La scelta




Una nebbiolina viscosa, marcia, immobile come le pale d’un ventilatore guasto a Casablanca.
L’odore acre del mare strappato dalle prime luci dell’alba.
Ecco, e’ l’annuncio d’un nuovo giorno dal calore soffocante. Un lungo giorno d’estate in Terrasanta.

TARDA ESTATE 2005, GERUSALEMME
Il parlamento israeliano ha votato il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. E’ una decisione storica che distruggera’ la realta’ di migliaia di persone. Lo fara’ nella speranza che, dalle ceneri dei loro affetti sradicati e delle loro case distrutte, un domani possa nascere l’araba fenice della pace.

La decisione della Knesset non e’ stata semplice ne’ scontata, checche’ possa sembrare a chi, da decenni, vive la tragedia di due popoli con un trasporto a meta’ tra una soap opera brasiliana e l’ultima Grande Causa Revolucionaria.
Un pugno di sciacalli, ai miei occhi, frustrati negli ideali, felici di potersi ancora indignare a buon mercato e senza mai compromettersi. Gente che per darsi una certa allure si autoproclama postcomunista, para-sandinista, dia-sessantottina, trans-idealista o qualunque altra cosa dal sapore alternativo, vezzosamente intellettualizzato da una particella proclitica scippata a Virgilio o ad Omero.

Tra loro ci dev’essere anche quel genio che, dall’alto d’una cultura da centro sociale (ma dopo attenta valutazione storico-politica), ha deciso di confondere le milizie teocratiche e neonaziste di Hezbollah con gli eredi morali di uno sfortunato guerrigliero argentino, tanto idealista quanto charmant. Puro nel cuore – si dice – e gadget griffato del mercato globale. Laico paladino da vivo, svalutato a mito mercenario post mortem.
Suo malgrado.

TSHAL, TEL AVIV
<< Lavoro dimmerda >> penso’ Miriam per la millesima volta.
Quindi fisso’ il suoi soldati – no, poliziotti. Ora erano poliziotti -. Trentacinque tra uomini e donne, in buona parte provenienti dall’esercito, come lei. Bravi ragazzi, scelti tra i piu’ controllati e sensibili. Selezionati uno ad uno, piu’ meticolosamente dei cosmonauti d’una missione Soyuz , piu’ pignolamente delle conturbanti finaliste a Miss Universo.

<< Si, bravi ragazzi >> mormoro’ tra se Miriam, ma non tutti adatti, a suo avviso.
Yitzhak Mohen, in particolare, la preoccupava. Un vero colosso il cui fratello era rimasto paralizzato in seguito ad un incidente nella colonia di Zif, presso Hebron. Miriam non conosceva i dettagli del fattaccio, ma Yitzhak dava la colpa tanto ai coloni quanto agli arabi, ed era diventato un feroce sostenitore del “due-popoli-due-stati, purche’ divisi da un muro in titanio alto come le stelle”.
Personalita’ complessa, Yitzhak, ma carismatico, determinato, forte e acuto come un bue. Miriam aveva la sgradevole impressione che mandarlo a smantellar colonie fosse un po’ come invitare Polpot in un orfanotrofio. Amen. Talmente tanti avevano gentilmente rifiutato di accollarsi l’onere, che si doveva far buon viso a cattivo gioco.

Clap, clap, clap. Yitzhak applaudiva silenzioso, congiungendo e disgiungendo i polpastrelli delle dita.
Domani sarebbe stato il Gran Giorno. Domani, si, domani… avrebbe cominciato ad eliminare quelle luride colonie.
Quanto sangue, quanti shekel erano costate? Infiniti. E tutto per colpa di quegli estremisti, oltranzisti, fanatici halutzim [coloni]… Non che gli arabi fossero meglio, per carita’: “aravi ze aravi”, un arabo e’ pur sempre (e solo) un arabo. Motivo in piu’ per non averci nulla a che fare. Che si tenessero Gaza, dunque, e il West Bank. Tutto quanto… e soprattutto che si tenessero lontani.

Appena saputa la decisione della Knesset, Yitzach si era offerto volontario. Uno dei primi.
Era stato assegnato ad un’unita’ operativa di punta comandata da un giovane tenente proveniente dalle truppe corazzate. Miriam, si chiamava.
In un primo momento Yitzack aveva pensato che lo stessero prendendo per il culo. Non per il sesso del comandante, per carita’… per il suo aspetto: splendida. Alta, capelli ricci e mori, lunghi fino alle spalle. Dura fuori e dolce dentro: “sabra”, compagna e soldato.
Yitzhak, incredulo, chiese conferme e gli dissero che no, che non c’era nessun errore. Lui era assegnato alla squadra “Gimel” e quella ragazza, Miriam, era il suo comandante. Bella e brava, aggiunsero, e si scopava di tutto, persino i nani.
Beh, forse un po’ si che lo prendevano per il culo, decise il soldato.

