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Pioveva.
Le gocce d’acqua bussavano sui vetri e subito scivolavano via, vestendo le lastre con una tenda opaca che respingeva la luce della notte.
Pioveva forte.
Il gentleman entrò nella stanza buia e riconobbe il profilo che si stagliava sull’unica finestra << Sei la più bella troia dell’isolato >> sentenziò. Beh, in effetti riportando questi stralci di conversazione mi rendo conto che come approccio non sembri tra i più romantici, ma per noi era intimo, coccolo, anticonformista e complice.
Per noi tutti, dico. A patto di avere sui venticinque anni, di essere studenti universitari e di essere incoscienti ed iraniani.
<< Ti amo >> mentii in risposta. Giusto per rompergli il cazzo, perché sapeva benissimo che non era vero.
<< Vaffanculo >>, la voce della sincerità.
<< Oh, tesoro, è che ai tuoi modi da James Bond semplicemente non si resiste, sei così… macho >> cinguettai, enfatizzando il sostantivo con la passione con cui si esala un pompino.
<< Ma vaccagare, ok? Ma davvero. Sei qui per prendermi per il culo anche oggi? >> faceva il seccato ma già la voce gli sorrideva, perché era fatto così. Allegro e serio insieme. Nonostante tutto.
<< Mmm, no, direi di no. Non questa volta >> precisai << Ma ora siediti e aspettami >> intimai. Lui alzò un sopracciglio, si tolse la giacca e con una scrollata di spalle si sistemò sul sofà di velluto bombardato dalle tarme. Un rudere che per noi equivaleva ad un divano IKEA di terza mano.
Ne approfittai subito per scivolare alle sue spalle ed iniziai a spogliarmi lentamente.
Per prima cosa feci cadere a terra il catafalco nero da barbapapà e, con l’abilità irrispettosa che viene dalla pratica, trasformai il frusciare soffice della stoffa in una promessa di seduzione. Poi toccò alla camicia da uomo e ai jeans occidentali che portavo sotto. Mi sfilai i sandali scalciandoli nel buio nulla, ma conservai una cosa. Una sola.
Conservai il velo nero anche se personalmente l’ho sempre trovato orribile. Lo percepisco come un marchio per noi donne, inferiori e dimesse. Simbolo di un dogma e di un’ideologia, ma strumentalmente spacciato per baluardo culturale. Insomma, lo detesto perché è un coacervo di falsità bigotte e in più con quel robo in testa mi sento un sacchetto di immondizia semovente il che, come dire, non è proprio il massimo.
Quella sera però lo lasciai per scelta. Volevo stravolgerne la natura, profanarla… o nobilitarla se preferite. Diciamo che volevo conferirgli un’utilità, ecco, perché in fondo sono ingegnere minerario e la deformazione professionale mi impone di dare un senso alle cose o epurarle.
Ragionai che forse quell’affare avrebbe potuto trovare un suo significato erotico, perciò lo drappeggiai sulla bocca come fanno i tuareg marocchini e, soddisfatta, cominciai ad aggirare la sagoma immobile dell’uomo-divano.
Percependo il movimento lui cercò di voltare la testa, ma lo richiamai all’ordine con una stecchettata tutt’altro che glamour.
<< Ti vergogni, cagna? >> mi chiese.
<< È che non sono sicura che sia abbastanza buio>>
<< Quindi ho ragione, ti vergogni di farti vedere nuda da me. Forse hai due tette che piangono e un culo a foglia larga, grande e piatto come un Tabriz. O forse sei solo bigotta, io non sono tuo marito… e sai che non lo sarò mai >> concluse con un timbro strano nella voce.
<< No. È che sei il più brutto carciofo che mi sia capitato finora. Sinceramente ho paura di non farcela se ti vedo in faccia. Cioè, mettiti nei miei panni: sarò anche una cagna ma ho dei limiti >>
<< Vaffanculo >>
<< Dai >> miagolai, che mi stavo divertendo un sacco << aspetta e fidati… poi se non ti piace l’articolo, chiami tuo fratello e fai con lui, ok? >>
<< Troia >>
<< Ti amo >>
Con studiata velocità superai il fianco del divano e mi diressi lentamente verso la finestra. Laggiù, intercettai la luce d’ovatta che filtrava dall’esterno, la ruppi e la scomposi, annegando la stanza con la mia ombra.
<< Guardami >> mormorai, e mi misi di profilo perché sono sempre stata vanitosa e gatta.
