Nicevò




Perdete un treno per un soffio? Nicevò.
Bevete un bicchierino di troppo, vi multano a sangue e vi ritirano pure la patente? Nicevò.
Uno spietato uragano vi spiana la villetta al mare? Nicevò.

No, “nicevò” non è una disumana bestemmia, ma un modo di dire russo che mi insegnò tanto tempo fa una cara amica osseziana. Significa “Niente. Amen. È andata così”.

Se mi è capitato di dirlo nella vita?
Hai voglia! Tante, ma tante, tante volte, anche se forse la più sentita risale ad una calda, addormentata notte d’agosto lagunare. Una notte popolata solo da sciami di omertosi chironomidi e quindi ideale per l’obiettivo che mi ero prefissa di raggiungere.

Alle tre spaccate scattò l’ora X: scivolai giù dal letto leggera e furtiva come una ballerina di Cats. Non calzai nemmeno le ciabatte, preferendo il piacevole, felino contatto del piede sulle fresca superficie di un pavimento alla veneziana.

Raccolsi l’armamentario che avevo previdentemente stivato sotto il letto e origliai il corridoio.
Tutto tranquillo: il letargico torpore della casa mi assicurava una certa libertà d’azione e mi garantiva discrete probabilità di successo.

Saltellai perciò fino al bagno con un passo aggraziato e leggiadro che avrebbe destato l’ammirazione incondizionata del leggendario Geronimo e, guadagnato l’obiettivo, mi richiusi dietro la porta… che naturalmente cigolò, traducendo il mio orgoglio apache nel pentagramma di sacramenti gospel che istintivamente associo al Wile Coyote, mio intramontabile eroe di gioventù e vittima certa di sistematica censura.

Silenzio.
Splendido, complice, melodioso silenzio.
Bene. Accesi la luce piccola, mi tolsi gli slip e mi accovacciai nella doccia con tutto l’armamentario.
E fu esattamente così che mi trovò mia sorella Alexja, tredici anni, quando spalancò la porta all’improvviso.

<< Fai la pipì in un bicchiere e dentro la doccia? >> mi chiese, con una smorfia incredula che esprimeva perfettamente ogni sorta di legittimo disgusto per quella mia insospettabile e depravata perversione.

Beccata.
Il mio cervello innescò la quarta schizzando a velocità warp, tanto che nella silente intimità del cesso mi sembrò quasi di percepire il caratteristico frullio di una ventola.
Mi brutalizzavo la fantasia alla ricerca di una via d’uscita elegante, credibile e razionale, ma vi assicuro che sarebbe stato più facile immaginarsi John Wayne in calzamaglia attillata che interpreta il Lago dei Cigni.

Dannazione, tutta colpa di Zeev!
Oddio, forse anche un po’ mia, ma è decisamente più catartico scaricare ogni responsabilità su un capro espiatorio, possibilmente assente: ti fa sentire un’innocente vittima degli eventi, un’immacolata stritolata dagli ingranaggi di un machiavellico intrigo planetario. Insomma ti fa sentire un sacco meglio: è colpa sua, tu non c’entri. Che gran bastardo!

Come? Chi era Zeev?
Forse è il caso di fare un passo indietro.

Zeev ed io siamo praticamente cresciuti insieme in quel piccolo angolo di paradiso, invidiato salotto letterario a cielo aperto, crogiolo di tolleranza e raffinato savoir faire che risponde al nome di Benai Berak…
Ok, sto scherzando: Benai Berak è un fetentuccio sobborgo di Tel Aviv con un invidiata skyline d’ispirazione sovietico-popolare e che, tra le varie fortune concesse dal Signore, può vantare una fiorente colonia di Naturei Karta [Guardiani della Città, letteralmente]: una setta di invasati provenienti dai circoli chassidici ungheresi che osserva lo shabbat con tale aggressivo oscurantismo da far sospettare fini espiatori.

Un bel paesino, in altre parole, popolato da gente amichevole, che vive ritualità eccentriche ed originali, come quello di darti della puttana se non sei vestita come un palombaro egizio anche ad agosto, oppure di lapidare la tua vettura se osi circolare nel giorno dedicato al riposo e alla preghiera, o altre cosucce così.

Ma sto divagando.
Zeev ed io, dicevo, siamo cresciuti insieme: eravamo nella stessa classe, nella stessa “banda”, abitavamo l’uno di fronte all’altra e eravamo entrambi figli di immigrati. Ci chiamavano Hàgarinim [i semi di girasole] perché quel cretino di un polacco non faceva altro che mangiare semini striati sputacchiando scorze qua e la come una mietitrebbia.