UN PASSO INDIETRO, ADDESTRAMENTO.
Shlomo era un chablan, un artificiere.
Preciso, riflessivo, sereno e di poche parole. Uno di quegli uomini invisibili che rischiano la pelle senza che nessuno se ne accorga. Come i pompieri.

Shlomo era seduto per terra, sudato come un turista tedesco a Giza, le gambe incrociate come un turco, la bocca semiaperta come un ebete.
Non poteva credere al pandemonio surreale che lo circondava: quattro squadre di intervento erano state suddivise nelle due fazioni. “Alef” e “Gimel” impersonavano le forze dell’ordine, “Beth” e “Dalet”, coadiuvate da un nutrito gruppo di volontari, si fingevano coloni.
Doveva essere una cosa semplice, una specie di gioco a guardie e ladri, ma nessuno aveva previsto una partecipazione emotiva tale da trascendere la piu’ estraniante delle immedesimazioni.

Il mondo di Shlomo pareva diviso in due.
A sinistra, tra i prefabbricati color crema della zona Dalet, si respirava il pathos denso e travolgente dell’ultimo atto d’un opera di Moliere: coloni arancioni e soldati verdi, dopo uno scambio rituale d’insulti, avevano finito per commuoversi, abbracciarsi, piangere e pregare insieme, coi militari che, metro per metro, spingevano il gregge color mandarino sugli autobus di smobilitazione. Un successone.

A destra, invece, la squadra Gemel - la sua - si era letteralmente gettata all’assalto dei prefabbricati color grigio ferro, provocando naturalmente un irrigidimento dei resistenti.

Elie, un ragazzo fragile ma ostinato che veniva dalle colonie, si prodigava in soffocanti attenzioni cercando di convincere una donna di mezz’eta’, a cui pendevano tutti i lineamenti tranne la lingua, a farsi trascinare sull’autobus.
Questa (in realta’ un sergente maggiore) maltrattava la premura del soldato sommergendolo di incomprensibili insulti yiddish.

Tutto comincio’ a degenerare quando la colona-sergente maggiore inizio’ a prendere a sberle il militare. Da principio erano solo buffetti, ma presto si trasformarono in una sinfonia si smatafloni e manrovesci capace di suscitare il plauso ammirato di Steve Adler, il batterista dei Guns N’Roses.

A quel punto era comparso Yitzhak, il gigantesco Yitzhak, posseduto dai suoi demoni interiori. Il colosso dava l’impressione di non aver atteso altro: magicamente si materializzo’ accanto ai duee li oscuro’ entrambi con la sua mole.
Agguanto’ la donna per una spalla, le strappo’ l’inerme Elie e la scaravento’ al suolo << Stupida, ottusa, frigida. Attraente come una vacca >> sentenzio’ dimostrando un certo spirito analitico << basta uno sguardo a questo boiler umano perche’ una pedata di piombo ti spezzi la cassa toracica >>.

La donna sibilo’ una replica incomprensibile e probabilmente poco cordiale. Poi si contorse come un varano e morse la caviglia del suo aguizzino.
<< Lurida bevicazzi! >> ringhio’ Yitzhak, che aveva un vocabolario limitato ma efficace, e comincio’ a rovinarla di calci sul plesso solare.
Un baleno e fu rissa.

Intervennero immediatamente gli arbitri e i controllori armati di fischietti.
La zuffa si fece prima piu’ confusa, poi si cheto’ pian piano. Il piu’ difficile da contenere fu proprio Yitzhak che continuo’ la sua opera di demolizione fisica fino a quando un tizio non gli si piazzo’ davanti al muso, le guance gonfie come un uccello-tamburo e il fischietto fumante.
Allora Yitzhak si fermo’e aggrotto’ le sopracciglia interdetto, forse pentito per lo scempio, forse confuso perche’ gli si era anticipato l’orgasmo.

In tutto questo Shlomo, l’artificiere, calmo per professione, controllato per sopravvivere, era rimasto seduto per terra, fermo e a bocca spalancata, mentre il suo tenete si prendeva una lavata di capo, il matrimonio delle squadre Alef-Dalet si coronava d’idillio postromantico e gli alti papaveri del comando centrale decidevano che forse era meglio posticipare di qualche giorno lo sgombero delle colonie ed affinare alcuni dettagli.

La prova generale era stata un discreto fallimento: rabbia, contusi, un sergente maggiore in ortopedia… ma almeno servi’ a chiarire che no, non sarebbe stata una passeggiata. Come tutti giustamente sospettavano.

