Scalo a Bangkok




<< Firmi il contratto >> dicevano
<< È un lavoro tranquillo >> dicevano.
<< Non girerà il mondo >>,dicevano.
<< Si faccia servire >> dicevano. (E qui, se ai tempi fossi stata più scafata, avrebbe dovuto balenarmi il sospetto).


Ma non lo ero. E infatti eccomi la, incastrata come un incidentato tra le lamiere: due meeting in 3 giorni, uno a Sydney e l’altro a Canberra.
Devo ammettere, però, che non mi dispiaceva. Era la prima volta che migravo agli antipodi e si trattava di un caso un po’ particolare: l’ultimo atto di un lavoro che aveva visto impegnato il team per quasi due anni, l’atto più piacevole, quello in cui si assapora la gloria.

Così incassai le pacche sulle spalle dei ragazzi, mi preparai una valigetta spartana e mi imbarcai per la trasvolata su un possente mezzo Alitalia. C’est à dire, un bel Savoia-Marchetti SM79 mascherato da Boeing 747. 26 ore di volo, scalo a Bombay, Bangkok e Singapore.
Nadja “Balbo” Jacur, nello splendore dei settanta millimetri, nella magia del technicolor.

L’eroico aviomezzo veleggiò fedele fino a Bangkok, ma li, inspiegabilmente, iniziò a tentennare: rullava, fischiava, fumava, singhiozzava come una caffettiera, ma non voleva saperne di decollare. Tra le feroci bestemmie dei clienti e l’imbarazzata premura del personale di bordo, la compagnia decise di posticipare la partenza di 24 ore e si impegnò a trovarci una sistemazione decorosa in un coloratissimo hotel locale, pascolo prediletto dei passeggeri in transito.
Una vacanza imprevista. Beh, poteva andarmi peggio. Potevo ammarare avventurosamente nel Golfo del Bengala, potevamo trasformarci in una palla di fuoco sui cieli della Nuova Caledonia o potevo semplicemente avere per compagno di viaggio quel tragico cretino di Silvano, il mio collega, che però, fortunatamente, ha paura di volare. (Pare, infatti, sia letteralmente terrorizzato dalla leggenda metropolitana che vuole determinati voli minacciati da una misteriosa ed imprendibile strangolatrice di tragici cretini).

Fatto buon viso a cattivo gioco e mollato il trolley in hotel, decisi di sfruttare al meglio la giornata e di visitare la città. Prendere un taxi vero, nel senso europeo del termine, per insinuarsi nel babelico caos di Bangkok vuol dire condannarsi ad ore di imbottigliamento ermetico, perciò optai per la versione tecnologica del risciò: una specie di ape-car con lussuoso vano posteriore stipa-passeggeri.
Il conducente si chiamava Lamei, un ometto sulla quarantina, penosamente convinto di saper parlare inglese e chissà, forse era pure vero, se solo le parole fossero riuscite ad uscirgli dal naso, facendosi strada, magari, attraverso la laringe. So che morirò senza aver risolto il dilemma e vi prego di credermi se vi assicuro che tale consapevolezza mi deprime.

Bangkok è una città strana, combina angoli di prorompente e futuristica modernità con aree da Tonkino coloniale. Mi sporsi in avanti e, gesticolando come un babbuino, riuscii ad esprimere al conducente l’imprevedibile interrogativo: << Che mete turistiche ci sono a Bangkok? >>.
In un primo momento sospettai che l’ometto non avesse capito una parola perché mi guardò con lo stesso sguardo magnetico e fascinoso di un’orata bollita.
Poi – improvvisamente – spalancò gli occhi ad un diametro impossibile ed esclamò << Aaaahhhhh! >>
Ebbi un sussulto e mi scappò: << Olè, c’è vita su Marte >>.
Al che mi sorrise di sbieco, con l’occhio a mezz’asta di chi la sa lunga, ed ammiccò: << Il quartiere zac-bum-bum! >> (o qualche sillaba analoga).
Fu in quel preciso momento che il precedente sospetto si trasformò in dogmatica certezza.