Che dire di più? Tutto e niente: io ero un maschiaccio, mi piacevano i giochi “fisici” e all’aperto. Non avevo paura di sporcarmi, di sbucciami le ginocchia o di rischiare un occhio nero se onore ed orgoglio me lo imponevano.
Last but not least, nei primi tempi, non avevo ancora delle tette tali da ispirare nei miei amichetti profonde riflessioni antropologiche, da spingerli a rasparsi furiosamente l’inguine quando giocavano a basket con me o da portarli, nei casi più disperati, a sfogare i momenti di maggior imbarazzo nella complice intimità di una toilette.

Insomma, con Zeev condivisi quell’idilliaco periodo prepuberale nel quale si è convinti che uomini e donne siano uguali, che il nostro inevitabile destino sia quello di cambiare il mondo e che Dio esista davvero e non sia neppure tanto senile.

Chiaro che per lui sviluppai un affetto sincero e fraterno… anzi da un punto di vista cameratesco mi sentivo più vicina a Zeev che a quel fragile piagnone implume di mio fratello Immanuel, più piccolo di due anni ed inevitabilmente percepito come un’imbarazzante zavorra familiare.

A tredici-quattordici anni, però, le cose tra me e Zeev cambiarono… cioè, chiariamo, non avvenne improvvisamente, non fu una metamorfosi kafkiana. Fu piuttosto una mutazione graduale, insidiosa, serpeggiante quella che trasformò l’ex-compagno di giochi nel mio gemello siamese.
Non colsi immediatamente tutte le sfumature di questo cambiamento, cioè si, la periferia del mio cervello in fase di sviluppo percepiva come vagamente inusuale la costante presenza di Zeev entro un raggio di 15 metri dalla mia persona, ma il resto dell’organo pensante non voleva approfondire la cosa.

Fu coi primi fidanzatini che non potei più ignorare quello che stava diventando “Il Problema Zeev”.
Beh, dovete sapere che io ho un certo carattere. Può piacere o meno, ma io son fatta così e non ho mai sopportato quelli che dicono/non dicono, quelli che fanno capire si, ma per mezzo di astrusi sillogismi, consequenziali deduzioni e maieutiche sedute. Io son diretta. Anche troppo, talvolta.

In breve, offrii a Zeev una limonata al bar e gli aprii gli occhi circa la mia necessità di spazio vitale, di interscambi culturali, di esplorazione di universi paralleli e così via. E no, la Polonia esulava dai miei piani di conquista: Brandeburgo e Prussia Orientale non si sarebbero incontrate a Danzica.

Col senno di poi potevo permettermi una maggior delicatezza nella scelta del succo d’agrumi, magari una bevanda al mango sarebbe stata più indicata…
Cercate di capirmi: ero giovane, certe finezze si maturano solo con età ed esperienza.

Zeev non la prese poi troppo male, tant’è vero che si consolò immergendosi nella lettura esegetica del Talmud.
Ora, concedetemi un piccolo inciso: le crisi mistiche adolescenziali sono indubbiamente un classico di tutte le culture, eppure mi è sembrato notare che colpiscano soprattutto i maschi - determinati maschi - e credo di potermi pure sbilanciare circa le possibili motivazioni che spingono questi giovani uomini a cercare Dio, il suo verbo, una spalla amica e un morbido, consolatore scialle di preghiera in un crescendo emotivo che talvolta sconfina in una vera e propria sindrome di Linus.
Comunque se ho ragione, El’Elyon [Dio Altissimo] sei in debito con me perché di zeloti te ne ho arruolati più di un paio. Vero?
Ma figurati se quello mi risponde: è di un riservato…

OK, torniamo a noi. Vi ho presentato Zeev e ho chiarito che tipo di rapporto ci legava, ora vorrei sottolineare che negli anni successivi lui restò il mio migliore amico, il più intimo. Era anche il mio confidente, il passepartout intellettuale che mi apriva una finestra privilegiata sul rustico mondo della mentalità maschile. Era tutto questo e nient’altro: condividevamo gioie, tristezze, scherzi e non di rado cesso, cibo e bicchiere. Più intimo di così c’è solo il matrimonio.

Sic stantibus rebus, quando i miei presero la decisione di ritornare in Italia, mi sembrò naturale scegliere le spalle di Zeev per avere un sostegno su cui sfogarmi.
Già, non avevo nessuna voglia di lasciare il Paese, e al solo pensarci mi sentivo un pochino incazzata e molto triste, dove “molto triste” non rende precisamente il mio stato d’animo di allora.

