Lascia che sia




Si può descrivere un profumo, un colore o un animale alieno?
Si può descrivere un sentimento medievale rinchiuso in una gabbia di doveri?


Dolce la brughiera sale verso nord, rabbrividendo in sassose collinette ricoperte d’erica e pioggia. Laggiù, alla la periferia d’Europa e del mondo, regole e codici non scritti possono condizionare una vita. Laggiù, nella terra dei Clan, forse è rimasto qualcuno in grado di capire quanto provo ora, perché certe realtà non si spiegano o si descrivono ma si comprendono accettandole.

Lo spinsi in salotto, sul divano la cui federa color crema, proprio a quell’ora del giorno, viene tempestata da fiotti di luce che si riflettono sulla stoffa come tante onde di pietra in uno stagno.
Feci un passo indietro restando sulla punta dei piedi e cominciai la mia personale alezeia: quel processo filosofico che consiste nello svelare un concetto epurandolo a poco a poco del superfluo, un po’ come si sbuccia una cipolla, velo dopo velo, fino a coglierne l’Essenza.
Non ci misi nessuna fretta, perché mi stava particolarmente a cuore che i passaggi più sottili fossero apprezzati in tutta la loro raffinatezza speculativa. Tenni per ultima la camicetta, slacciai i bottoni e lasciai che la stoffa mescolasse le sue curve morbide alle mie. Seta su seta e un respiro di vento frescolino che rabbrividiva di curiosità sulla cicala meticolosamente depilata.

Gli feci cenno di alzarsi e Lui, con un unico, fluido movimento, fu subito in piedi. Si tolse le scarpe, slacciò la cintura e si sfilò la polo color vinaccia. Fulmineo come uno spogliarellista di professione con abiti velcrati, rapido come un politico consumato che cambia bandiera.
<< Calma >> mormorai << voglio farlo io >>
<< No >>
<< Perché? >>
<< Sei troppo lenta ed ora sono insofferente ai vestiti >> spiegò, riuscendo ad assumere chissà come un tono di martirizzata pazienza.
<< Lenta? >> inarcai un sopracciglio, mi sporsi per dargli un bacio, portai le mani sui pantaloni e, senza che le mie labbra l’avessero sfiorato, scesi velocemente sfilandogli in un sol colpo jeans e slip.
Lenta sarà quella inutile viziata depressa di tua sorella.

Rialzando lo sguardo mi trovai a pochi centimetri da un’orgogliosa erezione che profumava di quel caldo odore muschioso di uomo (vedete quanto è difficile descrivere un profumo?) Mi aggrappai al suo cazzo e lasciai che Lui mi aiutasse ad alzarmi. Sporsi le labbra per poterle finalmente appoggiare sulle sue. Baciarlo: una cosa che facciamo solo in casa, di nascosto, perché altrove sarebbe troppo rischioso.
Poi lasciai che le sue mani mi scorressero sulla schiena, che mi liberassero della camicetta prendendo possesso delle curve e dell’anima che si nascondono sotto l’armatura dei vestiti.
Ci stendemmo sul divano godendo del reciproco contatto come di un orgasmo lungamente atteso. Sulla pelle, solo la nostra biografia più sincera: io completamente nuda e lui pure, ma con un dissacrante paio di calzini. Corti, addirittura. Roba che se fosse stato un altro mi sarei cercata un angolo per ridere e vomitare.

A ben pensarci avrei già dovuto ripudiarlo per l’assoluta mancanza di gusto ma, mentre una parte del cervello soffocava il pensiero insieme a commenti ben più caustici, una mano mi agguantò il mento e mi costrinse ad alzare la testa. La sua lingua mi pennellò piano le labbra schiudendole e penetrò al loro interno prendendo possesso di quanto era suo diritto.
E allora chi se ne fotte dei calzini, biondo!
Per un bel po’ ci saremmo rotolati e coccolati. Niente penetrazioni, solo amore, solo affetto perché Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno entrambi. Poi… poi, senza preavviso avremmo cominciato il Gioco. Dolce, violento, sempre diverso. La passione – quella vera – non ha regole e, romantica o carnale, va vissuta come su un palcoscenico. O almeno questa è la nostra visione delle cose.

Mio padre è morto quando ero così piccola che non ne ho alcun ricordo.
Dopo otto anni mamma si è risposata, ma non poteva avere altri piccoli perciò sono rimasta figlia unica.
Non solo, sono anche nipote unica, senza cugini o altro, e il più giovane dei miei zii ha più di sessant’anni. Il doppio dei miei.
Questo, nella mia famiglia, significa una cosa sola: significa che il mio destino non può essere altro che il clan. So che sembra il motto di una combriccola di invasati, ma purtroppo non lo è affatto… Non lo è affatto, davvero.

