I sette peccati: Ira




Mi lassasse spiegare, Don Rosario, e le mani… mi sciogliesse le mani, per cortesia, gia’ lo sapete che se non le muovo m’arrugghio tutto. Coi picciotti vostri che mi taliano, poi, anche volendo che spacchiu potrei fare, ah?

Dicevo a vossia che Natalia femmina particolare era.
Ce lo sa che veniva da Lampedusa, no?
Ecco, quella e’ terra di vento. Terra inquieta che nasceri sopra ci fa mezza fortuna e mezza disgrazia, perche’ e’ come se aria e mare si futtessero i cervelli dei cristiani. Davvero, vosscienza, ci trasano dentro e si mescolano ai pensieri anno dopo anno, sempre di piu’, e la gente si fa imprevedibile, stonata, impulsiva… e passionale, molto passionale, credesse ammia.

Natalia cosi’ era, eccellenza.
Pareva femmina da maritari ma l’aspetto dolce, gli occhi grandi, neri e docili, l’atteggiamento remissivo e quasi vergognoso, solo apparenza erano: tutte maschere di teatro, glielo giuro su mi matri buonanima.
Che’ a conoscerla davvero, Don Rosario, Natalia si faceva impudica e svergognata, vogliosa di maschi e pericolosa come fuoco, e a letto… oh, a letto un uomo ce lo faceva ammattiri!

Ora basta, pero’, ci devo raccontare cosa successe veramente quella sera, eccellenza.
Era capitato che Natalia m’aveva dato appuntamento alla cala degli Ecatonchiri, c’avete presente, si? E’ una piccola baia sabbiosa verso levante con cinque o sei bungalow mezzi sciamannati.

E’ un angolo sconosciuto a turisti e forestieri, Don Rosario, percio’ ci vanno le coppiette e talvolta anche puttane, garrusi e guardoni. A seconda della stagione, infatti, si puo’ fottere sulla spiaggia, tra terra, rocce e mare. Oppure nei bungalow, anche se so’ fitusi di piscio che a sciaurarli e’ un doloroso suicidio, quasi come mentire a vossia.

Avevamo scelto proprio quella sera perche’ Carmelo Boccacucita mi aveva spiato che in paese era la festa del patrono e accussi’ mi pensavo che nella spiaggetta c’eravamo io e Natalia soli soli.

Pareva che c’avessi azzeccato, Don Rosario, e pero’ mentre scennevamo a riva, ci passo’ a fianco Mimi’ u Spocchioso, che se ne tornava al paese. Era una ‘nticchia bevuto e si accompagnava alla Marinella, quella puttana finta bionda che batte sulla statale per Marsala, no?

Mimi’ ci svario’ accanto, ci palpo’ il culo a Natalia ed esclamo’ “Santo riaulu, Bianco Mangiare, uno solo a stirnata? Che e’, tempo di magra o e’ l’ominicchio locco che t’hai a maritari?” e se ne ando’ ridendo.

Io ci rimasi di sasso, eccellenza.
Cioe’, mi ero fatto delle fantasie, pensavo…
credevo…
ero convinto che fossimo fidanzati, che lei fosse mia e solo mia e che dietro ai giochi nostri si nascondesse un sentimento.

Insomma, cosa mi significavano le parole di Mimi’, ah?
Domandai subito spiegazioni a Natalia, ma voi sapete come sono fatte le donne, vero eccellenza?

Specificamente quelle stronze di cuore e magari pure un po’ mignotte. Quelle che non ti dicono sissignore o nossignore, che ti cambiano discorso o parlano co’ altri, che ti fanno invisibile come cane randagio o se ne stanno mute… Santa Chiara Mutilata, mai stanno mute, ma in quei casi… e un povero cristiano minchione se ne resta accussi’, ad aspettare, in bilico come fico maturo che s’a da scaticchiare al suolo.

Ecco, Don Rosario, proprio questo fece a Natalia.
Muta, resto’.
Poi mi talio’ da sottinsu’, con quegli occhi da gatta che erano malizia e miele, e… e si mise a ridere, vosscienza.

Mi scoprii sciroccato: “Che spacchiu ti ridi?” le urlai “Che spacchiu c’avete da ridere, tu e chillu figghiu ‘e sucaminchia d’o Spocchioso, ah?”

Al che Natalia rise ancora piu’ forte e prese a tacchiari in direzione il mare.
Mi disse che ero solo un cornuto, vosscienza, figlio di cornuto e nipote di cornuto. Mi disse che, nella remota ipotesi mi funzionasse ancora la minchia, mio figlio pure sarebbe stato un memorabile cornuto. Che’, per i babba come me, non ci sono sogni, speranze o soluzioni: pupi di legno, siamo.

M’arrisvegliai colpito a sale, Don Rosario, e la rincorsi tra la sabbia e i ciuffi d’erba bassa che a volte vanno a nasceri dappresso al mare. L’agganciai a una decina di passi dalla riva, presi a scutuliarla forte, a gridare che io ero un coglione, si, ma lei era solo una puttana.

