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Quando ero piccola tutti mi scherzavano perché avevo le gambe lunghe e sproporzionate. I compagni di giochi, per esempio, mi chiamavano fenicottero ubriaco ed era veramente una crudeltà gratuita, ingiusta, efferata. Ero una bimba fragile e sensibile, in fondo. Potete ben immaginare quanto mi ferisse questo farmi sentire diversa. Deforme.
Cioè, nei momenti di più amara prostrazione sono giunta addirittura a studiare un modo per riaprigli le fontanelle, a quegli insensibili mangiamerda, e allo scopo vagheggiavo un uso improprio delle palette da spiaggia. Anche se alla fine ho desistito, tutto ciò serve a descrivere il baratro di depressione a cui m’ero avvicinata.
Poi, si sa come vanno certe cose: si cresce, si matura e soprattutto si guarda il mondo con un’ottica meno superficiale. Difatti a diciott’anni, quasi inspiegabilmente, un metro e settantacinque centimetri d’altezza e uno stacco di coscia da fenicottero non incontravano più la medesima disapprovazione di un tempo.
Io stessa, in seguito alle cure parentali della nonna psicologa, smisi di vergognarmene ed iniziai ad utilizzare quel curioso handicap per ottenere vantaggi insospettati. Nell’atletica, per esempio. Salto in alto, corsa, basket e seduzione di maschi.
Riguardo a quest’ultimo sport, grazie al cielo, le gambe non sono mai state l’unica arma a mia disposizione: c’erano anche tette, culo, ampiezza di vedute e soprattutto la capacità innata di vomitare un uragano di bugie al minuto secondo. Una sacrosanta necessità, data la testa d’amolo che mi ritrovo.
Comunque sia, come sparaballe ho sempre posseduto un talento strepitoso e anche per quest’eredità pare si debba ringraziare nonnina. Lei ha fornito la componente genetica che in seguito è stata plasmata da un insospettabile: non Matha Hari, non Salomè dai sette veli ma nientepopò di meno che il severo e prussianissimo Carl Von Clausevitz.
Sul serio, non sto scherzando. Avete mai sentito il detto ‘in amore come in guerra’? Ecco, Clausevitz scrisse che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, perciò, per la proprietà transitiva, l’amore è politica e il suo strumento principe è un’alluvione di balle. Colta la liaison, è bastato seguire appassionatamente le tribune elettorali e studiare le successive giustificazioni.
Elementare, no? E funziona! Anzi, a mio avviso l’equipollenza amore/politica è una verità postulabile… almeno finché per amore si intende solo sesso, altrimenti il ragionamento va a puttane. Per fortuna fino ai trent’anni, e quindi anche nel corso della storia che sto per narrare, percepivo i due termini come perfetti sinonimi.
Ma questa è solo filosofia. Entriamo nel vivo, nel pratico. Credo di aver raggiunto l’apogeo della bugiardaggine durante l’università. Al terzo anno, per la precisione, quando m’ero invaghita d’uno studente di architettura bello come un antico dio germanico e vispo come un suo moderno seguace.
Lui si chiamava Orazio (bel nome, Orazio. Altisonante, maschio, al polonio. Certo da bambino dev’essere stato un calvario, ma dopo… Orazio. Ne valeva la pena).
Fisicamente, come potrei descriverlo?
Sembrava Thor, un principe del Valhalla: un monumento normanno di un metro e novanta con spalle da carro armato e capelli color del grano, lunghi come quelli di uno degli Europe ma pettinati. In sintesi Orazio non aveva una cippa dell’angelo biondo, ma in compenso aveva tutto del predatore vichingo ed io avrei dato un braccio per farmi legare ad un banco di voga con lui dietro.
Sfortunatamente non ero l’unica ad ambire a tale posizione.
Le altre concorrenti, però, sognavano un idillio romantico mentre io non mi illudevo che Orazio fosse l’uomo della mia vita perché l’avevo sentito parlare.
Volevo solo spompinarlo a morte e farmi usare come un cagna, finché durava e piaceva ad entrambi. Poi ci si sarebbe mandati cordialmente a fare in culo e ognuno per la sua strada. Ero giovane, in fondo, curiosa, e credevo nell’emoscambio.
Visto l’affollamento, era evidente che dovevo muovermi con astuzia. Studiare la preda, assimilarne abitudini e passioni. In altri termini, dovevo ravanare nelle sue immondizie come fanno in veri detective dei telefilm americani.
Lo feci: avvicinai alcune ragazze che si diceva avessero avuto una relazione con Orazio e drenai informazioni che neanche James Bond.
La più utile tra loro fu Silvia-Cuorinfranto, una sconsolata scopata e poi gaiamente piantata per un’altra. La poverina era disperata e continuava a ripetere che lei l’amava, che non poteva credere che finisse a quel modo, che era certa che lui sarebbe tornato perché in fondo aveva un cuore d’oro e giù di questo tono. In inglese quelle così si chiamano hopeless.