<< Cosa vorresti dire? >>, sbottò Lui fingendosi irritato, ma continuando a titillarmi con noncuranza un capezzolo.
<< Non mi hai sentita? >>
<< Si >>
<< E hai anche afferrato il concetto? >>
<< Si >>
<< Sbalorditivo! >> stupii, sopraffatta dalla rivelazione.
<< Allora? >> incalzò Lui, tamburellando con le dita sul rosone di carne che sigilla la cupola del seno.
<< Ribadisco: a mio avviso vivi senza dignità il complesso di avercelo piccolo >>
<< Io? Io ce l’avrei piccolo? >> ruminò, salendo di un ottava.
Chiusi un po’ le palpebre e annuii come per dire: ebbene si, è così, non farne un dramma… Minchietta.
<< Piccola cagna impertinente! >> grugnì Lui, scannerizzandomi da capo a piedi come per calcolare attraverso quale orifizio dovesse collocare la pallottola letale.
<< Come ti permetti, scrondo impotente! >> Lo schiaffeggiai in pieno volto, a sorpresa, senza ragione… anche piuttosto fortino. Poi scappai perché va ben scema, ma a tutto c’è un limite.

Dietro di me esplose il prevedibile ululato di uno yeti ferito mentre Lui, ripresosi quasi subito dallo shock, si lanciava alla carica con le braccia protese come un gold rusher che avesse visto la prima pepita della sua vita << Ti prendo e ti rovino! >> Un grugnito e un motto araldico al contempo.
<< Ih, per uno schiaffetto… Mozzeralla! >> gridai di rimando, passando da una stanza all’altra e aggirando tavoli, sedie ed ostacoli vari.
<< Schiaffetto un cazzo: occhio per occhio, dente per dente! >> perché Lui ha sempre avuto un senso morale primitivo ma efficace.

Mi fermai ansando dietro un tavolo ovale e sorrisi con l’aria più civettuola di cui ero capace << Vorresti davvero schiaffeggiarmi, cicci.amore.tesoroSMACK? >>
GRRRRR
<< Davvero? >>
Fu un attimo e subito lo sguardo gli lampeggiò tormentato dalla perspicacia << NO! Ti faremo implorare di essere schiaffeggiata, io e il mio complesso di avercelo piccolo>>
<< Ancora ti brucia? >> cercai di temporeggiare mente facevo un po’ di finte laterali, utili tanto a mascherare le mie intenzioni quanto a distrarre il nemico ipnotizzandolo col rollio inerziale del seno.
Lui abboccò, fraintese e portò la mano alla guancia << Guarda, ti faccio provare. Sul serio, cazzo! >>
<< Cazzo? >> un’ispirazione mi aprì il cervello come una lametta. Sorrisi maligna e scattai in avanti come per staccargli una frignoccola sulla cappella pulsante che faceva capolino dal bordo del tavolo.

Istintivamente, il meschinello balzò indietro con uno strillo virginale… troppo tardi intuì che era tutta una dannata finta per guadagnare la porta e, con essa, la salvezza << Oplà, ma non è possibile! Ma allora sei davvero ritardato, uno scherzo della natura! >>
Muggì per l’ulteriore oltraggio e si lanciò subito all’inseguimento, ma aveva indugiato per una fatale frazione di secondo. Varcata la soglia, io virai ad angolo retto come pac-man, mentre le sue braccia, ancora protese nella comica parodia di un gesto rapace, artigliarono solo frustrazione.
Riuscì appena a sfiorarmi una spalla, ma la spinta inerziale lo fece continuare dritto come una fucilata e lo mandò a rovinarsi con un sordo boato contro una fioriera: Dio punisce impietosamente chi resta nudo coi calzini, soprattutto se cerca di correre su un parquet o un pavimento alla veneziana.

La mia vita è dunque la famiglia, il clan, e poiché sono l’unica della mia generazione un giorno - spero il più tardi possibile - anche se sono una donna sostituirò mio zio e sarò capoclan. Da me dipenderà il passato e il futuro. Proprietà. Sostanze. Tradizioni. L’onore. I vecchi.
Lo so da sempre e da sempre aspetto e mi preparo, in una specie di Deserto dei Tartari di rinunce.
Vi pare un’idiozia, vero? Una cosa impossibile, una sparata, una fottuta goldonata… anche a Lui probabilmente sembra così, perché non è facile comprendere cosa significhi che l’erede deve essere sempre pronto, che l’erede è il clan. Non è facile accettare che un ruolo ammantato di sogni romantici sia in realtà una condanna a vita.