<< No >> risposi << ragazzo caro, intendo cose da vedere, cose belle. Capito? >>. Si lo so che usavo un linguaggio elementare, ma anche Robinson Crusoe non citava Shakespeare per comunicare con Venerdì.
<< Si, si, belle, belle >> fece eco lui << Vedere. Toccare. Tu dire, loro fare >>
<< Ma porca troia >> sbottai in italiano << and something else? >>
<< Altro? Si, certo. Mangiare, massaggi, bagno termale e… >>
<< STOP >>. Le magiche parole massaggi & bagno termale hanno sempre avuto un potere quasi ipnotico sulla mia persona, soprattutto se sono stanca morta e ho un cavolo di jet lag sulle spalle. << Spiega un po’, caro, funzionano per caso come delle beauty farm? Cioè, io entro, mi faccio un bagno, qualche massaggio rilassante e via sul tema. V.O.L.E.N.D.O.? >>
<< Si, se tu vuole quello, si. Mangi anche qualche dolcetto, se vuole. >>
<< Ah beh, allora, se ci sono anche i dolcetti… potevi dirlo subito, no? >> e la sua sincera contrizione mi convinse che il ragazzo fosse totalmente impermeabile al sarcasmo. D’altra parte ogni paese ha i suoi Silvani. << Ok, Lamei, mi hai convinta. Portami in un locale pulito, per cortesia e aspettami. Ti do 10 $ di mancia subito e altri 10 quando esco, mi fido del tuo gusto, non mi deludere >>. Al che mi ricambiò con un’occhiata di vera gratitudine, roba da spezzarti il cuore.
Che volete, bisogna incoraggiarli, ‘sti guaglioni. È il segreto segretissimo dei manager.

In una mezz’oretta di gimcane selvagge e mascolini strombazzamenti multitonali arrivammo alla meta. Il locale non era malvagio, non troppo vistoso all’esterno e con un suo gusto all’interno.
Entrai e chiesi alla padrona nell’ordine: una sauna, un bel massaggio ed un bagno rinfrescante.
Era gentilissima, quasi eccessiva, come spesso capita in oriente. Mi spogliai di jeans, T-shirt, biancheria ed entrai nella sauna. La stanza era relativamente ampia, in legno, con un corridoietto di ciotoli grigi che correva lungo le pareti e nascondeva probabilmente i bocchettoni del vapore. Restai li finché non ne potevo più e poi mi fiondai a rinfrescarmi con dell’acqua fresca. Operazione Tempratura, come dice quella fanatica di mia sorella. Capezzoli di Pietra, come dice quel maniaco selvatico di mio fratello.

A quel punto mi distesi bocconi su una specie di bassa panchetta in legno chiaro e quasi immediatamente mi raggiunse una ragazza che iniziò a sciogliermi i muscoli delle spalle con tocco energico ma delicato. Divino.
Cominciai così ad interrogarmi sui grandi misteri della vita, del tipo “Come mai tanti maschi non sanno farlo?” Moltiplicherebbero i loro successi sessuali, veramente. Con il sapiente tocco di palmi e polpastrelli piegherebbero anche la più frigida valkiria come alcune aziende poolmeccaniche asseriscono di piegare l’acciaio. Una riforma scolastica seria dovrebbe tener presente certe discipline fondamentali (pare che massaggiare la propria partner sviluppi incredibilmente le facoltà mentali degli uomini. Einstein aveva cominciato cosi, massaggiando la cagnetta di casa). Una materia obbligatoria con rigidissimi esami finali e draconiane misure coercitive per chi non si applica. Al posto dell’ora di religione, magari… sai come sarebbe contento il mio rabbi?

