” ci chiamano le signore per bene. Quelle che vivono in una bella casa senza far nulla, mantenute da un pappone chiamato marito.
“Donnacce” ci chiamano i mariti stessi con sprezzante distacco. E di giorno ci evitano, ci condannano, ci commiserano, ma di notte… di notte vengono a cercarci come mendicanti affamati d’amore. Ci pagano per realizzare i loro sogni, i loro desideri scabrosi o impossibili, e cercano disperatamente di comprare quella felicità che nelle mogli non trovano.

Prima vi dicevo che per noi donnacce i sentimenti sono un lusso e un bene prezioso. È la verità, perché posso essere una ragazza di facili costumi, ma non mento mai.
Quei pochi sentimenti che ci restano, infatti, quei pochi che sono sopravvissuti alla disillusione della vita, li seppelliamo in un angolo remoto dell’anima e, spesso, come per i tesori dei bucanieri caraibici, da qualche parte nel cuore conserviamo lo scheletro di un uomo che ne indica la via.

Passò un mese e mi ero quasi dimenticata di quell’incredibile incontro quando un pomeriggio, mentre rincasavo per fare un bagno e prepararmi ad un’altra notte di lavoro, qualcuno mi tirò lo scialle.
<< Ciao, ti ricordi di me? >> tuonò una voce profonda come un sospiro.
<< Si >> risposi, riconoscendo il timbro basso e caldo ancora prima di girarmi

Per un istante mi venne in mente quel sereno dormiveglia, cullato tra il brontolio di una voce oceanica e la soporifera nenia delle favole di mare.
Mi venne in mente anche mio padre, che usava il medesimo espediente per far appisolare me e le mie sorelline. Eppure, allo stesso tempo, un brivido freddo mi serpeggiò lungo schiena, un allarme istintivo, irrazionale, sciocco.
“Perché è tornato?” mi domandai “Ha gettato i soldi, non mi ha posseduta, mi sono persino addormentata mentre parlava… Cosa vorrà ora da me? Vorrà indietro il suo denaro? È sicuramente pazzo, che sia anche pericoloso?”

<< Sei libera? >>
<< Si >>
<< Tutta la notte? >>
<< Se hai abbastanza quattrini… >> perché non c’è mai stato timore che tenesse a freno la mia sfacciataggine.
<< Ne ho. Andiamo? >>
<< A casa mia? Come l’altra volta? >> chiesi incredula.
<< Si. Solo parlare. Come l’altra volta, se non ti dispiace >>

Pazzo.
Assolutamente, totalmente, definitivamente pazzo… anche un po’ idiota, forse.
Ed è peccato non approfittare dei pazzi e degli idioti.

Il cliente si comportò esattamente come la volta precedente. L’unica differenza è che dopo aver parlato fino a tardi, l’uomo chiese il permesso di coricarsi al mio fianco (il permesso… cose da non credere). Mi prese una mano tra quelle sue grosse vanghe da contadino, l’accarezzò con delicato riguardo e si addormentò stringendola con le labbra accartocciate in un sorriso infantile.
L’indomani pagò fino all’ultimo penny e se ne andò via felice.

Da quel giorno il “ributtante”, come l’avevo soprannominato, diventò un cliente fisso.
Si presentava una o due volte al mese, pagava per tutta la notte, parlava e andava via.
Talvolta mi pregava di raccontargli una storia, una favola, un evento mondano o un pettegolezzo. L’argomento era indifferente perché lui si limitava ad ascoltare il suono della mia voce come un bimbo ascolta incantato gli echi delle onde imprigionati in una grossa conchiglia.
Gli bastava questo ed era più felice degli uomini a cui concedevo ben altre grazie.