Il casino fu tale che osai voltarmi per sbirciare.
Fu un catastrofico errore tattico, il mio, perché scoppiai a ridere e subito scatafasciai a mia volta, cadendo riversa su una poltrona.
Mi rialzai col rinculo. Cioè, prima ancora che riuscissi a concepire l’idea di spostarmi Lui si era materializzato alle mie spalle, umido di puzzosa acqua da fiori, poetico come un gorilla in calore, ma con un’umanissima scintilla sadica negli occhi.
Mi agguantò i capelli e li tirò a se piantandomi contemporaneamente l’altra mano (o forse era un ginocchio) alla base della schiena, proprio sopra l’attaccatura del culo.

<< Ehi, sottoprodotto umano, non esagerare! >>
<< Ti faccio uggiolare come la cagnetta Laika! >> promise sibillino prima di proiettarmi bocconi sul tappeto ed inchiodarmi al suolo come un lottatore di judo.
<< Ok, ok, pace, mi arrendo >>
Cioè, non prendetemi per cretina, nessun essere dotato di senno, date le circostanze, potrebbe sperare in un armistizio, ma ho scoperto che Lui, se si sente padrone del campo, è meno concentrato sulla necessità di dimostrarsi Prode Vincitor, perciò si rilassa, fa affluire sangue prezioso ad uno dei due organi pensanti e talvolta riesce persino a diventare creativo.
Magari funziona anche con altri maschi: provate e poi fatemi sapere, sono sinceramente curiosa.

Ho viaggiato poco, e non certo per problemi di denaro.
Mai l’esperienza di studiare o vivere all’estero, e il lavoro… oh, Dio si, il mestiere che ho sempre sognato, per il quale so - in fondo all’anima - di essere nata, anche quello… niente.
Un impiego comodo, invece, anonimo, ordinario, con un basso profilo, perché da un momento all’altro potrebbe essere il mio turno. Tenersi pronti. Sempre pronti.
Ho avuto modo di apprezzare solo il profumo della carriera che avrei sognato, dolce come la fragranza dell’osmanto.
Col senno di poi sono stata un’idiota, davvero. Sapevo di non potermelo permettere e ho voluto lo stesso gustare quel sapore proibito… rimpiangendolo poi fino alla fine dei miei giorni.

<< Oh, si, ti arrendi come Enrico IV a Canossa, ma come Riccardo III è sul campo di battaglia che troverai il tuo destino>> Andato. Completamente travolto da un mare di confusioni storico-culturali.
<< Ti sei rincoglionito, sfiguomo? >>
<< Taci, Cassandra, che sia il ferro e il bronzo a parlare per Ilio! >>
Stupefacente logorrea di citazioni, ragionai. Un miracolo, considerata la sua ben nota resistenza all’apprendimento in età infantile.
<< Deficiente psicotico, sei sicuro di aver mangiato solo una piadina alla porchetta? >>
Per tutta risposta Lui mi calò la destra sul collo e la sinistra tra le reni, bloccandomi bocconi sul tappeto. Subito le sue dita si insinuarono nel ventre, con prepotenza, senza preavviso e senza trovare ostacoli, perché la mia cicala era così bagnata che temevo di aver già rovinato il prezioso Tabriz ingessandolo di glassa.

Per alcuni minuti si concesse di ravanarmi con le dita e contemporaneamente mi mantenne il collo inchiodato al suolo cosicché, per quanto mi dimenassi o gli insultassi i classici, non sarei mai riuscita a liberarmi.
<< Piccola gatta selvatica, non immagini nemmeno cos’abbia in serbo per te >>
<< Sicuramente una minchiata >>
Di colpo mi incastonò due dita nella figa, le spinse così a fondo e così all’improvviso che il commento successivo mi si strozzò in gola traducendosi in un singhiozzo gutturale. Probabilmente fu ciò che compromise definitivamente la conversazione.
<< Ti piegherai, oh, se ti piegherai! Sarai il mio mocio Vileda >> vaneggiava Lui.
<< Sogna. Piuttosto te lo mordo >>

In quel momento mi liberò il collo per sedersi direttamente sulla mia schiena. Sentivo un grosso culo peloso che mi schiacciava ma non me ne fregava nulla, ormai, purché le sue dita continuassero a fare il loro laido lavoro. E Lui continuò: indice e medio mi scivolavano sulle labbra o mi penetravano toccandomi dentro ed io spingevo verso l’alto per averne ancora.
Dovevo farlo, capite? È stolto resistere alle vocazioni, perciò spingevo e sbavavo, si, sbavavo sul tappeto persiano come una cagna epilettica e annaspavo, persa in quella dolce asfissia che impedisce di pensare all’esistenza dell’aria.