Ce la spinsi a terra, vossia, con violenza e lei per tutta risposta mi tiro’ una pugnata di sabbia e mi sputo’ in faccia, poi prese a scivolare col culo e con la schiena continuando a dire cose che… che non mi sento di ripetere, vossia, abbiate pazienza.

Le fui sopra e nemmeno me n’addunai.
Si dibatteva, magari mi graffio’ a sangue ma al momento non me ne curai.
Non mi fotteva di niente, solo di farla abacari, farla smettere, cosi’ le sedetti sulla pancia e cercai di inchiodarle le braccia a terra, di bloccarla impotente, perche’ una parte di me ci voleva ancora parlare, vossia. Capire, accomodare le cose.

Quando mi morse, pero’, dimenticai ogni buon proposito e cominciai a prenderla a tumpuluni, a manrovesci cattivi dati con mano dura, dita strette e nocche chiuse.
Dapprincio desideravo solo che mollasse la presa, ma quando cedette io continuai. Uno, due, dieci colpi, non so nemmeno quanti, vossia, finche’ gli insulti si trasformarono in suppliche, poi in pianto ed infine in nulla. Magari solo singhiozzi. Magari sussulti sordi.

Questo mi fece calmo ma insieme, dentro al cuore, principio’ a montarmi una rabbia diversa, non fuoco ma ghiaccio, vosscienza di sicuro sa cosa intendo.
Volevo mortificarla quanto io mi sentivo umiliato, percio’ appoggiai le mani al bavero della camicetta e tirai forte, facendo saltare tutti i bottoni.

Rimasi un po’ cosi’, immobile, lasciandole il tempo di capire e godendomi il seno ricco, abbronzato e i capezzoli ritti per il libeccio e la paura.

Appena Natalia cerco’ di muoversi, pero’, afferrai entrambe le zinne dure e strinsi per far male “Voglio sentirti urlare” mormorai, ma lei non era femmina facile da piegare, che’ e’ sempre stata una malabestia.

Mi sfido’ infatti che potevo anche fotterla, ma restavo un cornuto mezzo impotente e provo’ di spingermi via. Risposi strizzandole i capezzoli tra pollice e indice, senza pieta’, ammirando le sue smorfie e chinandomi su di lei quando gia’ le lacrime scendevano a mezza guancia.
A leccargliele via come uno schifoso, per impararle chi comandava.

Pensai pure a cio’ che mi aveva detto, che potevo scoparla ma restano un ominicchio di niente, e all’improvviso compresi che dovevo trattarla da quella puttana che era: chiavarla e lasciarla li, nella cala, a disposizione di tutti. Che me ne fotteva, ah? Era una cagna e la usavo per sbagantirmi i coglioni, niente piu’.

Mi alzai, allora, per sfilarmi i pantaloni e Natalia, che pareva sfinita, approfitto’ di quell’istante per schiantarmi un calcio nelle palle e subirsi, e scappare via.

Santa Crocifissa Straziata mi e’ testimone: issa non mi centro’ bene bene e cosi’, invece di trovarmi piegato in due come una minchia moscia, m’incazzai di piu’ ancora.

Mi decisi che non se la sarebbe fuiuta, quella grandissima buttana, le corsi dietro e per caso afferrai la gonna nera, quella che portava sempre. Tirai per trattenerla e la stoffa si strappo’ via, o meglio, me la arritrovai in mano e la guardai senza capire prima di scagliagliela addosso con rabbia furiosa, quasi fosse un proiettile o un insulto.

Li accadde una cosa strana, eccellenza, la gonna nera resto’ impigliata in un soffio di vento, quasi un’ala di corvo che girava su se stessa piu’ e piu’ volte, continuando nella sua caduta pigra come di vela ammainata.
Allo stesso tempo Natalia inciampo’ e altrettanto lentamente cadde.

Fu uno di quei momenti in cui il tempo rallenta, vossia mi capisce?
Quando si ha la certezza che Dio, il diavolo, la natura e la terra stessa si fermino a taliare le nostre vite meschine, che’ dall’alto ci stanno a babbiari e s’arricreano di miserie rubate.

Me la trovai ai piedi, vosscienza, quasi fosse un regalo del cielo e subito accuminciai a scammaniarla di lignate e calci.
Ero come ammattito, Don Rosario, non mi resi conto di quello che facevo quando sfilai la cinta ed principiai a batterla. All’inizio colpii solo cosce e natiche, poi fu come se un velo di rabbia mi accecasse e presi a martoriarla dove capitava.

Mi fermai solo quando sentii il braccio duro e tremante di fatica.
Mi fermai e la contemplai. Laggiu’, distesa sulla sabbia, le guance rigate di pianto e sottili linee rosse che si scomponevano sulla pelle ambrata.
Bellissima e sconfitta.

Con un piede le colpii il fianco, allora, ma con delicatezza, come fanno i gatti.
Lei si giro’ da sola, bocconi, le gambe nude, la schiena ancora nascosta dalla camicetta e la faccia stinnita a respirare aria e sabbia.