Cercai di capire perché lo facesse: era sicuramente un timido e in più l’aspetto lo penalizzava a tal punto che difficilmente avrebbe potuto trovare una compagna, soprattutto una graziosa come – senza falsa modestia – potevo essere io. Eppure… eppure il suo comportamento restava senza senso.
Mi ci scervellai a lungo, davvero, ma non riuscii a trovare nessuna spiegazione logica. Conclusi solo che quell’essere mi incuriosiva e che la sua compagnia, nonostante tutto, non mi dispiaceva affatto.
Scoprii persino di preferirla a quella di altri uomini molto più belli e fascinosi.

Il giro di boa avvenne durante una mattina d’autunno, tersa e fresca, spazzata dal vento di sudest.
Eravamo nella mia stanza e attraverso la finestra il profumo della baia sconfinava fino a noi.
Lui sedeva sul letto e parlava, parlava, parlava… Io, distesa al suo fianco, mi limitavo a guardarlo e a sorridergli senza ascoltare nemmeno una sillaba. Mi rilassavo e riflettevo, tutto li, e quasi per caso mi accorsi che di quel dolce bruttone non conoscevo nemmeno il nome.
Immediatamente lo interruppi e glielo chiesi << Ehi tu, cliente, come ti chiami? >>.
<< Tempesta >>
<< Tempesta non è un nome >>
<< Lo è, invece. Potrei dirti Sean, Michael, Liam o uno dei tanti nomi che ho usato. Sono tutti miei e nessuno mi appartiene veramente. Sono solo suoni e a volte parole di carta, ma io resto sempre Tempesta.
Così mi chiamano quando siamo in mare, così mi chiamano gli amici e chi mi vuole bene. >>

Che nome poco azzeccato, pensai. Non avevo mai avuto un cliente così mite e rispettoso, un uomo che tutto poteva ricordare fuorché una furiosa tempesta. Troppo curiosa per controllarmi, gli chiesi spiegazione per il nomignolo.

Non rispose subito. Restò pensieroso per un po’, poi, con un filo di voce sussurrò << Perché dicono che abbia un carattere ombroso e perché sulla nave sono il primo dei nocchieri. Quello che si arrampica più in alto quando c’è tempesta e il vento frusta le cime. Quello che scende per ultimo dalla velatura quando il mare è rabbioso e le onde s’infrangono sul fasciame >>.
Alzò le spalle, come a dire “ordinario, normale, è così che vanno certe cose”, ma le parole che pronunciò furono << Domani parto >>. Secco, a bruciapelo. È così che vanno certe cose.

<< Dove vai? >>, chiesi. Quesito legittimo, conviviale, frutto della più cortese professionalità.
<< A levante. Oltre lo stretto, forse >>.
<< Per quanto tempo non ti rivedrò? >> Anche questa domanda poteva sembrare come la precedente, a metà tra la cortesia e l’interesse. Poteva ingannare tutti ma non me, che sapevo d’averla pronunciata con affetto sincero e che mi resi pienamente conto delle sue implicazioni solo dopo averla formulata.

<< Non so… qualche settimana, forse un mese.
Dipende dal mare: come sempre io, Isibel, tutti noi, siamo schiavi dei suoi capricci >>
“Isibel?” Un nome di donna, osservai con perspicacia.
“Isibel?!” Il mio cliente non aveva mai parlato di altre donne. Mai!
“I-si-bel!” spianai la fronte, drizzai le orecchie e tossii appena: l’autocontrollo prima di tutto.
<< E chi sarebbe questa dannata Isibel? >> scattai subito dopo, con un guizzo di gelosia indegno della mia serietà professionale.

Lui sorrise, o meglio, una specie di crepaccio gli comparve sul faccione taurino, squarciandogli il viso da orecchio ad orecchio.
<< Che c’è da ridere? >> mi informai con tono involontariamente autoritario.
<< Nulla >> mugolò lui senza mutare espressione.
<< Allora rispondimi: chi sarebbe questa cara Isibel? >> Enfatizzai appena l’aggettivo, ma non era mia intenzione sputarlo fuori come un insulto, giuro. Fu lui stesso ad indossare quella veste mentre usciva dalla bocca. Per scelta autonoma, ponderata e matura.