Mi sono sposata presto.
Per amore? Si, anche se non fosse vero, non mi è concesso nutrire dubbi.
Si, dunque, per amore.
Naturalmente ho fatto il mio dovere: ho generato l’Erede, mia figlia, il mio successore.
Oltre a lei non volevo altri bimbi, parola d’onore, ma prima di me, come donna e come essere umano, c’è sempre la responsabilità del Clan, come è giusto che sia.
Nel clan un fratello può essere motivo di contrasti ma, riflettendo bene, se io ne avessi avuto uno forse avrei potuto… Ecco, mi chiesi, è giusto condannare mia figlia al mio stesso destino?
Unica della sua generazione, senza fratelli, sorelle, cugini primi o secondi. Non una spalla né vie d’uscita nella vita dedicata al clan. No, no, non posso farle questo: è istintivo per un genitore evitare alla prole parte delle proprie pene.

La prima steccata arrivò all’improvviso.
<< Ahia! >> urlai indignata, e subito arrivò la seconda.
<< Cazzo fai, verme? >>
<< Mi vendico, troia, non è questo che volevi? >>
Beh si, ruminai, ma speravo che la sua vendetta si limitasse al sesso non che… << Ahi! >>
<< Mmm, mi piacciono le tue chiappe ancora sode >>
Come sarebbe a dire ancora, butto bastardo? Però, Dio, le sue dita restavano dentro e Lui girava, spingeva in fondo, scavava e le estraeva per ciucciarle senza mai smettere di sculacciarmi con la destra. E a mano piena, l’immondo! Ora su una natica ora sull’altra, godendosela veramente un sacco a giudicare dalle odiose, gongolanti risatine.

<< Guarda come ti arrossi… scommetti che ti rompo i capillari? >>
<< Smettila, deficiente, io ti ho dato una sola sberla. AHI! >>
Cercai di scalciare, ma ottenni solo una seconda razione di schiaffi sulle cosce.
<< OK, basta, mi arrendo. Cominci a farmi male sul serio >>
Smise. Era fatto così. Aveva sempre saputo quando era gioco e quando non lo era più e… e la sua lingua. Oddio, sapeva come farsi perdonare, lasciando scorrere quell’organo mobile, umido e muscoloso, sulla pelle arrossata. Baciandomi. Facendo scivolare le dita callose con la delicatezza di un sospiro. Che importava se il suo culo ruvido e peloso mi gratticchiava la schiena, finché insisteva a lenirmi il rossor delle cosce con quella grossa lingua rasposa e bagnata?

Lo lasciai fare augurandomi che durasse per sempre, ma dopo un po’ Lui giudicò d’aver fatto ammenda. Allora mi catturò un braccio con una stretta così salda che faceva pensare ad una morsa in vena di sentimentalismi. Lo storzellò dietro la schiena e mi costrinse a riguadagnare l’orgoglio della posizione eretta.
<< Tutto qui, mezza sega? >> domandai, guardandolo con aspro disprezzo da sopra la spalla.
<< Lo sai che ti farò rimpiangere ogni singola sillaba, vero? >> minacciò.
Per tutta risposta gli zappai un alluce a caso con una tallonata particolarmente mirata.
Uggiolò sacramentando imprecazioni scelte e sibilò come una bombola del gas. Accennò anche un ardito passo di salsa e merenghe, ma purtroppo non mollò la presa come avevo sperato.
<< Stronza! Laida vaccona, ora andiamo in bagno ti faccio vedere! >>
<< Dici che devo mettermi le lenti per individuarlo? >>
<< UNgrrr, Troia! >>
<< Cappone >>
Mi tappò la bocca con la mano libera, ma schiacciò troppo forte e troppo all’improvviso perché avessi il modo di mordergli le dita. Sapeva che ci avrei provato, il tanghero.

Che razza di donna sono? Posso fare un figlio senza amare?
Oppure è per amore di mia figlia che lo faccio?
Non ci capisco più niente e sento un nodo in gola quando penso a quel povero, disgraziato frutto del mio ventre che verrebbe al mondo fabbricato come un carro da buoi.
Eppure non è per lui che mi preoccupo, no: non soffrirebbe e verrebbe comunque amato. Non è quello il mio cruccio, bensì Lui… si Lui, potrà mai capire veramente o si sentirà solo tradito?
Brughiera, profumi e colori, regole non scritte che si possono accettare e mai si spiegano. Chi è fuori da un mondo di pensieri e da una mentalità polverosa di secoli, può comprendere quanto essa sia essenziale per gli ultimi dinosauri che sono cresciuti venerandola?
Ed io poi, IO… se lo perdessi che ne sarebbe di me?
Non del mio corpo, ovvio, ma del mio cuore, che ne sarebbe?
Stupida, ancora una volta ho provato un sapore proibito per conservarne in eterno il rimpianto.
Sono davvero una stupida.