D-1, L’ATTESA
D meno uno. In una stanza umida del pianterreno, un’aula coi banchi che ricordano una scuola elementare, trentacinque tra uomini e donne attendono con trepidazione ordini e destinazioni.
<< Novita’, Tenente? >> la voce di Yitzhak richiamo’ Miriam alla realta’.
<< No. Ora sollecito >>.
La ragazza afferro’ una cornetta color bianco sporco, digito’ il numero del centralino ed inizio’ il consueto percorso ad ostacoli che rende l’accesso al quartier generale piu’ difficoltoso di un sudoku diabolico, tridimensionale e a cubo di Rubik.

Alla quinta centralinista oca, la ragazza perse la pazienza.
<< Ascolti, davvero, e’ urgente. Devo assolutamente parlare con colonnello Tsadok >>
<< Come ha detto che si chiama? >>
<< Rice. Gli dica che Condoleeza Rice lo sta cercando per definire i dettagli di intervento su quella centrale Iraniana. Lui capira’.>>
<< Da dove ha detto che chiama, se e’ lecito? >>
<< Dalla NATO >>
<< E’ una multinazionale americana? >>
<< Non ancora >>.

Ci volle quasi mezz’ora per contattare la centrale operativa e fu tutta fatica inutile: nell’istante in cui lo sgusciante colonnello Tsadok muggi’ la sua presenza nel ricevitore, un distinto portaordini si presento’ stacchettando e fece sfoggio dell’attesa busta gialla sigillata.

Baffo azzimato, portamento eretto, aplomb invidiabile… una cosa a meta’ tra Peter O’Toole e Sean Connery, per intendersi.
<< Sembra una spia inglese >> si lascio’ sfuggire Shlomo, in una delle sue rare esternazioni.
<< Tranquillo >> grugni’ una voce dal fondo << Le spie inglesi non lasciano piu’ il paese: nascono, amano, vivono e muoiono nella metropolitana di Londra >>.

Il portaordini non fece una piega. Tese la busta gialla a Miriam e saluto’, impeccabile come una guardia di sua Maesta’, rigido come un euzone, formale come un umorista tedesco.
Sconcertante. Doveva essere straniero.

GLI ORDINI
Miriam abbasso’ la cornetta senza tanti preamboli ed infischiandosene del mormorio indignato partorito dal gallonato interlocutore. Che se la prendesse pure con la Rice.
La ragazza scarto’ la busta con calma. Dischiuse con meticolosita’ il foglio di carta e comincio’ a leggere mentalmente gli ordini che l’indomani il suo reparto avrebbe dovuto eseguire.
“Il ministero degli interni bla bla bla… sgombero… bla bla bla. Area assegnata: Colonia Atzmona, Via Ben Gurion dal numero 1 al numero 87”.

Calma. Un po’ di nebbia nel cervello. Puo’ succedere.
E’ un lavoro di merda, ma si deve fare. E’ necessario. E’ giusto.
Nebbia.
Rilesse.
Via Ben Gurion, dal numero 1 al numero 87.
Colonia Atzmona.

Alzo’ lo sguardo, gli uomini erano in trepidante attesa e la guardavano con l’inquietudine di un padre in sala parto mista all’apprensione di uno schiavo del Bingo che si fa fermentare i fagioli in una mano.

Miriam lesse il comunicato con voce ferma e decisa. Con la determinazione che nasce da chi ha combattuto e vinto una spietata battaglia interiore.
Elie si copri’ il volto col berretto a frontino.
Shlomo annui’ impercettibilmente.
Yitzhak si colpi’ il palmo aperto di una mano col pugno chiuso.
<< Ok, ragazzi. Appuntamento domattina alle cinque in punto >>
I soldati si alzarono con gran cacofonia di sedie. Pian piano, chiacchierando o in silenzio, guadagnarono l’uscita. Tra gli ultimi, emotivamente piu’ coinvolto e fragile, Elie, quello del berretto.

Miriam lo squadro’. Ragazzo ordinario, un po’ scimmiesco. Per di piu’ imbruttito da un espressione stravolta e sovrastato dalla gravosita’ del compito che il suo paese lo chiamava ad assolvere.
Timido, impacciato, un contadino figlio di una zappa ed un galil, Elie era uno dei tre kibbutzim del gruppo: nato in una colonia, ci aveva vissuto, studiato, lavorato e aveva combattuto per difenderla. Eppure era qui. Per scelta, per dovere. Nel suo piccolo era un eroe, anche se restava un mezzo cesso.

Miriam, che dopo cinque anni nell’esercito si considerava un’intenditrice sia di galil [fucile d’assalto] che di mezzi-cessi, senti’ di condividere con quel ragazzo un sentimento complesso, misto di colpa e lealta’.