Tempesta rimase immobile e silenzioso (tentennare quando si è messi alle corde è tipico dei colpevoli). Poi, lentamente, con visibile sforzo di volontà, avvicinò una manona salsiccesca alla cascata di capelli che mi scendeva sul petto. Usando il dorso della mano li accarezzò con devozione, li scostò accompagnandoli dietro le spalle e nel farlo quasi mi sfiorò il viso.

Si ritrasse di scatto e misteriosamente disse << Isibel sei tu e non sei tu al tempo stesso >>.
<< Fai gli indovinelli? >> In quel momento non mi sentivo propriamente in vena di giochini.
<< No, ti giuro che è la verità >> continuò il suo vocione a metà tra il rombo di una cascata e l’eco lontano di macigni rotolanti: mite e fragorosamente dolce al tempo stesso.
<< Non capisco >> mi arresi << Ma dimmi solo una cosa: è bella? È più bella di me? >>

<< Isibel è bellissima >> rispose lui, lasciando lo sguardo alla deriva << Talmente bella che nessuna può starle alla pari. Così dolce e perfetta da commuovere. Così affascinante da incantare coloro che l’osservano ed imprigionarli per sempre nella sua ammirazione. Magica, come si dice lo siano le fate e gli elfi >>

Tempesta parlava senza abbandonare il suo sorriso ebete. Forse esagerava, ma era evidente che non stesse recitando, che fosse realmente rapito da quella stramaledetta Isibel.
Quando me ne accorsi, fu come se una slavina mi avesse schiacciata. Come se il vento invernale fosse sceso all’improvviso sul mio cuore e l’avesse abbracciato con le sue bianche ali di ghiaccio.

E pensare che a sentir la gente noi puttane non ce l’abbiamo nemmeno un cuore.
Pare infatti che tutto debba essere calcolo per chi giunge a calpestare la propria dignità vendendola insieme al corpo. Invece – vi prego di credermi – non vi è mistificazione più grossolana.

Una puttana infatti impara presto a difendersi dalle emozioni che regalano gioie e dolori: tempra il suo cuore, lo pietrifica, lo avvolge in una corazza di spine per proteggerlo dalle miserie di una vita squallida, ma per quanto si impegni non riuscirà mai a renderlo invulnerabile, perché in fondo anche lei è solo un essere umano.

È dunque difficile ferire una puttana, ma il rovescio della medaglia consiste nel fatto che, quando essa viene tradita nei suoi rari e preziosi affetti, questa si sentirà più derubata, più usata, più umiliata e calpestata di quanto non possa accadere ad una donna comune.

E così mi sentii io: un attimo, e ai miei occhi non fui più una donna ma solo un’anonima puttana di Cork. Una delle tante.

Tempesta mi guardava serissimo e siccome non era totalmente imbecille doveva aver intuito come mi sentivo.
Si avvicinò strisciando sul lenzuolo, mi fissò con lo sguardo devoto di un setter irlandese e lentamente cominciò a baciarmi le dita una ad una.
“Che marpione!” pensai “ Ma che razza di uomo è? È forse un sadico luciferino?”

<< Vuoi vederla? >> domandò lui freddo, duro, diretto, senza preamboli.
<< Isibel? >> risposi << Si >> perché ero certa che le avrei trovato un’infinità di inconfessabili difetti, a quella stronza.
<< Hai un pezzo di carta? >> chiese lui, sempre misterioso.
<< No… ma di certo lo possiede Eilise, la rossa che divide con me questa stanza. Lei sa perfino scrivere!
Se gliene ruberò un po’ non se ne accorgerà nemmeno >>.

Mi alzai, rovistai nel cassetto della coinquilina, trovai la teca della carta e scippai un foglio.
Lo diedi subito al mio cliente e mi accovacciai sul letto.
Restai così com’ero: immobile, perplessa, incuriosita, forse un po’ tesa e certamente pronta a balzare alla gola di tutte le Isibel di questo lurido mondo.