Per una settimana intera diventai la migliore amica di Cuorinfranto. Neanche a dirlo, infatti, anch’io amavo perdutamente un uomo che non mi meritava, e tra compagne di sventura ci si conforta e ci si consola e ci si racconta ogni cosa.
Furono sette giorni di inferno puro: le ovaie bonificate col napalm, perché rare volte nella vita ho incontrato una persona più insulsa di Cuorinfranto. Non so come ho fatto a resistere. Evidentemente avevo una determinazione che l’età m’ha rubato.
Il sacrificio, però, mi permise di tracciare un identikit soddisfacente di Orazio: era un bel ragazzo perfettamente conscio del suo stato. Era pieno di sé, viziato, spavaldo e non accettava di sentirsi inferiore in nulla e a nessuno, soprattutto se quel nessuno era la tizia con cui scopava. Questo era un punto cruciale. Appena si sentiva in difficoltà, un comprensibilissimo meccanismo d’autodifesa faceva scattare il rifiuto e la fuga.
In sintesi Orazio era bello ma insicuro e piuttosto coglione, dettaglio peraltro confermato da risultati universitari non proprio esaltati: da più di un anno s’era spiaggiato su Analisi Matematica I e non dava ancora segnali di disincaglio.
Il lunedì successivo mi preparai per l’Operazione Valkiria: camicetta a maniche corte non troppo scollata. Minigonna a metà coscia, non eccessiva ma adatta ad un buon gioco di scivolio. Gambe nude e morbidi stivali scamosciati alti fino al ginocchio. Insomma, volevo apparire accessibile senza sembrare una che la da via panoramicamente.
Come luogo dell’agguato scelsi un terreno neutrale, la biblioteca. Scioccamente decisi che per resto avrei improvvisato.
Non fu difficile avvicinare Orazio: per pura distrazione uno dei miei libri più voluminosi rovinò ai suoi piedi e, mentre lui si girava per strafulminare lo spastico ritardato responsabile del casino, io mi piegavo lentamente sulle caviglie, prostrata ed eretta al tempo stesso.
Feci scivolare le gambe di sbieco e lasciai che, fatalmente, la minigonna si ritirasse dalle cosce come un’onda di marea. Poi raccolsi il libro e allungai lo sguardo verde acqua da sotto in su.
Succube, innocente e schiavo.
Subito mi morsi il labbro con imbarazzata delicatezza, quasi con vergogna, ed iniziai a riguadagnare statura.
Man mano che salivo, gli occhi, che per un istante erano stati sconci ed impudichi, si abbassavano timidi e sfuggenti. Contemporaneamente, la mano destra si stendeva sulla gonna come a ricomporne la decenza e non certo per rallentare o regolare l’implacabile calata di un sipario.
Finalmente in piedi, portai il libro al ventre, parafrasi d’uno scudo ad una proposta oscena che nessuno s’era sognato di proferire, e con assoluta soggezione mormorai “Scusa”.
“Per carità” esplose lui “son cose che capitano!”
Certo, tutti ti smaltano libri nelle orecchie come se fossero schioppettate. Lo fanno ogni cinque minuti, è una disciplina olimpica ormai. “Sai, questi libri son così voluminosi. Pesanti. Ostici…” miagolai.
Nella foga dell’azione m’ero stupidamente dimenticata di girare la copertina e pertanto Orazio, curioso, ne sbirciò il titolo: Metodi matematici per l’Ingegneria, Analisi III. Leggere e sbiancare per lui fu un tutt’uno “Tu” mi puntò l’indice come Giuda Iscariota “tu studi Ingegneria?”
Ma brava, cinque stelle. Furba.furba.furba. Tutto minacciava d’andare a puttane per la mia superficialità, perché ero una cretina da sbarco che sottovalutava sempre dei dettagli. Dovevo recuperare e alla svelta “Io?” scioccai, l’icona della più velina idiozia “ma come ti viene?”
Orazio non disse nulla, ma si limitò ad indicare il libro come manifesta prova d’eresia. Eccola la tua colpa, immonda strega baciaculi, un Necronomicon rilegato in pelle umana!
“Dei del cielo, dici per questo! No, no! Cercavo un libro di matematica e la bibliotecaria mi ha dato st’oscenità. Ho provato a leggerlo, ma non ci capisco neanche una parola. In compenso, se lo lasci li sulla scrivania fa un sacco di cine, non ti pare?” sorrisi, pregando ogni demone e ogni dio che se la bevesse.
Orazio apparve più sollevato e mi gratificò con una frase ricca d’aperture “Mi pare una gran cazzata. Hai altre trovate del genere?”