<< Elie, ceni con me? >> chiese la ragazza a bruciapelo. Una cena, niente piu’. Quella sera non voleva mangiare da sola ne’ con qualcuno estraneo alla missione.
Il ragazzo si giro’, si aggiusto’ gli occhiali ed annui’. << Okkey >> fu il suo elaborato commento.
<< Offro io e scelgo io >> preciso’ Miriam.
<< Okkey >>.
<< “Da Gennarino”, vicino al porto. Ci sei mai stato? >>
<< No >>.
<< Elie, non mi hai risposto “Okkey”! Sono commossa.>>
Silenzio. Sorriso. Di nuovo silenzio.
Bene, penso’ la ragazza, ha la vitalita’ di Frankenstein, ma almeno e’ bello come Woody Allen. << Ci troviamo li fra un ora? Cosi’ abbiamo il tempo per un cambio ed una doccia, va bene? >>
<< Okkey >>
Rewind.

Miriam sali’ due rampe di scale e si trovo’ nella modesta stanzetta che trasformava un angolo di caserma nella sua casa. Si sdraio’ sul letto col cuore che le martellava come motore a due tempi.
E giusto. Si deve fare, continuava a ripetersi. Si era offerta volontaria perche’ credeva nella scelta del governo, perche’ era pronta a pagare quasi ogni prezzo per la pace. Si era offerta, non poteva tirarsi indietro: la sua scelta era gia’ compiuta.
Rimase immobile una mezza eternita’ e quando si riscosse scopri’ d’essere inevitabilmente in ritardo. Una cosa che detestava.

Si tuffo’ dunque nella doccia, scelse uno shampoo alla lavanda e il primo sapone che le capito’ a tiro. S’asciugo’ alla meno peggio e decise d’indossare una gonna celeste corta, stretta e leggera. Vi abbino’ senza riflettere una camicia jeans coi bottoni a pressione in madreperla e calzo’ quasi automaticamente le scarpe della sera, quelle col tacco.
Orecchini indiani d’argentone e lapislazzuli, en pendant una collana della stessa provenienza. Un unico, grosso braccialetto africano da schiava ed era fatta. Pronta.

La ragazza si pianto’ di fronte allo specchio complice e sbircio’ il risultato complessivo.
Una schifezza, decise, con mirabile oggettivita’ e distacco.
Un po’ nostalgica anni ’80, un po’ mignotta askenazita dell’est, il tutto ingentilito dal gusto estetico di un camionista bulgaro col fetish per mises di Elisabetta d’Inghilterra.
Amen, non c’era tempo per fare di meglio e in ogni caso gli uomini guardano viso, gambe, culo e tette, non l’involucro. O cosi’, almeno, le era parso di capire.

Chiamo’ un taxi e si precipito’ all’appuntamento: la camicia si sarebbe asciugata per strada, i ricci neri ci avrebbero messo un po’ di piu’, ma sapevano di lavanda e non di cane bagnato. Era gia’ qualcosa.

“Da Gennarino” era un locale poco ordinario: peperoncino ovunque usato come suppellettile. Tovaglie ridicole, demode’, a grossi quadratoni bianchi e rossi in stile bassa Slesia. Servizio piuttosto scadente.
Beh, e’ il porto, che ci si puo’ aspettare?

I due si sedettero su un tavolino d’angolo, vicino alla finestra, e quasi immediatamente un cameriere dall’aspetto cretese o gitano si materializzo’ accanto a loro. << Il menu’ >> chiese Miriam.
Le rispose un sorriso a trentadue denti e l’immobilita’ statica di un colosso della Valle dei Re.
<< Il menu’ >> ripete’ Miriam.
<> chioso’ l’uomo, girandosi e azzardando un passo di danza a meta’ tra l’improvvisazione e l’epilessia. << Menu’ >> ribadi’ annaspando nell’evidente ricerca di un pezzo di carta qualsiasi da spacciare per tale.

<< Lasci perdere, mi suggerisca lei >>.
<< Ah, Mademoiselle >> s’illumino il creto-gitano << si lasciasse servire… >> quindi sfogo’ una cascata di fonemi e d’intonazioni che volevano essere ebraico, o inglese, o forse italiano ma a che Miriam, attonita, quasi incantata, parvero strettamente imparentate con l’esperanto.
<< Non ho capito niente >> articolo’ Elie inatteso, spezzando un istante lirico forse irripetibile.
<< Nemmeno io >> rincaro’ Miriam, sprofondano il cameriere nella piu’ cupa prostrazione.
<< Ascolti >> continuo’ la ragazza << Son venuta qui altre volte, quindi conosco i piatti. Ce l’avete un’insalata di gamberetti? >>
<< Ma e’ taref! [Impuro, vietato] >> allibi’ il compagno, con visibile orrore.
<< Non rompere, Elie. Mangiati pure della zuppa di patate, ma lascia che io sprofondi nel peccato. Domani… insomma, ora ne ho bisogno. Domani devo star bene. >>
<< Okkey >>
E dagliela.