Lui scese dal letto, si avvicinò al camino, prese due o tre pezzettini di carbone e un rametto bruciacchiato. Poi si distese per terra, a pancia in giù, come un bambino, e cominciò a disegnare.

Era velocissimo e tracciava una pletora di segni apparentemente privi di significato.
Ogni tanto si bloccava senza una ragione apparente. Alzava lo sguardo, fissava me o un punto indefinito della stanza, come alla ricerca di un ricordo smarrito, quindi riabbassava il capo e riprendeva a disegnare. Sempre disteso sul pavimento, sempre bocconi, con le ginocchia flesse e le gambe che dondolavano.

Restai affascinata a guardarlo mentre sulla carta bianca una moltitudine di baffi scuri, linee sinuose e curve intricate si intrecciavano e si fondevano insieme acquisendo la magia di un significato e dando vita a due figure femminili

La prima appariva di schiena, avvolta in vesti raffinate e col volto leggermente girato di lato cosicché se ne potessero distinguere i lineamenti.
La seconda, invece, sbucava letteralmente dal centro del foglio, di fronte, completamente nuda e con la schiena legata alla prua di una nave.
No, non legata ma abbracciata: i piedi poggiati su un gradino di legno e le braccia protese all’indietro a cingere la chiglia, ad aggrapparsi allo scafo. Non potendo essere un Cristo, dedussi che doveva trattarsi della polena di una nave.

Le due donne erano identiche: due gemelle oppure la stessa persona allo specchio e, con mio grande stupore, entrambe possedevano il mio volto e il mio corpo, e si stagliavano nel più bel disegno che avessi mai visto: nessuna indecisione nel tratto, nessuna sbavatura, nemmeno un segno superfluo. Ero senza parole.

Tempesta raccolse il foglio, lo allontanò di un braccio per inquadrarlo nel suo insieme, fece una smorfia insoddisfatta e concluse l’opera con un ultimo dettaglio: il nome della nave. Isibel.
Lo baciai. Di slancio, senza pensare.

Probabilmente vi sembrerà un gesto scontato, un gesto senza importanza, ma vi sbagliate perché con la bocca ho fatto di tutto ma non ho mai dato un bacio che non fosse sentito. Forse per questo in tutta la vita ne ho dati così pochi.

Ciò che avvenne dopo, accadde per mia volontà.
Io sola decisi. Io sola agii e brutalizzai la sua timidezza.
Lo spinsi su letto e gli ordinai di distendersi. Lui si rotolò impacciato ed io, in piedi al suo fianco, cominciai a sbottonargli camicia e pantaloni.
<< Non… cioè, se tu vuoi, ma… come dire >> arrancò lui affannato, nemmeno l’avessi pescato con le mani nel vaso della marmellata.
<< Zitto >> Con delicatezza gli sfiorai l’inguine. Un tocco leggero, giusto quanto bastava per accertarmi non fosse dispiaciuto della situazione.
Non lo era. Affatto.

Con studiata lentezza gli sfilai tutti i vestiti e lo lasciai li, nudo come un verme e rigido come un cadavere. In funambolico equilibrio tra l’eccitazione scimmiesca e il più paralizzante imbarazzo.

Tentò timidamente di coprirsi con un lembo di lenzuolo.
Lo immobilizzai con un’occhiata.
Cercò allora di compiere la medesima operazione con una manona incerta e goffamente furtiva.
ZUT! Un colpetto secco ma deciso sul braccio pudibondo lo fece ricredere all’istante.
Allora si arrese. Chiuse gli occhi, deglutì a disagio e si arrese.