“Come no” improvvisai “con la bella stagione passeggio sulla fondamenta delle Zattere fingendo di sfogliare un libro di Garcia Marquez e per enfatizzare il tutto” continuai, perché una balla tira l’altra come le ciliegie e a me piacciono le ciliegie, mi danno un gusto perverso che genera assuefazione “per enfatizzare il tutto inforco due occhialini con montatura tonda, alla Gramsci, ma senza lenti e periodicamente strizzo gli occhi, così. Fa molto intellettuale che disseziona passaggi ostici ma densi di saggezza. Un aplomb che non ti dico”.
Orazio sgrufolò un’amabile risata a maialino, ma poi chiese “Si, ma tu cosa studi, in definitiva?”
“Scienze Politiche” mentii con scioltezza.
Avevo optato per una facoltà che aveva fama d’essere tra le più facili, ma devo confessare che la scelta tra lettere e scienze politiche fu molto sofferta.
“Ma se studi scienze politiche a che ti serve un libro di matematica?”
Già, porca puttana ladra, a che mi serve? “L’indirizzo! Ho scelto il meno impegnativo… sai, per fare presto… ‘Letteratura delle Scienze Politiche’, ma lo stesso faccio una fatica bestiale. E come se non bastasse qualche verme ha pensato bene di piazzaci dentro un esame di ‘Computo Aritmetico Elementare’, così giusto per far massa e complicare la vita a noi poveracce”.
“Ah” commentò, ma non sembrava troppo convinto. Dovevo investirlo, travolgerlo, tramortirlo di parole. Mi sedetti accanto a lui e, sottovoce, iniziammo una fittissima conversazione che più volte toccò argomenti pericolosissimi e nell’ambito dei quali dovevo mantenere un equilibrio da trapezista.
Ricordo che ad un certo punto mi chiese, così, a strappo di culo “Ma politicamente tu come la pensi?”
Brividi. Come vuoi che la pensi? A modo mio. Con te voglio scopare, mica fondare un partito. Ma potevo rispondergli così? Certo che no “Ah, su questo argomento non ho dubbi: son convinta che lo stato attuale delle cose sia disastroso ed amorale” incassai subito un incoraggiante segno d’assenso. Stavo andando bene “L’unica alternativa è una scelta democratica che riproponga i valori su cui si è fondato il paese ma sia al contempo moderata e riformista”.
“Sono confuso” commentò Orazio, che dava l’impressione di esserlo spesso nella vita. Tuttavia era anche ostinato, perciò corrugò la fronte e dopo qualche secondo di dolorosa riflessione si risolse: “In pratica sei anche tu di sinistra?”.
“Si capisce” l’epitome dell’ipocrisia.
“Non ti ho mai visto al centro sociale Morion”.
“Uh, no… frequentavo il CSA Bava Beccaris di Trieste, prima che fosse demolito dalla brutalità squadrista delle forze dell’ordine al soldo del capitalismo borghese” mi bloccai di colpo, sospettando d’aver esagerato per l’ennesima volta.
“Ah, ecco!” esclamò invece Orazio “Ecco perché parli così, sei una mula!”
Ma brutto caprone come ti permetti? “Una che?”
“Un mula, una ragazza di Trieste” spiegò “per questo hai quell’accento strano”.
“Ah, in quel senso! Comunque no, non sono triestina: ho parenti in Italia, ma sono straniera. Vengo dal medioriente”.
Orazio pietrificò all’istante più allarmato che mai “Non sarai mica israeliana?”
“Io?” ero la personificazione della dignità offesa “Vorrai scherzare! Libanese, sono libanese purosangue!” dissi, portando una mano al cuore e stringendo forte la sagoma delle piastrine di TZHAL che indosso sempre sotto la camicetta.
Fu dopo quell’accorata esclamazione che un tizio iracondo ci rivolse un’occhiataccia al cianuro e, con gesti ampi ed eloquenti, ci invitò ad andare a fare succosamente in culo fuori dai maroni, sporchi casinari asini lavativi che non eravamo altro.
Lo ringraziai con tutta l’anima e in cuor mio gli augurai di riuscire perfino ad accoppiarsi, un giorno. Poi sussurrai ad Orazio “Caffè?”, lui annui ed uscimmo insieme.
Fu piuttosto semplice legare e, dal momento che studiavamo tutti e due matematica, gli proposi di combinare gli sforzi.
Fortunatamente l’idea lo solleticava, perciò decidemmo di incontrarci in biblioteca. Io mi sforzavo di essere provocante ed usavo mises simili a quella del primo giorno, ma la cosa non progrediva con la grinta sperata. Era frustrante, così mi decisi ad una svolta radicale: approfittando di una pausa, mi mostrai ansiosa, affannata, preoccupata, molto meno allegra e spiritosa del solito.
“Cos’hai?” mi chiese.