In bagno trovò un vecchio filo da biancheria d’una lunghezza che lo soddisfaceva.
Lo afferrò nel centro e mi legò le mani sul davanti lasciando che due pezzi di corda avanzassero generosi da ogni lato, poi mi premette le guance costringendomi ad aprire la bocca e ad interrompere la valanga di sprezzanti improperi coi quali l’apostrofavo.
Attorcigliò quindi un asciugamano da ospiti e mi imbavagliò in modo tale che non potessi richiudere le mascelle né muovere bene la lingua. In altri termini potevo mugolare o articolare fonemi primitivi, ma avevo una certa difficoltà a modulare le parole.
Fatto ciò, iniziò a portarmi in giro per la casa come se fossi una preda di guerra.
Naturalmente cercai di resistere perché era quello che voleva e perché lo desideravo anch’io, e Lui strattonò ogni volta le funi. Non forte, ma quel tanto che bastava per far percepire la sua autorità. Di tanto in tanto mi costrinse ad inginocchiarmi in un corridoio, a chiedere tregua o a camminare carponi per un tratto.

Quando si stufò di quella pantomima, mi trascinò sul letto dove mi distese supina. Passò quindi le cime attorno alla spalliera metallica, mi baciò piano sulla cupola di ogni seno, li dove il capezzolo si fa lanterna, e mi sollevò le cosce in modo che fossi accartocciata su me stessa. Infine fece due lacci con le corde e li fissò ad ognuna delle mie gambe, proprio sotto il ginocchio.
Si accoccolò allora tra le cosce spalancate e cominciò a leccare, delicatamente come sa fare Lui.
Iniziò soffiando, con la punta della lingua giocò col clitoride. Poi scese sempre più giù scandaloso come un cane che lappa un gelato. Era già sgodevole così, ma sarebbe impossibile descrivere cosa provai quando si mise a grufolare col naso, a spingere col mento, a respirarci affianco premendo, bagnando, raspando con le papille gustative.
Io non so come diamine faccia, davvero, ma Lui è veramente un leccafiga imperiale e più di una volta ho sognato di spianare un angolo di giardino ed erigere in suo onore una specie di totem del leccaggio: alla base un gattino, poi un pastore bergamasco e in cima un cinghiale rampante e lascivo, uno di quei porci primordiali con pelame grigio e striscia dorsale nera, alla Asterix, per intendersi.

Ho dovuto scegliere e ogni scelta è un bivio, si può imboccare la strada giusta o quella sbagliata.
Inforcare la prima è molto più facile di quanto si possa immaginare, perché in fondo è solo una questione di ragionamento. Però c’è un prezzo dannatamente alto da pagare: la prima via conduce quasi sempre lontano dalla felicità perché, per motivi sadicamente incomprensibili ai mortali, una vita regolata dalla ragione è in antitesi con una vita comandata dal cuore.
Lo so bene io che per natura, educazione, addestramento o necessità ho costruito la mia esistenza sulla prima, sbagliando ben poco e regalandomi una realtà di una tristezza assoluta, chiusa in una gabbia di doveri nei confronti del presente, del passato e del futuro di un’entità alla quale intimamente appartengo.

<< Scii, anhhora, hottimi con la linga. Hienimi lehata e hottimi >> gorgogliavo senza poter articolare meglio le parole a causa del bavaglio.
Non mi ero resa conto che istintivamente contraevo i muscoli delle braccia stese sopra la testa e, così facendo, tiravo le corde, sollevavo di peso il bacino e mi esponevo sempre più, davanti e dietro. Disponibile ad ogni tipo di profanazione.
D’un tratto Lui raddrizzò la schiena e mi spinse le gambe ancor più verso l’alto, tanto che le ginocchia arrivarono a toccarmi le spalle. A me non venne nemmeno in mente di fare resistenza perché stavo talmente bene che… compresi cosa volesse fare quando avvertii una pressione troppo calda, dura e soprattutto nel buco sbagliato.

<< GNOOO! Hermo! >>
Quel troglodita si limitò a sghignazzare e a spingere con energia, iniziando a forzare l’invitante anello di carne.
<< Schhmettila immhediatamente! >> gorgheggiai, contraendo di scatto i muscoli delle spalle e impalandomi involontariamente di quasi un centimetro.
Lui raddrizzò la schiena sussurrando << Voglio guardarlo e godermi la tua umiliazione nei dettagli >> e continuò a spingere. Un po’ avanti e un po’ indietro, ma ogni colpo sempre più in profondità.
Lo strafulminai con gli occhi senza riuscire ad abbatterlo e per tutta risposta Lui rise << Ora scegli, bionda. Comunque vada da oggi li non sarai più vergine. Puoi sottometterti e io lo farò con dolcezza, oppure puoi resistere e ti sbragherò il culo >> Fece una pausa << Senza pietà >> sottolineò << Non so come m’infoia di più, quindi mi sento così magnanimo da permetterti di esprimere una preferenza >>
Rancoroso, sadico, vendicativo rifiuto umano.