Fu una cena silenziosa. Elie combattuto tra rimorsi e doveri, forse schifato dai crostacei. Miriam concentrata nel trasgredire il maggior numero possibile di regole alimentari: in bilico tra il piacere effimero del palato e l’equilibrio precario della piccola porzione di universo che le corrispondeva.

Nessuno dei due fece caso all’interessata premura del cameriere pseudo-gitano, un condor umano che grondava lussuria da ogni bulbo pilifero e sembrava pronto a gettarsi al suolo in ogni istante, pur d’avere il privilegio di leccare le caviglie di Miriam con una cura paragonabile a quella che lei prodigava nello scartocciare il carapace dei gamberetti.

Un’ora dopo i due stavano scendendo dal taxi che li aveva riaccompagnati in caserma.
Miriam osservo’ ancora una volta il compagno. Combattuto, distrutto, dilaniato.
Mezzo cesso.
Sentiva di capirlo bene… terribilmente bene.
<< Sali da me, Elie >>
Il ragazzo alzo’ gli occhi. La proposta tardo’ un po’ prima di cortocircuitargli i gangli nervosi.
Fu evidente che era stata recepita quando Elie si porto’ le mani alla cravatta, armeggio’ appena col nodo e scese accarezzandola quasi fosse un sesso.
<< Se vuoi >> mormoro’ Miriam << Se vuoi… sali da me >> sembrava quasi una supplica.
Mezzo-cesso le tese la mano e insieme salirono le scale.

Quando Miriam arrivo’ in stanza si era gia’ domandata una decina di volte che cosa diamine stesse facendo. Aveva avuto diversi ragazzi: era cosi’ facile. Tutti quanti perche’ le piacevano, pero’. Questo qui… questo qui, diciamocelo, era uno scrondo. Anonimo di viso e con un corpo di una mediocrita’ deprimente. Inoltre sembrava imbranato. Cioe’, siamo oneste, materiale da rupe Tarpea.

Eppure, nonostante la ragione di Miriam ululasse di disgusto, il suo corpo non le rispondeva: slaccio’ la gonna e la lascio’ cadere in un fruscio azzurro soffice come un sospiro. Sbottono’ la camicetta e si avvicino’ al compagno, pietrificato come un bassorilievo bizantino.
Si tolse le scarpe, per ridurre il gap di statura che molti uomini trovano imbarazzante e spense la luce, piombando il mondo nella penombra e aprendo un gioco di sagome grigie, dono dell’illuminazione stradale pallida e annoiata.

I panni di entrambi scivolarono uno sull’altro, come i petali di una rosa che un po’ alla volta seguono il medesimo destino mortale << Non dovremmo restare tutti nudi >> mormoro’ il pio, osservante, Elie con ben poca convinzione.
<< Okkey >> lo canzono’ la compagna. Poi gli sfilo’ la cravatta e la calzo’ piano, seta frusciante sul seno nudo.
Non vi furono altre obiezioni.

Miriam lo bacio’ per prima. Sul naso, sugli occhi, sul mento ma non sulle labbra. E scese. Lentamente, molto lentamente. Lasciando una scia di saliva, sul petto e sull’ombelico, dolce e calda, scintillante come quella di una lumaca, ma mortalmente piu’ languida.
“Non e’ cosi’ male al buio” si scopri’ a pensare la ragazza “sembra quasi un uomo normale”.
Chiuse gli occhi e si fece guidare dall’olfatto, dal profumo di uomo e da quel calore umano e riproduttivo che avvertiva come un ecogoniometro capta i suoni.

Individuo’ l’asta e vi scivolo’ accanto, sfiorandola con la guancia, accarezzandola coi ricci neri. Incontro’ la radice, la pelle rugosa che nasconde l’orgoglio e la debolezza del maschio, la sfioro’ con le labbra, la punzecchio’ coi denti e con la punta della lingua, godendo per le piccole, incontrollate contrazioni che cosi’ le imponeva. Poi avverti’ una mano che le sfiorava timida il capo, che si perdeva tra i ricci senza osare un contatto piu’ intimo, senza sospettare nemmeno che potesse essere voluto. “Ma che e’? Una mano o un moncherino?”
Dio, com’era brava quella ragazza a castrarsi brutalmente i momenti di romantico erotismo.

Miriam porto’ la sinistra all’inguine, umido e pulsante, irrorato di sangue. Chiuse gli occhi, si penetro’ con l’indice e al contempo sollevo’ il capo, guidandosi col binario bollente che le scorreva a lato. Lo fece scivolare prima sullo zigomo, poi sulla guancia, sempre piu’ giu’ fino a sentirlo pulsare umido ad un millimetro dalle labbra.