“Oh, nulla. Nulla davvero”
“Ma no, dai, si vede… c’è qualche problema?”
“È che…” abbassai lo sguardo trovando improvvisamente interessanti le punte delle scarpe e al contempo presi a mordicchiarmi distrattamente un’unghia.
“Cheeee…” incalzò Orazio, che avevo scoperto essere tenace e curioso come una donnola.
Sospirai e tesi il filo della suspance, poi vuotai il sacco tutto d’un fiato “È che non so come fare, sono disperata. Fra un pò ho l’esame e non ci capisco un acca. Sono sempre stata negata per la matematica, non come te. Questa è la verità e sento che senza un aiuto l’esame non lo passo, non lo passo… /singhiozzo”
“Se ti sfugge qualcosa puoi sempre andare a ripetizione” replicò con naturalezza la mia volpe del deserto.
“Non ho denaro, non posso permetterlo!” singhiozzai tra i lucciconi.
“Uh, allora…”
“Non è che potresti darmi una mano tu?” mi toccava fare tutto da sola, diamine. Mai invaghita di uno più gnucco “Per piacere… perpiacere.perpiacere.perpiacere”
“Ma non è che io…”
“Oh, suvvia, tu sei una mente, io lo so. Padroneggi cose per me inarrivabili, fai perfino studi di funzione… ti prego” gli accarezzai un braccio e scoccai uno sguardo supplice che diceva ‘istruiscimi, maestro, e sarò la tua ancella in eternò.
Degluttì ma si arrese: “OK, ma dove…”
“Lascia fare a me”
Lo portai in un appartamento di mia nonna. Era un trilocale che in teoria avrebbe dovuto essere affittato da noi fratelli per dividerne il ricavato, ma in realtà veniva lasciato sfitto di comune accordo. L’arredamento era molto spartano, quasi minimalista, Orazio se ne stupì ed io ne approfittai per rincarare il mito delle mie precarie condizioni economiche.
All’inizio ci mettemmo sul serio a studiare e constatai che il dio vichingo non capiva davvero una mazza chiodata di matematica. Negato come pochi, una cosa imbarazzante. Dopo un errore clamoroso che pretendeva d’illuminarmi sulla trigonometria, rischiai perfino di rovinare tutto deflagrandogli una risata sul muso. Dovevo controllarmi. Lui aveva qualcosa che io volevo assolutamente. Dovevo controllarmi anche a costo di prendermi a pizzichi.
Sopportai ben due ore di quel tormento prima di decidere di averne abbastanza. Allora sospirai adorante e mormorai “Sei così buono con me ed io… io non so proprio come ringraziarti” un’interpretazione degna di Eleonora Duse.
“Uh, se è per quello mi puoi offrire una pizza”
“Non se ne parla nemmeno!” sbottai con una fermezza ingiustificata.
“Perché? Cos’ha di male una pizza?”
“È che… non credo di potermela permettere”
“Una pizza?! Mioddio, ma tu sei all’indigenza!”
Per tutta risposta arrossii imbarazzata, come m’aveva insegnato a fare mia cugina Anna nei momenti di difficoltà.
“Se è così posso offrirtela io una pizza, per me non è certo un problema”.
E dagliela. Duro, ma duro duro duro.
Raddrizzai orgogliosamente la schiena e, senza darlo a vedere, ancorai le dita al bordo della microgonna che già arrivava ad altezze proibite. Accavallai lentamente le gambe proprio sotto al suo naso e guadagnai un altro centimetro di coscia “ma in questo modo mi faresti sentire ancora più in debito” pigolai. Oh, timida cerbiatta. Oh, pofero ucilino con le ali spezzate.
“Allora siamo ad un punto morto” si arrese l’eroe normanno, prostrato come se si fosse trovato al cospetto di un teorema insolubile.
Non ce la facevo più.
Gli agguantai il bavero della camicia, tirai con tutte le mie forze. Violenta: “No” e lo baciai.
Meno di un minuto dopo ci stavamo rotolando sull’unico letto dell’appartamento. Camicetta e biancheria intima non c’erano più, ma non avevo avuto tempo per togliere il resto: calzavo ancora gli stivali e la gonna mi si attorcigliava alla vita come la corolla di un fiore insolito, col pistillo di carne e i petali nei colori del tartan McNairn.
Orazio mi scopò con energia e sfoggiando anche una certa resistenza, ma io venni quasi subito e quando fu il suo turno o meglio, giusto poco prima, uscì e mi sedette cavalcioni sul petto, strizzandomi le tette ed imponendomelo tra le labbra.
Gli stimolai il frenulo con la punta della lingua, al contempo usai la destra per masturbarlo piano, molto piano, perché io uccido con dolcezza. Subito mi acciuffò per i capelli costringendomi piegare il collo e a sollevare la testa, allora schiusi le labbra a circondargli il glande. Lo ingoiai e lo liberai più volte, senza fretta, guardando negli occhi il mio signore e lasciando sfuggire qualche schiocco bocchinesco. Così, giusto per stuprare i sensi, miei e suoi.