Mi calai le braghe con lentezza.
Solo le braghe, che non c’avevo genio di levarmi anche la maglia, e gliele buttai addosso, per spregio, perche’ capisse che stava per accadere.

Poi mi chinai su di lei e le piantai una mano sulla schiena.
La feci scendere lentamente lungo il fianco.
Volevo immaginasse dove andava a parare, che contasse i secondi, che avesse paura, la puttana.

Portava delle mutandine nere, niente di che, ma dignitose e quando avvertii la stoffa sotto le dita, la strappai con forza. Naturalmente non si ruppe, ma si incise ancor piu’ nella carne di Natalia, che gemette, si aggrappo’ alla sabbia, si piego’ per fuggire il dolore e per liberarsi resto’ nuda ed accessibile, come la desideravo.

Ma non mi bastava, oh no, vossia, ormai non mi bastava piu’.
Volevo che non si potesse muovere, che faticasse anche a mantenersi ritta e rispettabile, percio’ le sfilai a mezzo la camicetta, magari ridotta a straccio, e le bloccai le braccia alla schiena. Dure, storte, che ci facesse quasi male e restasse in bilico, senza equilibrio: ora era lei il fico che s’aveva a scatacchiare.

Quando fui soddisfatto, le ordinai di mettersi in ginocchio e lei ubbidi’, singhiozzando piano.
Ammirai la sua sagoma alla luce della luna e delle stelle: una femmina carnale, nuda e spezzata, inginocchiata sulla sabbia, con le braccia imprigionate dietro la schiena da una camicia seviziata, la fronte poggiata sulla spiaggia per mantenere l’equilibrio, il seno libero a sfiorare l’arenile.
Ansimava e non so per quanto tempo la mirai rapito.

Fu lei stessa a spezzare il silenzio.
Giro’ la testa verso di me, mi talio’ con quegli occhi suoi strani, che riflettevano le luci della notte scintillando come stelle di natale. C’era odio, sfida… forse anche desiderio, in quei pozzi di luce nera.

“Cornuto” sussurro’.

In un baleno fui dietro di lei.
Le presi i capelli e la costrinsi a trascinarsi ginocchioni fino alla battigia.
Fotteva cazzi per le pietre e le conchiglie, che si ciunnariasse pure coi piezzi di vetro.
Meglio, ‘fanculo, meglio, cagna bastarda!

La fermai giusto dove acqua e terra fanno l’amore baciandosi con le onde.
Permisi che le labbra di spuma la sfiorassero appena e di colpo la spinsi a testa ingiu’, oltre il confine della sabbia e del mare.

Lasciai che si dibattesse, che bevesse e soffocasse a mezzo.
Solo quando mi sembrava domata le sollevai il viso. Le bloccai il busto con un braccio perche’ non si divincolasse e, mentre inspirava con disperazione la prima boccata d’aria, la infilzai da dietro, a freddo, spingendo con energia fino a quando m’addunai che la carne cedeva ed io mi perdevo in lei.

La sentii gemere per la sorpresa e il dolore, vosscienza, eppure… eppure mentre l’inculavo spaccandola ad ogni colpo, mi pareva che sorridesse.

Che sorridesse, Don Rosario!

Strincii i capelli ancora di piu’ e le scutunniai la testa tisa tisa quasi che le avessi a spezzare il collo… e quella maledetta spinse verso di me. Scese, si infilo’, si mise a scoparsi il culo, quella cagna ingorda, anche se al tempo stesso smaniava fisso per ogni goccio di aria.

‘Fanculo, eccellenza. La ributtai giu’, la faccia nel mare.
Mi sollevai sul talloni, le gambe piegate, la schiena piegata tutto accarrocciato su di lei e la sfondai con una rabbia che mai avevo provato nella vita.

Lo sapevo che respirava aria ed acqua, vossia, sentivo che lottava, sentivo che pian piano si faceva frenetica e angosciata ma, San Vincenzo Impallinato mi perdonasse, cio’ solamente piacere mi porto’.

M’addunai persino che il suo culo si faceva stretto disperato e che mentre lo riempivo isso si rilassava piano, cedendo morbido come aveva ceduto lei, come uno straccio sgarrupato.
Me ne uscii, allora, ed ero soddisfatto non avevo capito veramente.

Nemmeno quando lei cadde di lato, compresi.
Nemmeno quando resto’ immobile, le gambe piegate, le braccia prigioniere arretro, la sborra che le usciva dal culo mischiandosi alla spuma del mare. Traslucida, bianca… scintillante alla luna come gli occhi di Natalia, sbarrati sotto il pelo dell’acqua.

Ecco, Don Rosario, questo e’ tutto ve lo giuro.
Ora, siccome siete uomo d’onore, gia’ lo so cosa comanderete… pero’ sapete, eccellenza?
Non mi fotte piu’ di niente e nella cala ci torno volentieri un’ultima volta, coi picciotti vostri.

Si, perche’ forse per lei non ero nissciuno… ma magari, magari no, perche’ sempre femmina di Lampedusa era.
Spostata, matta malata, ma non cattiva. E io...
Io mi credo che l'amavo.


Nadja Jacur

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