<< No >> mormoro’ Elie, ritirando l’appendice minacciata come chi fugge da uno lapillo d’acido solforico.
<< Sei impazzito? >> domando’ Miriam, piu’ incredula e sconvolta che umiliata.
<< No. Cioe’, si e no… Non so se e’ giusto, se e’ lecito… >>
<< Ultraortodosso coglione! >> Miriam si alzo in piedi, lo abbraccio’ stretto, perse l’equilibrio e caddero insieme sulla branda metallica, gentile concessione dell’esercito israeliano.

<< Ma… >>
<< Taci e fottimi, Elie >> mormoro’ Miriam, supina, allargando le cosce sotto il peso del compagno.
<< E’ un ordine, Tenente? >> ironizzo’ il ragazzo.
<< Una preghiera >>
L’ultima sillaba mori’ in un gorgoglio soffice e liquido, trafitto all’improvviso come la sua padrona. Miriam abbraccio’ il compagno, se lo spinse a fondo, fin quasi a sentir male. Sali’ con le mani stringendolo forte, graffiandogli la schiena e bloccandogli la testa il tempo necessario per dargli un bacio forte, carnoso, doloroso, ma non sulla bocca. Poi si arrese e alzo’ le braccia. Se le lascio’ imprigionare sopra la testa e si concentro’ sul proprio ventre.

Lo fecero con dolcezza e con rabbia,
una venere e un mezzo cesso,
abbracciati e stretti,
senza fantasie ne’ amore.
Scoparono fino a stancarsi. Ed entrambi piansero, senza dir nulla e senza sapere il perche’.

<< Elie, e’ tardi. Rivestiti e lasciami sola per favore: abbiamo solo quattro ore di sonno >>
<< Okkey >>
<< Per cortesia, non mi dire piu’ “Okkey”. Stasera ho scoperto che mi da sui nervi >>
<< Ok… va bene >> il ragazzo si sollevo’ dal letto, la pelle fresca ancora un po’ umida di sudore, quel poco che non si era asciugato all’aria frizzante della notte.

Guardo’ Miriam, una ninfa di rame, splendida dal seno generoso, il ventre piatto e le cosce tornite. Supina, una gamba un po’ flessa, le braccia sopra il capo ancora strette alle sbarre della branda militare. Nuda o quasi: vestita d’una cravatta. << Miriam, volevo solo dirti che… che per me sei molto piu’ bella di Kim Basinger in nove settimane e mezzo >>
Che complimento idiota. Dopo averlo esternato Elie avrebbe voluto farsi circoncidere una seconda volta per punizione.

<< Elie, ti devo confessare che non ho memoria letteraria ne’ cinematografica: per me Kim Basinger vale quanto la cagna Lessie. E spero che nessuna delle due me ne voglia >>.
<< Perche’ sei sempre cosi’ caustica? >>
<< E’ una difesa >>
<< E la tua ironia? >>
<< Fuoco di copertura >>

<< Ti voglio bene, tenente >> mormoro’ il ragazzo con schiettezza.
<> sussurro’, vergognandosi davvero per il proprio comportamento insensibile ed egoista << Ho condiviso con te il mio letto e ho abbracciato il tuo corpo solo perche’ la mia anima aveva bisogno di conferme… cosi’ come la tua, probabilmente.
Sei un bravo ragazzo, Elie, e un buon soldato, ma io non ti amo e vorrei non averti disturbato stanotte >> concluse, sputando fuori le ultime parole come per esorcizzare, per cancellare un ricordo.

<< Non mi ero illuso, Miriam. Hai rimpianti? >>
<< Non rimpiango nulla, ma ho dei rimorsi >>
<< Allora cerca di dormire: domani per noi due sara’ piu’ difficile >> mormoro’ il ragazzo, e sorrise soffiando come un gatto. Forse piu’ una smorfia amara che un sorriso.
Miriam rimase immobile e muta anche dopo che il compagno se n’era andato “Gia’” penso’ “dormi anche tu, Elie, se puoi. Hai ragione: domani sara’ una delle giornate piu’ dure della nostra vita”.

IL GRANDE GIORNO
Tel Aviv, ore cinque e zero zero. Squadra Gemel tutti presenti.
Trentacinque uomini salirono su un camion nel silenzio amniotico d’un giorno non ancora nato.