<< Shei una luhvida mehvda >> risposi, con un raglio colmo d’orgoglio e d’idiozia, data la mia posizione tutt’altro che metaforica.
<< È la tua ultima parola? >> sibilò Lui con un colpo di reni che mi spinse dentro tutta la cappella, mi strappò un singhiozzo e mi fece scalciare come una cavalla slogandomi quasi le spalle a causa di quelle stramaledettissime corde.
<< Allora? >>
<< Gnho… Ghno, per ghiacere >> singhiozzai con gli occhi umidi di rabbia e dolore.
<< Ti sottometti? >>
Non risposi, ma invocai Archimede e mi sforzai di trasformare le pupille in altrettanti specchi ustori.
Il suo sorriso si fece subdolo, maligno: << Ti farai inculare fino in fondo, quanto e come desidero? >>
Non risposi.
Ora voleva stravincere e non mi andava giù. Lo guardai con sfida, mordendo il bavaglio di stoffa e tramando, nel profondo del mio io, crudeltà minuscole e grandi per quando mi avrebbe liberata.
Anche lui restò in silenzio, mi spinse su le cosce, lo tirò un po’ fuori e lo ricacciò con vigore dov’era prima.
Strinsi i denti, ma gli occhi erano confusi da mille scintille liquide e dorate.

Con metodicità, sempre in silenzio, Lui si ritirò un poco e subito dopo si inabissò dolorosamente, costringendomi questa volta ad incamerarlo quasi tutto dal momento che l’anello di carne aveva ceduto.
Non riuscii a trattenere un gemito e rovesciai il capo all’indietro mentre due grosse lacrime scivolavano dagli angoli degli occhi correndo sulle guance come pioggia su un parabrezza.
<< Allora? >> mormorò Lui.
<< Hi >> piansi << Hiiii! >> hai vinto, lurida carogna.
<< Quello che voglio, come voglio e quanto voglio? >>
Annuii, e masticai mentalmente che tanto l’avrebbe fatto comunque e in più mi avrebbe squartata lasciandomi legata come un capretto pasquale.
<< Ok, bestiuccia, vedo che quando ti si ficcano in testa le cose a colpi di nerchia sai anche essere ragionevole >> gongolò Lui spavaldo. Godendo all’idea che, se fossi stata libera, per quelle parole gli avrei volentieri grigliato i coglioni.
<< Ora uscirò e ti aiuterò a metterti a quattro zampe, va bene? Anche così legata vedrai che non sarà difficile >>
Annuii ancora, questa volta quasi grata che mi permettesse di cambiare posizione.

Subito avvertii le sue mani salde sui fianchi. Trassi un bel respiro ed eseguii alcune contorsioni che avrebbero provocato una tripla lombaggine ad un serpente. Mi ritrovai in una posizione ancor più assurda: quasi in piedi ma piegata in due. Non proprio a pecora, ma con le gambe dritte e parzialmente flesse, la testa vicina ginocchia, le mani vicino ai piedi. Ero rannicchiata e tesa cosicché, per non perdere l’equilibrio, dovevo appoggiare parte della schiena alla spalliera del letto mentre cosce e natiche incontravano Lui, ovviamente appollaiato a tergo. Schiacciata in quella postura totalmente in diserzione, non riuscivo quasi a muovermi e mi sentivo intrappolata come una foglia chiusa nel ghiaccio.
A sorpresa Lui prese a leccarmi il buchino, e Dio solo sa quanto ne avessi bisogno. Miagolai mentre lo lubrificava con cura, quasi con affetto, e continuai a farlo quando si alzò e mi fece sentire la punta che prendeva il posto della lingua. Più calda, più dura e meno misericordiosa. Cercai di rilassarmi e non contrarre i muscoli per rendere meno doloroso il destino al quale sapevo di dovermi rassegnare.
<< Sei pronta? >> chiese, con una musica nella voce che poteva essere solo amore.
Provai ad annuire ma non ci riuscii, allora cercai di esprimere un assenso inarticolato e mi esposi un po’ di più.

Perché mi piace tanto quella sensazione?
E perché anche a Lui piace il simmetrico?
Non lo accetterei da un altro uomo, nemmeno da mio marito che è quasi incapace di manifestare entusiasmi e la troverebbe comunque un’imbarazzante idiozia. Perché con Lui si, allora?
Quanti sbagli ho fatto nella vita?

Dato che avevo accettato di sottomettermi, la seconda volta Lui fu più dolce. Ciò nonostante avevo dolorosa coscienza di ogni millimetro violato.
Era già completamente dentro quando si insinuarò le dita tra le mie cosce e cominciarò a titillare il clitoride. Dapprima non capii cosa cercasse di fare, poi compresi che voleva attenuarmi il dolore nell’unico modo possibile per un amante. Mi dimenai un po’, perché mi sembrava una gran cazzata, ma così facendo risvegliai anche la sofferente consapevolezza di essere impalata come un tordo. Peggio, Lui fraintese il movimento. L’interpretò come un estremo tentativo di ribellione e, per ripicca, ribadì la propria autorità pompando a fondo, con la perfezione di un ginnasta svedese che si concedesse oscillazioni sempre più ampie e decise.