Durò meno di un minuto e mi venne sul palato e sul viso. Lo fece barrendo folcloristicamente come un lanciatore di martello, ma subito dopo stramazzò sul copriletto come una semplice sequoia abbattuta.
Gli diedi il tempo di riprendere fiato, quindi gli tirai piano i capelli per indirizzarlo sulla mia passerina solitaria. Tanto a me, tanto a te, no?
E invece m’aspettava un’altra sorpresa e un nuovo, snervante ostacolo.
“A me non è che piaccia molto…”
“Che cosa?”
“Leccarla. L’ho fatto una volta e non è che mi abbia entusiasmato. È limacciosa… è come mangiare mitili crudi. Insomma, preferisco il sesso orale passivo. Cioè quando siete voi a fare i bocchini”
Ma stiamo scherzando?
Brutto fetente, lurido, ingrato stronzetto figlio di papà, io ti grrrrrrrrr…
Tirai rumorosamente su col naso.
Una, due volte in rapida successione.
“Siete tutti uguali” singhiozzai.
Lui sollevò la testa di scatto “Ma cosa? Chi? In che senso?”
“Avevo un ragazzo, giù in Libano, prima di essere costretta a fuggire… Anche lui era come te. Si prendeva tutto, anche quando non volevo. Una volta gli chiesi di essere carino con me, di farmi provare le stesse sensazioni e lui…” mi interruppi accordando il tremore della voce e permettendole di scendere di tono, sopraffatta dal dolore e dalla vergogna.
“Lui…” incalzò Orazio, semper fidelis al demone della curiosità.
“Lui dapprima mi prese in giro e poi mi picchiò”
“No!”
“E ti dico di si! Sosteneva che quelle non sono cose da uomini. Diceva che un maschio non si prostituisce. Che le femmine invece son troie di natura e devono essere usate come tali, diceva”.
“Che ignobile figlio di puttana!”
“Era mio cugino”
“Oh… scusa, ma si, insomma era anche uno stonzo” Orazio storse la bocca schifato, ma ormai ero partita e il difettaccio l’ho già raccontato: quando inizio a mentire ci prendo gusto. Allora perdo il senso delle proporzioni e mi arrotolo, mi aggroviglio nelle bugie innescando un processo a valanga che costringe ad inventare balle su balle. Così divento la metafora di un’imbranata che inciampa e per recuperare deve correre più forte.
“Poi, non contento, mi ha consegnata ai falangisti” rincarai.
“Lui cosa? Parli dei franchisti spagnoli?”
“Ma no!” asino maledetto, mi stai demolendo l’attimo di massimo pathos “I falangisti delle milizie Maronite, quelli di Shabra e Chatila”
“Ommioddio, tutti quanti?”
Cielo, per essere bello Orazio era bello, ma talvolta mi sembrava quasi ritardato “No, un piccolo gruppo. Hanno abusato di me, hanno preteso che facessi con loro quello che facevo col mio ragazzo”
“Oh, povera… povera” Orazio mi abbracciò forte, cullandomi come una bambina.
“… e mai nessuno che mi abbia leccata” aggiunsi sottovoce.
“E come sei riuscita a sfuggire dalle grinfie di quei cannibali sanguinari?”
“Un intervento dell’ONU” mitragliai d’istinto, senza riflettere.
Orazio si scostò di colpo e mi scrutò con fare sospetto. Dovevo metterci subito una pezza: “I caschi blu, ne avrai sentito parlare, no?”
Il ragazzo annuì.
“Ecco, un rastrellamento dei caschi blu costrinse quei bastardi a rifugiarsi sulle montagne e così facendo liberarono me e le altre”
“Ce n’erano anche altre?!”
Miseria! “Si, non molte, i disgraziati avevano delle vie di finanziamento parallele. Insomma, noi dovevamo finire negli Emirati Arabi e…”
“La tratta delle bianche!” s’illuminò Orazio, folgorato dall’imbeccata subliminale e da un topos del mercato del sesso.
“Precisamente. Non sapevo come si dicesse in italiano. Ma ora basta, ti prego, è una storia terribile”
“Màriavergine”
Maria. Si. Vergine. Soprattutto. Grondo sudore come un pugile professionista. Dopo un racconto così straziante me lo merito o no questo benedetto cunnilingus?
Lo fissai negli occhi, tracimando affetto ferito e profonda delusione, poi mormorai una seconda volta, a voce bassissima “Sei anche tu come lui” e abbassai il capo sconfitta, con le gote scavate da due enormi lucciconi ottenuti pensando intensamente a Gaetano, il mastino napoletano morto di leptospirosi quando avevo dieci anni. Una grande tragedia per tutta la famiglia.