Delle ottantasette abitazioni assegnate alla squadra solo dieci erano ancora occupate: la maggior parte dei coloni se n’era gia’ andata, come stabilito dalle autorita’.
Restavano gli irriducibili, gli estremisti o semplicemente i piu’ disperati che per nulla al mondo avrebbero lasciato la loro casa e la loro terra. Ad essi si erano uniti gli attivisti di estrema destra, gente dei movimenti Gush Emunim o di Israel Hasheleman, in grado di sfoggiare un campionario umano che sembra fuggito da un museo antropologico o da un libro di geografia.

<< Spiegare, comprendere, aiutare, scusarci e indennizzare >> non si stancava di ripetere Miriam ai suoi soldati << Noi entriamo in questo meccanismo. So che lo farete, come lo faro’ io. E avra’ un prezzo, perche’ forse domani non saremo piu’ gli stessi >>

E’ indescrivibile la pressione che si puo’ subire in certe circostanze. Indescrivibile e cosi’ diversa da quella che un veterano e’ abituato e ad affrontare.
Un vecchio si barrica in casa e si fa trovare in salotto mentre intona ossessivamente la Shema Yisrael, quasi fosse un condannato a morte. Una quindicenne in lacrime ti grida in faccia “Un ebreo non scaccia mai un altro ebreo” e piange di delusione, di rabbia, di vergogna. Una nonna ultraottantenne prende a schiaffi un soldato e lo copre di insulti. Un uomo e un militare si abbracciano e piangono insieme come bambini e tanta gente ti chiama nazista, deportatore, traditore. Non e’ facile. Non e’ un cazzo facile. Non lo e’ in generale, non lo e’ per chi – piu’ di altri – ha un passato popolato da fantasmi terribili.

Uno degli ossi piu’ duri fu un ultraottantenne, saggio e spiritoso << Ascolta il tuo cuore >> disse a Miriam << la tua gente e’ quella che senti. Come fai a zittire la tua anima? >>
<< Con la ragione e la coscienza >>
<< Certo, ma puo’ la coscienza ordinare ai tuoi soldati di strappare la gente dalle proprie case? Non ti faccio un discorso politico, ne’ religioso >> continuava << Guardami: sono un vecchio laico, e me ne frego della politica fin dal 1973. Ho cinque figli, quattro normali ed uno ultraortodosso, a cui voglio bene come agli altri. Detesto le beghe teologiche d’ogni credo, anzi, sai una cosa? Quando mi parlano di religione tolgo la sicura al vecchio moschetto del ’48 >> sorrideva. << Voglio solo morire nella mia casa, ragazza. Non mi manca molto. Chiedo troppo? >>
Si, ma come si faceva a dirglielo? Fu un esperienza straziante, soprattutto dal punto di vista umano.

Mancava ancora un’ora al tramonto quando Miriam, esausta, si sedette su un muretto di recinzione, si tolse il berretto e si asciugo’ i capelli sudati con una manica.
Un istante dopo fu raggiunta da Yitzhak ed Elie. Il piu’ duro e il piu’ provato. Il primo coi muscoli tesi, pieno di energia e sostenuto dal sacro zelo della sua Missione. Il secondo col volto scavato da due canyon di lacrime e sporcizia, ma altrettanto determinato.

<< Come va tenente, tutto bene? >> domando’ Yitzhak.
<< Si, sono distrutta, ma mancano ancora due case: la 41 e la 78”
<< Una: la 78 ha appena ceduto >> ringhio’ il soldato. << Senti, cambiando discorso, ieri ci siamo trovati quasi tutti in refettorio perche’ c’era un bel programma in TV. Ti abbiamo cercato, dov’eri finita? >>
<< Ero con Elie >>
<< Con questo disgraziato? >> esclamo’ Yitzhak incredulo, indicando il compagno ed improvvisando un confronto mentale che lo vedeva trionfatore come un Radames.
Il disgraziato sollevo’ la testa e quasi sorrise.
“Porca troia” ragiono’ Yitzhak “ma allora e’ vero che si scopa anche i nani”.

<< Ragazzi >> intervenne Miriam << la 41 e’ l’ultima, sicuri? >>
<< Si >>
<< Me ne occupo io >>
<< Beh, avrai bisogno di una mano >>
<< No >> grugni’ la ragazza. Si alzo’, allontano’ Yitzhak quasi con scortesia, e avanzo’ spedita verso l’ultima casa occupata. I due compagni la osservarono dal muretto, senza interferire.

Man mano che si avvicinava alla meta, Miriam sentiva le gambe piu’ stanche, piu’ pesanti, come di piombo. Da principio rallento’ l’andatura, poi si fermo’. Asciugo’ le mani sudate sui pantaloni irrigiditi dalla polvere. Riparti’ lentamente, a scatti, e si fermo’ sull’uscio. Il dito sul campanello, ma senza premere, senza suonare.