Avevo appena terminato il servizio militare (esperienza che mi ha lasciato molto) e contestualmente era finita la guerra non dichiarata che aveva visto la mia città, Tel Aviv, bersaglio degli scud irakeni.
Era un periodo nel quale mi sentivo particolarmente legata al mio Paese ed era anche il periodo in cui dovevo lasciarlo. E non per un anno o due, ma probabilmente per sempre.
Mi sentivo esule, sradicata… un po’ la sensazione che avevo provato a sei anni, quando ero arrivata in Israele. Solo che a sei anni è una cosa, a ventuno, invece, lasciarsi tutto alle spalle è decisamente più duro.
Si può definire “molto triste” lo stato d’animo di un esule?
Non so, so solo che mi sentivo moralmente a pezzi.

Nonostante l’indubbio aiuto fornitogli dai testi sacri, Zeev a volte sembrava più prostrato di me: come tanti anni prima c’erano fatti ed emozioni che ci accomunavano, così decidemmo di passare insieme l’ultima settimana, spalla a spalla, come quando eravamo ragazzini.
Andammo al mare, al cinema, nei locali da ballo, insomma furono sette giorni spensierati, passati in compagnia di una persona davvero speciale che mi conosceva e mi capiva come poche altre al mondo.
Vivemmo come due fidanzati, come due amanti, senza scambiarci mai nemmeno un bacio.

Inevitabilmente arrivò la vigilia della partenza e con essa, mentre tornavamo a casa, piombò su di noi una cappa di silenzio tenace come l’unto di un arrosto e fastidioso come un singhiozzo che non se ne vuole uscire.
Fu Zeev a romperlo: accelerò il passo, mi si parò davanti e, seviziandosi nervosamente le mani, disse più o meno:
<< Nad, devo dirti una cosa >>
<< Tagìd li [Dimmi] >> risposi.
<< Nad, io… io ti voglio bene.
Te l’ho sempre voluto e tu lo sai, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo come sto facendo ora.
Ti voglio bene e vorrei che domani non arrivasse mai.
Ti voglio bene.
Ecco tutto >>

Era un discorso molto sabra, di una lunghezza insospettata per Zeev, e articolato persino. Conoscendolo, doveva essergli costato uno sforzo espressivo immane. Ero commossa.
Gli presi le mani tra le mie, abbassai lo sguardo e quando lo rialzai lo stavo già baciando.
Fu uno slancio istintivo, irrazionale. Se mi fossi fermata a riflettere non l’avrei mai fatto, non avrei mai baciato in quel modo mio “fratello”.

S’irrigidì il povero, confuso Zeev prima di abbracciarmi. Allora gli sorrisi e piegai leggermente la testa di lato, esprimendo un muto interrogativo e indicando allo stesso tempo un vicoletto.
Sapevamo entrambi dove portava: al parco del quartiere, il parco dove giocavamo insieme tanti anni prima, il nostro regno infantile.

<< Ti va di sederci sul prato? >> chiesi.
<< Mmmm, sarà umido… massì, dai, chissenefrega! >>
<< Ehi, Zeev, non mi sarai mica diventato un signorino da Kochav Yair? (lussuoso quartiere di Tel Aviv, profondamente disprezzato da noi rudi di Benai Berak) >>
<< No, ma… merda, mi sono già bagnato il culo! >>
<< Aspetta, rimedio io >> e lo schiantai supino, dando vita ad un gioco vecchio come il mondo, in cui tra rotolamenti, scherzi e finte lotte, si finisce quasi inevitabilmente per amoreggiare.

Non si vedeva una beneamata mazza, alla romantica luce delle stelle, perciò mi orientavo col tatto e mi piaceva sentire vicino a me il suo odore gradevole e familiare.
Presi a sbottonargli lentamente la camicia, a scoprirgli busto e spalle, mentre ero girata di lato, con un gomito piantato a terra e la testa poggiata sul palmo della mano

Lo sfiorai un po’ con le dita: era umido di rugiada. Allora mi avvicinai e cominciai a leccargliela via. Dal collo al petto. Dalle spalle ai fianchi. Godendo dei brividini che gli provocavo.
Lo baciai, anche, passandogli con la lingua il sapore liquido e dolce dell’erba appena tagliata, e scesi più giù, facendogli un giochino che, col senno di poi, non doveva aver mai sperimentato.

Evidentemente risvegliai in lui qualche istinto primordiale, qualche pulsione animalesca faticosamente quanto inutilmente castrata dalla lettura del Talmud. Zeev, infatti, prese niente popò di meno che l’iniziativa. Rotolò fino a mettersi cavalcioni su di me, mi agguantò le mani e me le portò entrambe sopra la testa. Le calcò un paio di volte sul prato, come a fissare i paletti di una tenda (è sempre stato un tipo metodico), ma lo fece con dolcezza, quasi volesse dire:
<< Tienile così, bevakashà [per favore]>>

Solo allora si cimentò nell’affannosa impresa di sbottonarmi la camicetta per arrivare alla pelle, per farmi sentire il tepore delle sue labbra su fianchi e seno. Non doveva aver grande pratica, no, decisamente. Dovetti persino informarlo che poteva stringere i capezzoli con le dita e che non mi offendevo se ci soffiava sopra e poi li mordicchiava, anche forte.