Dopo qualche minuto sentii altre due mani che mi toccavano polpacci e caviglie. Aprii mezzo occhio e traguardai, in onirico relax, una seconda ragazza che aiutava la prima. Mi accorsi anche che erano entrambe nude, ma chi se ne frega? Normale in un posto del genere, mi dissi, e le lasciai fare.
Le mani della prima correvano lentamente lungo i muscoli del collo, poi scivolavano sulle spalle, sulle braccia e di nuovo alla base del collo, lungo la spina dorsale premendo dolcemente su ogni vertebra. La seconda, nel frattempo, lavorava sui polpacci, risaliva sulle cosce, sui fianchi e poi di nuovo giù, lungo la linea che segna lo stacco delle natiche e… Dio mio era paradisiaco. Se in quel momento una deflagrazione nucleare avesse vaporizzato l’orizzonte, credo che mi sarei girata dall’altra parte e mi sarei addormentata con uno sbadiglio.

Tali erano le mie facoltà mentali, dunque, quando avvertii una sensazione nuova, una sensazione come di seta, un qualcosa di fresco ed impalpabile che mi sfiorava in un punto ben preciso. Ci misi un po’ a realizzare ciò che sta succedendo: la seconda ragazza mi stava soffiando piano sulle parti intime. Confesso di essermi risvegliata subito dal mio torpore, ma preferii restare immobile e il freddo, tattico ingegnere che alberga abusivamente in me registrò “Mica male questa, me la devo rivendere”. Così mi rilassai di nuovo e quando, poco dopo, sentii il prevedibile contatto con qualcosa di più consistente ed umido, avevo ormai dispoticamente soggiogato le mie inibizioni con un autorevole e lapidario “perché no?”
Non ero mai stata con una donna prima e la cosa non mi ha mai incuriosita particolarmente, ma – col senno di poi – in quel momento non percepivo la cosa come un atto sessuale vero e proprio, bensì come una specie di prosecuzione dei massaggi. Si, lo so, sembra una laida scusa ma provate voi a farvi massaggiare per mezz’ora con un jet lag infinito sul groppone e poi vediamo se siete ancora del tutto razionali.

Ma torniamo insieme nel locale, volete? Dunque, restando bocconi decisi di allargare un po’ le cosce, in modo da facilitare l’opera di quella che con ogni fibra del mio essere mi sforzavo di immaginare come una fisioterapista. La cosa, inspiegabilmente, dovette sembrare una specie di segnale perché anche la prima ragazza, quella che mi stava massaggiando spalle e schiena, cominciò a leccarmi la base del collo con la punta della lingua e a scendere giù lungo la colonna vertebrale, coi lunghi capelli d’ebano che mi accarezzavano la pelle come vellutate crine di cavallo.
In condizioni del genere, voi comprenderete se confesso di essere passata in pochi minuti dal sonnolento relax ad un’eccitazione scimmiesca. Così mi sono messa a sedere e, mentre la prima ragazza mi aiutava anche in queste operazioni elementari, la seconda seguiva i miei movimenti con la fluidità di una nereide, di una ninfa marina, che si dondola tra le onde aggrappata ad uno scoglio.
Mi resi conto che l’io razionale aveva supinamente capitolato al cospetto di quella più istintiva, così mi sedetti sul bordo della panchetta, allargai le cosce scoprendomi e offrii seno e viso. Li regalai ai baci e alle liquide attenzioni della prima ragazza.
Francamente non ricordo esattamente cosa fecero, ne’ ricordo quando una delle due iniziò ad usare le dita, quante ne usò. Dove. Era delicatissima, lenta ed inesorabile. Aveva una dote artistica nel far montare il piacere come uno chef fa con la panna. Nel berlo avidamente.