Un ultimo sforzo, ragazza mia, si disse. Suona e parla. Non e’ difficile. Un ultima volta ed e’ finita.
Immobile.
Inaspettatamente la porta si apri’ da sola, gemendo appena sui cardini. All’interno, la sagoma di un anziana madre di famiglia piangeva in silenzio guardando il pavimento e subito il marito, un vecchio agricoltore bruno di pelle e con la barba sale e pepe ingiallita dal sole, si porto’ tra gli stipiti fissando uno sguardo di ghiaccio sulla giovane. Lei non aveva ancora trovato il coraggio di pigiare il pulsante del citofono.

<< Signorina >> esordi’ l’uomo con voce fonda e distante.
Per Miriam fu come una sferzata. Strinse i denti, fece appello a tutte le sue forze e inavvertitamente, come per un precondizionamento, suono’ il campanello. Un rumore alieno nel silenzio carico d’attesa.
L’uomo alzo’ un sopracciglio << Non mi ha visto o le va di scherzare, signorina? >>
<< Scusami, non e’ facile per me >>
<< Non lo e’ nemmeno per noi, tenente, cosa crede? >> scandi’ l’uomo con lentezza. Parole semplici e sassate. << E non la scuso, signorina >> concluse, enfatizzando il formalismo della frase con rispettoso disprezzo.
Miriam tacque. Controllo’ le lacrime e ricambio’ uno sguardo fermo e arido come il Negev.

<< Vede Segen [Tenente] >> spiego’ il vecchio << questa terra ci fu assegnata perche’ nessuno, arabo o ebreo, la reclamava. Due tribunali, due giudizi per stabilirlo, lo sapeva? >>
<< Certamente >>.
<< Trent’anni fa, quando mi trasferii qui >> continuò l’uomo come se Miriam non avesse nemmeno fiatato << c’erano solo dune. Ora lei alza lo sguardo e crede di vedere case, alberi e giardini… No, Segen, glielo dico io: e’ tutto un miraggio. In realta’ qui ci sono sempre e solo dune. Dune e la mia vita.
Tra di esse ho seppellito mia madre, tra di esse sono nati i miei figli… No, Segen >> ribadi’, sputando il grado con l’amarezza di un insulto << lei non puo’ capire. Lei esegue solo gli ordini come un poliziotto dello Judenrat di Varsavia >>

Miriam aveva abbassato il viso, ma lo alzo’ di scatto e fisso’ il vecchio. Non era vero. Il paragone era insultante, umiliante, ingiusto. Non era vero e un altro giorno, in un altro luogo, in altre circostanze gliel’avrebbe ricacciata in gola, quella vergognosa provocazione. Se fosse stato un coetaneo gli avrebbe forse spaccato la faccia a costo di rimetterci tutti i denti.

Invece non fece nulla di tutto questo. Lampeggio’ uno sguardo di fiamma, strinse i pugni fino a fasi sbiancare le nocche e represse ogni ribellione deglutendo in silenzio.

<< Segen >> continuo’ l’uomo con voce pacata e ferma << ora io e mia moglie saliremo su quell’autobus, ma ci auguriamo vivamente di non rivederla mai piu’ >> e annui’ impercettibile, quasi a rafforzare il suo messaggio, ad assicurarsi che esso fosse stato recepito al di la di ogni ragionevole dubbio.
<< Se e’ questo che desiderate. Se…>>
<< Lo e’ >>

Detto cio’ l’uomo giro’ sui tacchi e abbraccio’ la compagna affranta, la sostenne quasi, poiche’ aveva pianto fino ad esaurire forze e lacrime. Senza mai alzare lo sguardo da terra.
Insieme si incamminarono verso la corriera dipinta di bianco e blu, i colori nazionali. Insieme rifiutarono con sdegno l’aiuto di Elie. Senza voltarsi salirono nell’abitacolo, senza voltarsi presero posto accanto al finestrino.

Miriam rimase immobile ad osservare i due anziani. Si impresse i loro volti nella memoria. Per sempre, anche se segnati dalla rabbia e dal dolore, anche se ombreggiati dai vetri smerigliati della corriera.

Un brivido caldo le attraverso’ la schiena quando l’autista mise in moto e il motore diesel del mezzo borbotto’ la sua protesta. Per un attimo le sembro’ di avere un capogiro, la testa vuota e la vista spenta, come quando si e’ rimasti troppo a lungo chinati e si commette l’imprudenza d’alzarsi all’improvviso.

Lentamente mise a fuoco. Vide l’autobus caracollare piano sui ciotoli. Lo osservo’ rotolare sulla striscia d’asfalto e allontanarsi col suo carico di schiene: un rettangolo blu, un punto nero, uno sbuffo di polvere.
<> sussurro’ Miriam, un alito sordo e il vento in controcanto. Sarcastico, beffardo, maligno, alieno.
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Nadja Jacur

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