Si commosse.
“No, no, piccola, non sono come quello sporco fascista” mi bacio teneramente come fosse mio padre e di sua volontà si abbassò tra le cosce.
Repressi un ghigno luciferino e lo aiutai ad inginocchiarsi di fianco al letto. Poi mi misi comoda. Allungai le mani sopra il capo, stensi la schiena come una gatta che si stiracchia e piegai le gambe in modo da offrire una panoramica più competa delle mie grazie… e da permetterne al contempo una profanazione totale e ricca di ampie spennellate.
Purtroppo dovetti constatare che in quel frangente Orazio era veramente una frana. Si applicava, per carità, dimostrava anche un certo talento e una tempistica istintiva, ma in materia di cunnilingus restava colpevolmente vergine.
Come dire, ricordava un panda nato in cattività ed improvvisamente liberato in un paradiso di bamboo: non padroneggiava l’habitat, non sapeva come usare le risorse generosamente elargite da madre natura, ma soprattutto non aveva la più pallida idea di dove fossero i punti sensibili, seviziando i quali poteva evolversi da semplice labrador a imperatore del leccaggio.
Dovetti iniziare da zero, ma spero che oggi qualche sconosciuta abbia motivo di ringraziarmi.
Con indice e medio separai le labbra ed esposi il clitoride “Prova a leccare qui” azzardai, perché non mi sembrava il caso di tradire eccessiva dimestichezza.
Lui spennellò generose e maldestre linguate, come un muratore che spatoli malta su un muro.
Mugolai, perché ogni progresso merita d’essere gratificato “Più piano” suggerii, ed Orazio, docile, rallentò il ritmo “Prova… prova… a succhiarlo… piano… senti che è duro?”
“Grunf! Cme? Si… grunf… e carnosetto. Lap” ci prendeva gusto e stava migliorando, o forse ero io che mi stavo ingrifando come un facocero “Le dita” ragliai “usa le dita!”.
La sua reazione non fu immediata. Nel tentativo di risalirmi le cosce, palparle e ficcarmi l’inguine, mi graffiò, scivolò, per poco non soffocò cadendo di muso sulla figa e riemerse sbuffando come una giovane otaria.
A quel punto stavo quasi venendo, dal ridere e di goduria, e quando ciò accade mi lascio andare completamente, sono vittima degli istinti, perdo il controllo, eccetera eccetera.
Orazio scelse proprio quell’istante per schiaffarmi due dita in figa ed io reagii strapazzandomi le tette e lasciandogli campo aperto. Imbaldanzito e forse un po’ ingrifato, entrò nel ruolo e sibilò “Ti piace eh, troia”.
“Mmmm, figliodiputtana” muggii, emozionata per essere finalmente trattata col rispetto che merito.
Fu un maledetto errore.
Fui fraintesa e per poco non sfiorammo nuovamente la tragedia: Orazio si staccò ci colpo, mortificato “Scusa, scusa, io non sono come lui. Mi è scappato, scusa”.
Non ti fermare adesso, non adesso, porco cazzo! “No, tranquillo, lo so, lo sento” volevo aggiungere che era un mustang selvaggio, un eroe della resistenza, un cavaliere jedi, ma fortunatamente mi trattenni.
Nonostante ciò Orazio s’era bloccato. “Scusa, davvero… sono diverso”.
Maledetto busone!
Spazientita, lo acciuffai per i capelli e lo trascinai al suo posto “Dimostralo”.
Così delicatamente incoraggiato, lui riprese a lavorarmi la passerina. Dapprincipio con esitazione, poi in modo sempre più convinto, grufolando, spingendo col naso e scavando con le dita. Mi regalò un paio di morsiconi niente male, ma strinsi i denti e sopportai. Un po’ perché qualche imprevisto mi fa sangue, e un po’ perché sarebbe stato un delitto tarparlo proprio adesso che mi stava sbocciando tra le cosce.
Quel pomeriggio mi fece godere ben tre volte a quel modo, stupendo entrambi e scoprendo una nuova vocazione personale.
La terza volta riuscì perfino ad essere creativo: aveva imparato ad infilare due dita nella vagina, fletterle dentro stimolando la parete anteriore ed al contempo spingendo il clitoride da sotto. Non so come spiegare, perché non possiedo nemmeno i più rozzi rudimenti di anatomia, ma è un po’ come essere leccate e fottute insieme. Da fuori si avverte la lingua che apre la cicala, raspa sul clitoride, lo espone perché le labbra lo imprigionino in un bacio di suzione, e da dentro ci sente uncinare, scavare, fottere e probabilmente si arriva a stimolare il fantomatico punto G. Sia come sia, ma la Variante Orazio è un delirio di piacere e da quel giorno l’ho trasmessa a tutti gli uomini con sui sono stata.