È facile in questi casi perdere la cognizione del tempo e non saprei proprio dire quanto ne fosse passato quando la tendina di perline di legno, che fungeva al contempo da uscio e da separè, si scostò e lasciò passare un uomo sulla trentina. Un europeo non molto altro, con capelli biondi, mossi, ed uno sguardo da leprotto famelico che tradiva un’emotività intensa.
Immediatamente una delle due ragazze lo fece accomodare in un’ampia pozza curiosamente chiamata “piscinetta” ed iniziò ad occuparsi di lui… beh, non che ci fosse molto da fare, era chiaro che il ragazzo fosse già in fregola come un coniglio alpha nella stagione degli amori. Chissà da quanto tempo non aveva un rapporto, sembrava pronto a scoparsi una pecora… forse stava andando in Nuova Zelanda.

Onestamente non so se in altre circostanze lo avrei degnato di un secondo sguardo, ma in quel particolare frangente, con tutto il training propedeutico che il mio corpo aveva subito, sentivo un imperativo bisogno di maschio. Esigenza normalissima, il fottere, come il bere, il dormire, lo sputtanarsi la paga al poligono di tiro. Insomma, giusto per chiarire la tragicità della mia condizione, ero ridotta così male che mi sarei scopata persino mio fratello.
Perciò scostai con dolcezza la ragazza che stava con me e mi avvicinai al biondino di spalle, leccandogli piano la schiena proprio come l’avevano leccata prima a me. (Imparo velocemente. Una cosa che ho appreso nell’esercito).

Lui grugnì di piacevole sorpresa, come un qualunque altro cinghiale nei medesimi frangenti. Non era però solo merito mio: la ragazza che l’aveva manipolato fino ad allora, aveva la testa quasi completamente immersa nella bassa acquetta della pozza e si stava prodigando in piccoli virtuosismi d’apnea che avrebbero sbalordito un pescatore di perle samoano.
Aspettai il momento opportuno per colpire e questo puntualmente mi si offrì non appena la mia preda cercò di girare la testa. A quel punto gli feci correre la lingua lungo il collo, attraverso la guancia fino ad intercettare le labbra.
Preso!
Anche lui si difese e allungò una mano per toccarmi mentre la seconda mi artigliava polipescamente un seno. Diamine, era ovunque! Cominciavo a capire come doveva sentirsi il Laocoonte.
Estrasse le dita e me le strisciò sul ventre portandosele porcellescamente alla bocca, le leccò e mi disse in un inglese dal forte accento tedesco << Sei già bagnata, troietta >>.
E mentre io pensavo “Si, a tua sorella, puttaniere” aggiunse stupito << ma… ma… ma tu non sei tailandese >>. Perché a Watson non sfuggiva nulla, ma proprio nulla nulla.
<< Mio padre era francese >> mentii velocemente.
<< Vive la Colonie du Tonkino! >> sbottò lui, raggiante, con travolgente humor teutonico ed un accento se possibile peggiore del precedente.
<< Taci e fottimi, coglione >> gli sibilai in ebraico, ma sorridendo.
<< Prego? >>
<< Sconcezze Thai >> ammiccai e ne approfittai per sgusciare su di lui e mettermi a cavalcioni, Lady Godiva mode. Non riuscii però a completare la mia brillante ad astuta manovra perché mi fermò e mi spostò bruscamente con asburgica arroganza
<< No. Così non mi piace. Girati… Ecco, mettiti così, girata, sul bordo della piscinetta. Su! Hop! >>.
E mi diede una pacca sul sedere… ecco, io penso che in condizioni normali gli avrei strappato le palle a crudo con un'unica, saettante mossa di krav-maga e con lo scroto ci avrei fatto un portamonete, ma in quel momento, non so perché, trovavo più eccitante stare al gioco.