Credevo di morire, davvero. All’inizio credevo di morire trasformata in bambola carnale, squartata e incapace di tutto tranne d’osservare singhiozzando l’intrico di funi stile Pompidou che mi imprigionava e mi costringeva al più supino asservimento. Poi… poi, non so se da bambini avete mai lottato per far rotolare un cerchio con un bastone. All’inizio sembra che nonostante tutti i tentativi il cerchio cada sempre di lato, ma all’improvviso questo prende a rotolare senza sforzo cosciente per non cadere più. Ecco, così successe anche a me. All’improvviso le sue dita, quelle che mi erano sembrate una lussureggiante puttanata, cominciarono a fare effetto e mi scoprii bagnata. Non solo davanti, ma anche dietro. Non chiedetemi come sia fisiologicamente possibile non lo so, ma sentivo che accadeva, parola d’onore.
Lui cominciò a scivolarmi dentro e fuori allegramente. Facendomi sempre male, per carità, ma meno, ed io mi scoprii stuprata, violentata in modo innaturale, legata, scomoda, con gli occhi bagnati di lacrime… eppure così rigogliosamente femmina del mio uomo, che a ripensarci mi do veramente della cretina.

Mi venne da godere solo per quello, penso. Per il fatto di essere assolutamente sua. Perché mi desiderava ed io desideravo sopra ogni cosa il sentirmi un suo possesso.
Poco dopo anche Lui raggiunse l’orgasmo e, alle consuete esclamazioni da carrettiere, ai grugniti da maiale scannato, alle spastiche artigliate sui fianchi, aggiunse dei colpi di reni tali che sembrava volesse raggiungermi lo stomaco attraverso l’intestino.
Quando uscì mi lasciò così. Storta, legata, sostenuta solo dalla spalliera e con la sborra che usciva lentamente dal culo, gocciolando poco a poco. Istintivamente, per decenza, mi veniva da contrarre e rilassare, contrarre e rilassare. Continuamente. Perché la sensazione è molto… come dire, sgradevolmente familiare. Nel senso che ricorda come un presagio un certo sconvolgimento intestinale.

Lui ora sa, perché non gli ho mai nascosto niente, e io, a mia volta, so che è difficile accettare e che è impossibile farlo senza aver compreso.
Lui si è convinto che io non lo ami. Crede di essere solo un appendice nel mio cuore, un affetto secondario o - peggio - un giocattolo sessuale. Me l’ha fatto capire.
Perché allora sogno ogni notte le sue braccia? Perché il suo silenzio mi riversa dentro una malinconia intensa come un banco di nebbia?
Niente. Qualsiasi cosa gli dica non mi crede e fra poco la mia pancia si ingrosserà per un figlio di un altro uomo, di mio marito, e io vorrei chiamarlo come Lui, ma nemmeno questo potrò mai fare.

<< Hi prego, liherami >>
<< Solo se prometti di essere docile ancora per un po’ >>
<< Hrometto, hrometto! >>
Mi tolse il bavaglio e a me sembrò di poter respirare per la prima volta nella vita, anche se con una mandibola semi slogata.
<< Sembri un cammello >>
<< Per la gobba o per il movimento della mascella? >> mugolai ancora rannicchiata in quella posizione incredibile.
<< Entrambe >> e mi diede una pacca sul culo, ricordandomi che mi aveva spaccato anche i capillari.
<< Smettila! Smettila e slegami, che non ce la faccio più! >>
<< Docile, hai promesso >> mi ricordò, ma poi mi liberò le gambe e io crollai in ginocchio. Sciolse i nodi dalle mani ed io mi stupii a rivolgergli uno sguardo di sincera gratitudine. Aveva una guancia gonfia e rossiccia, evidentemente la tanghera che gli avevo regalato all’inizio non era niente male.
Ottimo. Mi ripromisi di considerarla una vendette preventiva e provai a distendere piano i muscoli così a lungo contratti, ma un dolore sordo s’aggiunse all’olocausto del buchino dissacrato, disputando con esso la platea dell’agrodolce tragedia che si era appena consumata.