Mi chinai sul suo viso, lasciai che i lunghi ricci neri facessero il solletico a quell’oscena faccia da orco, quindi, il più dolcemente possibile, sussurrai << Cos’hai che non va? >>.
<< Insomma… >> gorgheggiò pallido e teso, senza nemmeno il coraggio di aprire gli occhi << lo vedi da sola, sono… >> “orrendo” completai mentalmente per lui.
<< Sei? >> incalzai, allontanandomi in fretta dal suo viso.
<< Sono… >> e glielo presi in bocca, troncandogli ogni parola e ogni pensiero.
Andai giù, fino in fondo, fino a sentirlo strisciare contro le pareti della gola, e con una mano strinsi piano lo scroto, gli palpai i testicoli e glieli sollevai con consumata esperienza.
Poi iniziai a pompare, senza fretta, con passione. Lo girai piano tra il labbro superiore e la lingua, lo bagnai e l’asciugai, lo scoprii e lo gustai, lo ingoiai così a fondo da bagnarmi tutta di lacrime.

Continuai finché non cominciò a gemere. Allora allargai le cosce, presi una delle sue zampe tozze e la spinsi sotto la mia gonna. Senza parole, a tatto, gli insegnai come doveva muoversi e cosa doveva cercare con la punta delle dita e inaspettatamente, man mano che acquisiva confidenza con gli strumenti del mestiere, lui cominciò a regalarmi un piacere intenso. Per una volta un piacere non mercenario.

Lo premiai con una sinfonia di mugolii soddisfatti e succhiate sempre più generose fino a che non si trattenne più e mi venne in bocca. Quando ebbe finito di sussultare lo guardai: aveva ancora gli occhi chiusi. Stretti stretti, come se provasse paura o vergogna.
<< Guardami >> gorgogliai.
Non ripose.
<< Guardami! >> ordinai.
Aprì piano gli occhi ed io dischiusi le labbra, lentamente, facendogli vedere bene ciò che mi aveva regalato e lasciando che il suo seme mi scivolasse giù, attraverso il palato e la gola, senza alcun pudore, ma con tanta, sconcia soddisfazione.

Quando non ne rimase più una nemmeno goccia, mi accostai al suo viso. Gli leccai le labbra, il mento e la punta del naso, gli attraversai una guancia ed imprigionai coi denti il lobo di un orecchio, pretendendo << E sia chiara una cosa: non ti permettere di abbassare le palpebre un’altra volta, intesi? >>
Gli mancava il fiato, ma annuì, spalancando gli occhi come due girasoli.

Allora salii sul letto, sedetti cavalcioni su di lui e mi sfilai il vestito dalla testa. Lo feci sfacciatamente, lussuriosamente, cercando di essere più provocante che mai: mossi piano il bacino, lo strusciai su di lui, mugolai e sollevai bene le braccia in modo da accentuare al massimo il gioco sinuoso delle curve.
Mi tolsi tutto e restai nuda anch’io. Mi specchiai nei suoi occhi luccicanti di gioia e subito avvertii, tra le natiche e la cicala, la pressione intermittente del suo rinato apprezzamento.

Lo lasciai fare quando mi sfiorò una coscia. Lo lasciai fare quando timidamente si avventurò fino al seno. Lo lasciai fare quando, racimolato ogni grammo di intrepida audacia, mi palpò le natiche.
Mi limitai solo a spostare le sue manone un po’ più su, all’altezza dei fianchi, poi inarcai la schiena e mi lasciai andare indietro regalandomi completamente ai suoi occhi e al suo corpo.
E quando mi abbracciò forte e mi strinse a se per prendermi e farmi godere, afferrai un lembo del lenzuolo azzurro, l’unico del letto, sollevai dietro le spalle un cielo perfetto di stoffa e scendemmo insieme a coprire la nostra intimità.

Il tempo volò via e quando giunse il momento di rivestirsi e separarsi, io rimasi pigramente ad osservarlo.
Era veramente orribile, uno degli uomini più brutti che avessi mai conosciuto. Non solo l’aspetto fisico, ma anche il modo di muoversi era sgraziato e goffo, caratterizzato dall’andatura ciondolante di chi vive più tempo sull’oceano che sulla terra ferma.