A partire da quel pomeriggio la nostra storia fu intensa ma non durò molto. Poco più di un mese, se non ricordo male, poi dovemmo cedere all’evidenza: mancava feeling. Si scopava bene, certo, ma diventava sempre più complesso destreggiarsi nel malestrom di balle che avevo inventato e, anzi, io ero talmente allo sbando che finii per coinvolgervi anche mio fratello.
Andò così: Orazio ed io stavamo camminando per strada e incontrammo Immy. Lui mi salutò dicendo una qualche banalità in ebraico ed Orazio, candido come un giglio, domandò “Anche lui un profugo libanese?”.
Figuratevi, Immy scattò come una molla “Ma stai fuori? Io sono eb[]”
“Ebete” lo anticipai, con la velocità della disperazione “Lui è ebete perché si vergogna di dire che è libanese come me” e contestualmente indirizzai al fratello uno sguardo di ferma disapprovazione che in realtà pietiva ‘non mi tradire!’.
Immy mi guardò come se avessi tracannato trielina ma, conoscendomi, si limitò a rovesciare gli occhi al cielo e dovette rassegnarsi all’idea d’essere libanese e di avere una sorella maggiore scema, troia e bugiardissima.
Era chiaro che così non poteva continuare, perciò poco dopo troncammo la relazione. Lo feci nel modo più delicato possibile, come se fosse un’idea sua alla quale mi piegavo mio malgrado. Non ricordo i passaggi nel dettaglio, ma uno dei punti cardini di tutta l’operazione verteva sull’incolmabile gap intellettuale che ci separava: lui era un ragazzo colto e brillante, io una patella cerebrale che lo esponeva costantemente al rischio di vergognose gaffes. Piansi tanto, ma alla fine lui riuscì a convincermi che le nostre strade erano destinate a dividersi.
In seguito non ho più rivisto Orazio per anni. Sapevo che aveva superato Analisi I, che si era sposato con una spagnola favolosamente ricca e che faceva l’architetto a Valencia, ma a parte ciò mi ero completamente dimenticata di lui.
Fino all’altro giorno, almeno.
Ero all’aeroporto Marco Polo di Venezia e tarantolavo nei pressi del rullo consegna-bagagli in attesa della mia fedele trolley ormai data per dispersa. Ad un tratto mi sento chiamare per nome “Nadja?” la voce era incerta ma nitida e autorevole.
Mi volto e squadro la sagoma imponente di un perfetto sconosciuto. Boh, mi domando, e questo chicazzè?, ma subito sorrido come una capra in calore e sboccio “Carissimo! Ma sarà una vita…”
“Eh, quasi dieci anni, forse qualcosa meno”
Avvinghiata a quella nuova, preziosissima informazione, m’improvvisai Jessica Fletcher e presi a scavare furiosamente nella memoria alla ricerca di un volto, un nome, un qualunque minchio di indizio.
Nel frattempo lo sconosciuto proseguiva implacabile, costringendo me ad arrabattarmi e a nascondere l’imbarazzo dietro una facciata di ragliante sorpresa.
“Sai, ti ho vista da lontano e mi son detto. ‘È lei’, cioè, davvero non sei cambiata affatto”.
Sorrisi al complimento e replicai “Guarda, anche tu non scherzi: ho alzato gli occhi, ho riconosciuto il timbro della voce e son rimasta fulminata”.
“Beh, a dire il vero ho messo su qualche chiletto”.
“Impercettibile: la giacca ti squadra le spalle e sfila la figura. Con la tua statura, poi, un girovita più maturo si limita a definire un profilo massiccio e rassicurante” sbrodolai, glissando sul fatto che, chiunque fosse, qualche coast-to-coast alla Forrest Gump non gli avrebbe fatto un gran male.
“Dai, mi stai adulando!”. Cacchio.
“Son ruffiana di natura” gli feci l’occhiolino e recuperai lo scivolone con quella che speravo essere la consumata destrezza di un’alcolista incallita.
Orazio scoppiò a ridere ed io, professionale, lo seguii a ruota nella speranza d’avvalorare l’impressione che fosse tutta una boutade. Divertito, fece spallucce e mi offrì un caffè.
Merda.
Provai in tutti i modi a declinare, conscia che più si protraeva l’incontro e più rischiavo che il mio bluff venisse scoperto. Cioè, volevo evitare d’esser costretta ad ammettere che - m’avessero squartata li su due piedi offrendomi ad un asino - non ero minimamente in grado di ricordare chi minchia fosse quell’uomo.
Disgraziatamente, per quanto mi sia sforzata non sono riuscita a trovare una scusa valida e alla fine son stata costretta ad accettare.