Per il resto della giornata fui sua come Lui voleva… e cioè per quella nuova via che si era aperto dentro di me. Mi stese per terra e mi prese bocconi. Mi piegò su un tavolo e mi costrinse ad aprirmi con le mani per permettergli di profanarmi fino alla radice. Mi violò a pecora e m’impose di sedermi su di lui e di impalarmi da sola. Insomma, ho perso il conto delle volte che mi entrò e mi uscì dal culo.
Ovviamente non venne ad ogni penetrazione: in fondo il mio uomo è solo un uomo, non un satiro coi serbatoi di un superliquidator, ma, ripeto, Lui riuscì ad invadere con tale costanza la mia ultima virtù che a fine giornata, toccandomi con le dita, sentii la pelle della rosa di carne ben più morbida e cedevole. Notai inoltre che, quando Lui ne prendeva possesso, non mi provocava più le terribili fitte che mi avevano dilaniata la mattina, ma sembrava accomodarsi al suo posto. Così come le sue mani calzavano sulle mie spalle, sul ventre, sulla pancia o ovunque Lui giudicasse opportuno metterle per bloccarmi e impormelo, anche se - lo sapevamo entrambi - ormai non avrei più opposto resistenza.

Facemmo un'unica tregua, accoccolati su un divano e coperti da un plaid azzurro-verde come i suoi occhi. Ci coccolammo sorridendo e godendoci insieme il dvd di Nemo, un film d’animazione coloratissimo e geniale.
Prima di andar via, però, mi chiese di farlo un’ultima volta. Ultima davvero, più di quanto entrambi potessimo immaginare. Voleva legarmi di nuovo, come quella mattina. Supina sul letto, le braccia sopra la testa, la corda attorno alla testiera metallica e i lacci fissati intorno alle ginocchia cosicché, ogni volta che avrei provato a flettere i muscoli delle braccia, la trazione delle funi mi avrebbe accartocciata esponendo in modo indecente culo e fica.
Questa volta, però, domandò il permesso di farlo. Io accondiscesi con un sorriso ed incrociai le mani per farmele legare.

A differenza del primo round, tuttavia, decise di non imbavagliarmi. Preferì disporre diversi cuscini sotto la mia testa e mi ordinò di osservare con attenzione ogni singolo progresso della penetrazione.
Poi mi fece cenno di tirare con le braccia in modo da servirgli il suo piacere e lentamente, molto lentamente, mi inculò guardandomi in faccia. Osservando e gustandosi ogni mia espressione, ogni mia smorfia. Mi leccò le lacrime, che non so nemmeno io quanto fossero di dolore e quanto di piacere. << Baciami >> lo supplicai quando lo sentii venire e lui mi accontentò, perché in fondo mi vuole più bene di quanto riesca ad ammettere con se stesso.
Ci baciammo con passione mentre mi esondava in culo e mi regalava un caldo pizzichio insieme ad un brivido perverso di piacere. Un momento dopo potei finalmente apprezzare la sua espressione rapita dall’agrodolce imbecillità dell’amplesso ed ammirai amandola la luce della luna riflessa negli occhi, nell’aria profumata del giardino.

Ora mi evita.
Non mi parla, non mi cerca, mi risponde appena e soffre.
Soffro anch’io, perché mi manca l’aria nel sentirlo freddo e lontano. Soffro perché lo penso ogni giorno e quando appoggio la testa su un cuscino sogno che sia il suo petto. Soffro perché desidero che le sue dita si intreccino ancora con le mie, mentre tra esse c’è solamente aria e il verme del ricordo le fa contorcere nervose, a disagio.
Mi rendo conto che l’amo da morire e Lui non lo capisce o non può più accettarlo.
Morire.
Che sciocchezza.
Non si muore veramente per amore e anche se fosse non potrei permettermelo perché, come sapete, ho un ruolo e devo assolverlo fino in fondo. Prego anzi che esso gravi sulle mie spalle e solo sulle mie il più a lungo possibile. Prego che sia lontano il giorno in cui travolgerà come una calamità inarrestabile la vita della mia erede. Di mia figlia.

Quella sera dovetti correre per accompagnarlo in stazione, ma in macchina riuscimmo ad avere una profonda conversazione da innamorati, il che significa che io parlavo e Lui ascoltava.
Arrivammo al treno appena in tempo. Quel treno bastardo che ogni tanto lo accompagna da me e poi me lo porta via sempre e sempre e sempre. Perché io non posso avere Lui e soprattutto Lui non può avere me, così ad entrambi non resta che recuperare la solitudine, nostra vera compagna.

Prendo in mano i fiori di osmanto, gli ultimi della stagione, fragili, meravigliosamente delicati, così generosi nel loro incantevole profumo.
Li adoro, perché sono un simbolo nel mia famiglia e perciò il loro seme è radicato a fondo nella mia anima.
Li guardo, li aspiro, chiudo gli occhi e stringo il pugno soffocandoli nella mano. Ecco, è l’unica ribellione che mi concedo ai doveri del clan.
Un attimo dopo ho ripreso il controllo e sono al mio posto.
<< Let it be, let it be/ yeah there will be an answer, let it be >> miagola melanconica la radio. Faccio così. Lascio che sia. Seria e determinata come sempre anche se, pensando a John Lennon, so con certezza d’essere più morta di lui.


Nadja Jacur

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