<< Grazie, Isibel >> mormorò, come se gli avessi fatto un dono prezioso ed esclusivo.
Si avventurò traballando fino alla porta. Si fermò sulla soglia, mi accarezzò con uno sguardo tenero ed innamorato, uno sguardo che già molti altri mi avevano regalato. Poi si guardò le mani grossolane, le gambe tozze e storte. Mi sorrise e, con imbarazzo ridicolo e tenero, una seconda volta sussurrò << Grazie >>.

La porta si richiuse alle sue spalle ed io rimasi stesa sul letto. Restai nuda, il lenzuolo a nascondere metà del corpo mentre il resto indugiava a contatto con l’aria frescolina.
Dondolavo una gamba oltre il materasso di stoppa, su e giù, su e giù, sfiorando il pavimento. Giocavo con la pelle ancora calda e col capezzolo che rabbrividiva per lo sbalzo di temperatura. Guardavo il soffitto, il volto incorniciato dai lunghi ricci sparsi intorno al capo come neri raggi di sole.
E pensavo.

Cercavo di classificare le emozioni proibite a cui mi ero abbandonata, di capire con esattezza dove avevo sbagliato e perché, di scoprire quali fossero le mie debolezze ed eliminarle prima che facessero soffrire.
Pensavo…

Chi diamine se lo ricorda ciò che pensavo. La verità è che rimasi li per ore, crogiolandomi in un nulla perfetto e liscio come un ciotolo, illudendomi d’inesistenti riflessioni e scoprendo infine d’essere felice.

Dio, Dio, Dio… mi resi conto d’aver commesso un tragico errore. Il più sciocco, il più pericoloso, il più catastrofico errore che una puttana possa commettere: l’imperdonabile innamorarsi di un cliente, dimenticando che l’essere donna di tutti impone di non appartenere mai di nessuno.

Fu uno shock. Entusiasmante, inatteso, terribile.
Nella confusione del momento agii d’istinto e feci ciò che mai si deve fare per un cliente: indossai il vestito migliore, presi perfino in prestito i guanti lunghi di Eilise e andai al molo per vedere il mio uomo salpare.

Mi fermai davanti alla prua, proprio di fronte alla polena che mi assomigliava in modo impressionante.
Era solo più scura, la pelle lisciata dal vento e dalla salsedine. Era dritta e fiera, le spalle muscolose e il petto duro e orgoglioso. Guardava davanti a se con un sorriso ironico e saggio, come una donna che domina il passato e non teme il futuro.
Ero fiera di assomigliare a lei… o che lei assomigliasse a me. Ero fiera che quella sorella di legno accompagnasse per mare il mio uomo e che vegliasse su di lui tra le acque degli oceani. Ero… forse ero solo innamorata.

Quando la nave mollò gli ormeggi aguzzai la vista più che potevo, ma non riuscii a vedere il suo volto. Eppure, tra tutti i marinai, sapevo chi era: era quello più in alto, lassù, sull’albero maestro. Era quello che si muoveva come una scimmia tra sartiame e velature. Era quello che restò solo, in bilico tra cielo e mare, a guardare la riva finché questa non diventò altro che una linea scura all’orizzonte.

Ed io, da parte mia, restai un puntino sul molo, sperando che il mio amato cliente avesse uno di quei cannocchiali che usano i marinai per vedere lontano. Restai li, sferzata dal vento e baciata dal mare, polena di carne senza rendermene conto.

Dopo quel giorno sono accadute molte cose, grandi e piccole, importanti e non, ma la mia vita non è cambiata… Ora basta, però. Sono stanca di raccontare, non ne ho più voglia.
Anzi, ad essere onesta non intendo condividere quei ricordi, perché in fondo sono la mia storia e ne sono gelosa.
Vi dirò solo che Eilise mi ha insegnato a scrivere e che io, con un chiodo, ho inciso poche parole su uno scoglio di Cork. Uno scoglio che guarda a levante e all’alba biancheggia di spuma e di sale.

Addio sorella/
Saggia d’albe e di salsedine/
Addio sorella/
Che negli abissi lo abbracci/
Addio sorella/
Che fosti di me più fortunata/


Nadja Jacur

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