Il bar del Marco Polo non ha il fascino laido d’una bettola da sopazioporto, ma è asettico e anonimo come quasi tutti i bar delle stazioni di transito. Quel giorno era frequentato da un campionario umano di tutto rispetto, ma anche riguardo a ciò le analogie con Star Wars finivano li. Purtroppo mancavano i fecciosi alla Jan Solo, Wookie urlanti e prostitute Twìlek ma in compenso c’erano tre yankee obesi, una mandria di giap, una deficiente sempre più in crisi e un giovane architetto sempre più a suo agio.
Già, perché c’è questo da dire: Orazio è un uomo sereno, soddisfatto, in pace con se stesso. Non è Calatrava, ma ha fatto la sua carriera e vive in armonia nella famiglia che si è creato. Vede il passato senza rimpianti, nel bene e nel male, ci ride su, ci scherza. Non è diventato un genio, per carità eppure… eppure mi sento un po’ una merda di fronte a lui. Io, che con tutta la mia supponenza alla fine trotto il mondo per quattro euro e l’illusione effimera d’un briciolo di successo. Mi sono scoperta ad invidiare il chicazzè che avevo di fronte, ecco cos’è accaduto. Mi sarebbe piaciuto essere come lui e, dietro la solita facciata, mi sono chiesta chi dei due era veramente lo scimunito. E purtroppo mi sono anche risposta.
È stato proprio mentre sfoggiavo un sorriso ipocrita e l’amarezza del caffè m’inondava il cuore che Orazio m’ha fucilato una domanda apparentemente innocua, ma potenzialmente assassina “E come va, adesso, nel tuo paese?”
“Non diversamente da alcuni mesi fa. Le tensioni interne sono forti, le fazioni estremiste cercano lo scontro e potenze regionali come Iran e Siria soffiano sul fuoco”.
“Già, un dramma reso ancor più doloroso dall’ultima guerra”
“Vero. Mal condotta, mal diretta. Lenta, costosa, strategicamente e tatticamente inutile” sospirai.
“Beh, ma voi che potevate fare? È stato uno scontro tra Hezbollah ed Israeliani, e quest’ultimi v’hanno invaso metà del paese bombardando strade e infrastrutture”
“Eh?” che cazzo stava dicendo?
“Si” continuò lui con disarmante naturalezza “loro, gli Israeliani” il male assoluto.
“Loro?... Noi!” esclamai.
“No, no, Nadja. Voi che potevate fare, poveracci? Il Libano avrà si e no qualche MIG sgangherato. Voi siete ancora una volta vittime dell’arroganza sionista che/”
“Orazio!” schioccai le dita e nel sollievo del riconoscimento mi concessi un sorriso da orecchio ad orecchio.
“Si?” chiosò lui interrompendo la giaculatoria.
“Nulla, è che sentirti parlare, vederti muovere le labbra così da vicino… come dire, m’ha ricordato ben altre cose e non sono riuscita a controllarmi” ovviamente non c’entrava una mazza con l’esclamazione incriminata, ma negli anni ho imparato che alludere al sesso funziona sempre con gli uomini. È come un tasto di reset.
“Non sei davvero cambiata per niente” commentò lui, con la tazzina a mezz’asta, e si risparmiò il vocativo ‘troia’ tanto per bon ton, quanto perché s’era lanciato in una scansione capo-piedi degna d’una risonanza magnetica.
“Non sai nemmeno quanto”
“Oh, no, lo vedo… tanto per cominciare hai sempre due gambe magnifiche. Lunghe da far schifo”
“Grazie” premiai il complimento con un bel bacio su una guancia, appena un pelo più sensuale del dovuto “ma adesso, caro Orazio, devo proprio andare, altrimenti perdo il battello”. Alzandomi dal trespolone del bar gli lanciai un sorriso complice e feci un mezzo giro su me stessa. Vezzoso, altezzoso, puttano, tutto mio, ma a suo esclusivo uso e consumo. Poi gli feci l’occhiolino, una linguaccia e me ne andai.
Che conclusioni ho tratto da tutto questo casino?
Due sole. Primo: sono sempre stata molto fiera di come plagio gli Orazi, ma alla fine loro hanno una vita mentre io non sono nessuno e lascio che il tempo mi scorra sopra. Sarò anche brava in matematica, avrò anche la risposta pronta, ma in definitiva sono l’unica, vera, cretina… e ciò che è peggio, è che non saprei essere diversa.
Secondo: se qualcuno mi viene ancora a raccontare che le bugie hanno le gambe corte, mi metto sulla punta dei piedi come una donnina di Manara, sollevo la gonna fino al limite massimo del pudore ed un pelino ancora più su. Poi gliela faccio anche a lui una bella linguaccia. E se ha qualcosa da ridire gli racconto di quella volta che mi sono fatta tutto il cast di Ocean’s Eleven, con Gorge Clooney, Bred Pitt e me come sandwich.
Sii felice, Orazio.
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