Mi misi come voleva lui, porgendo, e sentii le mani di una delle ragazze che mi bloccavano aprendomi. Ma il bastardo si fece aspettare, forse mi guardava, non so, non volevo dargli la soddisfazione di voltarmi.
Poi, ad un tratto lo sentii. Sentii una zampata ursina alla base della schiena, sentii che mi premeva rozzamente sul tavolato di legno. E poi lui, senza un minimo di delicatezza. Alzai la testa di scatto, come il rinculo di una fucilata, e lui ne approfittò per agguantarmi i capelli e tendermi la schiena come un’arco. Subito una delle due ragazze fu davanti a me e mi prese il volto tra le mani e cominciò a baciarmi, a leccarmi a sussurrarmi qualcosa all’orecchio, come fossi una bambina… se volevo gridare, gemere, dire qualcosa non potevo, perché c’era la sua lingua di mezzo. OK. Era questo il gioco. Mi andava bene. Lei era uno strano mix tra una padrona, un’amante e una schiava, che mi vendeva, cerca di anticipare ogni mio desiderio e mi faceva godere mentre quel caprone biondo si sfogava.
Ad un tratto lui si bloccò, eruttò un gorgheggio spoetizzante nel massimo di espressività melodica che si può pretendere dalla lingua della Ruhr, e mi si stappò dentro come un Voeve Cliquot d’annata. Sarà durato in tutto sui 18 secondi, ma intensi, ci tengo a precisarlo. Una blitzkrieg in perfetto stile germanico. Fortunatamente furono sufficienti, ma solo grazie alla precedente maestria delle ragazze, anche questo ci tengo a precisarlo.
Quando mi girai lo trovai stravolto mentre cercava di issarsi fuori dalla piscinetta strisciando come un grande invalido o come uno wombat crudelmente sciancato, tra i suoi grugniti soffocati e le premurose cure di una ragazza.

Io rimansi ancora un po’ a cullarmi nell’acqua. Mi lasciai lavare, asciugare e profumare, poi mi presentai dalla padrona per saldare il conto.
<< Ma signora >> si sorprese << ha già pagato suo marito >>
<< Prego? >>
<< Si, quell’uomo che l’ha raggiunta, ha dato la sua VISA, ha detto qualcosa come “Pago tutto. Tutto” ed io ho capito che saldava anche il suo conto. Poi è schizzato via come fanno spesso gli europei >>.
<< Ha capito benissimo, signora. Si è trattenuta anche una generosa mancia extra per le ragazze? >> e nel dirlo enfatizzai molto il termine extra, con quell’inflessione particolare che ho imparato a Venezia, città di grandi flussi turistici e raffinate sole.
<< Naturalmente >> fece lei, con un occhiata complice che avrebbe inorgoglito uno strozzino svizzero.
Pollastro.

Due giorni dopo, grazie all’intrepida Ala Littoria, al risorto trimotore travestito da jet, ero finalmente a Sydney.
Un sobrio tailleur celestino, scarpe a mezzo tacco, i capelli ordinati in una treccia curata. L’iperbole della più grigia praticità.
Entrai in un palazzone di vetro vanto della skyline locale e un’impiegata vestita come la sorella maggiore di Julie Andrews mi guidò nella stanza hi-tech deputata alle riunioni extracontinentali. L’ambiente era già popolato da una ventina di ometti di età variabile, incravattati ed azzimati.
Mr Hornet, il Boss, mi venne incontro sorridendo, mi strinse calorosamente la mano e mi introdusse subito nel gruppo.
<< Oh, finalmente! L’Ingegner Jacur, dall’Italia, responsabile del progetto Sea Sickness, in collaborazione con la RAN! >> (Royal Australian Ship N.d.a.).
Ebbi cura di presentarmi a tutti i convenuti personalmente, e così mi trovai davanti una chioma bionda, riccia, un po’ bassina. Nervosa e pietrificata. Non mi guardò come se fossi una persona normale, bensì come si guarda una levatrice o un’artista, qualcuno, insomma, la cui vista sia di norma trascendentale.
Gli strinsi la mano con seriosa professionalità << How do you do >> come se non lo conoscessi minimamente, ma sottovoce gli sussurrai << Spero che almeno sul lavoro non sia precipitoso come un coniglietto >>.
Non ho la più pallida idea di cosa abbia tentato di farfugliare, il tedesco.
Mi ero già voltata.


Nadja Jacur

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