Diciamo che il suo pregio consisteva nel fatto che, una volta instradato, Zeev sapeva procedere autonomamente ed imparava in fretta, compensando l’inesperienza con una passionalità veramente fuori dal comune. Un talento naturale, insomma.

Mi prese senza mai smettere di succhiarmi il seno (e chi lo staccava più, adesso?) e quando venne non lo lasciai uscire, ma gli arpionai le natiche e me lo spinsi dentro con forza. Poi gli chiesi, sorridendo maliziosamente con gli occhi:
<< Rotzè od? [Ne vuoi ancora?] >>

Non aspettai la sua risposta, ma alzai le braccia, mi arresi come avevo capito che gli piaceva, e cominciai a disegnare piccoli cerchi col bacino, a contrarre piano i muscoletti interni… ormai sapevo come muovermi per dar piacere ad un uomo, ne avevo fatta di strada dai tempi della limonata.

Mi lasciai completamente andare, un pochino perché sentivo di dovere qualcosa a Zeev e alla sua dedizione, molto di più perché mi piaceva. Mi piaceva eccome!
Non me ne fregava nulla che qualcuno ci vedesse. Anche i Naturei Karta: che andassero a farsi benedire, loro e tutti gli assurdi integralismi. Che mi chiamassero puttana, se volevano, che mi insultassero. Ormai non aveva più importanza. Sapevo che non sarei mai più tornata a Benai Berak e lo sapeva anche Zeev, il mio seme di girasole, che quella notte superò ogni mia più rosea e lussuriosa aspettativa. In tutti i sensi.

E pensare che io non mi sarei mai sognata di prendere in considerazione Zeev come possibile partner. Sia per i motivi che ho spiegato sopra, sia perché non era, come dire… bello. Nemmeno carino…
Diciamocela tutta, Zeev era quasi un cesso. Con ogni probabilità era il ragazzo meno attraente col quale avessi mai fatto l’amore, eppure… eppure quando gli dissi addio, poche ore dopo, all’aeroporto, avevo un nodo in gola che non era dovuto solo all’affetto fraterno.
Mi sentivo come una che ha appena scoperto una svendita strepitosa, ma con un giorno di ritardo.
È frustrante, ve l’assicuro.

Ci sono volute circa 24 ore perché quello stato di triste amarezza mutasse improvvisamente in panico incontrollato: 24 ore, infatti, ci misi per realizzare che nella nostra notte brava né io né lui avevamo usato precauzioni.

Naturalmente dominai la situazione in modo freddo e razionale: mi lavai quaranta volte nell’arco di un’ora e presi ripetutamente a testate l’innocente muro del bagno, trasformando il metro quadro di piastrelle antistante al bidet in una succursale veneziana del muro del pianto.

Ma questi riti scaramantici, si sa, lasciano il tempo che trovano oltre ad un leggero mal di testa, perciò, dopo alcuni giorni, mi rassegnai all’ineluttabilità del fato e mi recai segretamente in farmacia ad acquistare un test di gravidanza.

Ecco perché quella notte, invece del consueto raid nel frigo, mi ero rifugiata in bagno, armata di un grosso bicchiere di plastica e del mio magico kit… ma potevo spiegare tutto ciò a mia sorella tredicenne? Potevo svelarle in modo così crudo i misteri della vita e della morte, gli ingannevoli trabocchetti del sesso, l’effetto montagna russa di una scopata irresponsabile? Dico, era morale farlo? Poteva servirle da insegnamento? Si, mi risposi. Decisamente si.

Ma all’atto partico preferii una soluzione più tradizionale: << Alexja se non fili immediatamente a letto non ti presto più i miei orecchini azzurri, non ti proteggo da Immanuel quando fa il cretino e inoltre, se solo ti azzardi a fiatare, ti strangolo con quella >> sentenziai, indicando la catena del cesso giustiziera.

Alexja si volatilizzò in un batter d’occhio.
(Bimba sveglia, mia sorella).

Per sicurezza attesi qualche secondo, poi presi tra pollice ed indice la cartina tornasole. L’immersi e pensai ancora una volta a Zeev, il mio caro, introverso, stupido polacco.
Niente. Amen Era andata così.

Nicevò.


Nadja Jacur

Pagina principale