Lo sono in molti, a dire il vero, maschi e femmine, solo che fingono di essere diversi perché i condizionamenti culturali impongono la virtù della modestia. Sia come sia, quella sera non ero li per filosofeggiare sul masochismo della specie. Quella sera ero li per fottere e sedurre e feci in modo che la mia silouette si stagliasse netta: una forma nera priva di colore. La sagoma di un’Uri di carne e sangue le cui curve promettevano sogni, oblio, sesso e ogni cosa proibita.
Sono certa che lui abbia sentito la mia voglia esattamente come io sentivo la sua. Forse anche per questo trattenne il fiato quando mi voltai, gli sorrisi con gli occhi e gli venni incontro ancheggiando sul parquet di linoleum. Coi piedi nudi che ad ogni passo sembravano sfotterlo mormorando l’eterna bugia “ti-amo, ti-amo”.
Si riprese quando gli ero praticamente addosso, allora scattò come una lepre in fuga o come uno studente folgorato da un’insperata illuminazione matematica. Non gli permisi di alzarsi: gli appoggiai con dolcezza una mano sulla fronte e spinsi indietro. Semplicemente.
E lui stramazzò sul divano con un fischiotto da asmatico che aveva una dolcezza melodica squisita, ma eroticamente avrebbe stroncato la verve di una ninfomane. Lo possedevo, tutto qui, i suoi occhi prigionieri dei miei e il cazzo così duro da sembrare un paracarro.
Gli accarezzai le ginocchia, gliele unii e vi sedetti sopra, le gambe aperte a comprendere le sue. Mi sentivo determinata, ma ad essere onesta avevo anche una gran fifa e pertanto volevo mantenermi padrona della situazione. Perciò, non appena tentò di muoversi, gli presi le braccia e gliele bloccai << Dopo >> sussurrai << lasciami fare >> e lui si abbandonò.
Sapevamo entrambi che si sarebbe liberato in un attimo se solo l’avesse desiderato, ma non lo fece e non l’avrebbe mai fatto perché gliel’avevo chiesto. Ecco era fatto così: sapeva stare al gioco. Ad ogni gioco. Sapeva essere duro e morbido, imperativo e succube, ma sempre naturale. A volte riusciva ad apparire persino femmineo pur restando, paradossalmente, il più maschio che abbia mai conosciuto. Un miracolo.
Quella sera si abbandonò inerme ed io mi piegai su di lui per sussurrargli all’orecchio una delle poche verità che gli abbia mai detto << Questa notte ti faccio un regalo >> promisi << ti regalo una prima volta. Perché lo voglio. Perché voglio che sia tu. Perché sei un idiota incosciente e l’uomo più coraggioso che conosca>>
<< Non c’ho capito un cazzo >> replicò. Perché era anche un poeta.
<< Shhhttttt… >>
Lo baciai col velo e tutto. E le labbra si sentono sotto uno strato di stoffa. Si sente il calore, si sente l’umidità, si sente il profumo e la voglia.
Senza staccarmi, aderii al suo corpo. Poi lo agguantai per le cosce e lo tirai avanti, fino a farlo stravaccare sul sofà come se fosse una proibitissima Harley Davidson. Infine, dolcemente, glielo presi in mano ed allo stesso tempo sollevai due dita, gliele forzai in bocca e dal suo sguardo perplesso era evidente che non aveva ancora capito.
<< Fammi fare >> spiegai, volutamente ambigua, e la voce mi tremava.
Feci scivolare la mano sull’anca, disegnando una scia umida e sinuosa che la luce rifratta faceva danzare. In pochi attimi le dita giunsero li dove dovevano arrivare.
Le usai.
Con calma, senza fretta. Enfatizzando smorfie e sensazioni.
Poi scesi.
La destra che teneva l’asta e la sinistra che mi apriva.
Ragazze… fa male.
La prima volta fa male.
Anche se lo vuoi, anche se lo desideri e sei tu stessa a regolare la penetrazione.
Mi appoggiai a lui mentre sentivo il cazzo che mi profanava sempre più, ma continuai a spingere. A tratti. Ispirando forte, stringendo i denti e scendendo. Scendendo fino a guadagnarne la radice.
Annaspavo e l’umidità del respiro, delle labbra e della lingua aveva bagnato quella merda di drappo che mi velava la bocca. Ormai non aveva più senso mantenerlo, anche perché non poteva aggiungere ulteriore pathos all’azione. Cioè… naturalmente in quel momento non riuscivo a razionalizzare la cosa, mi dava solo un fastidio bastardo, perciò lo pregai << Toglilo. Togli il velo. Ora >>
Eseguì con zelo smodato e a momenti mi incideva la carotide praticandomi una tracheotomia halal.
Gorgogliai e rovinai indietro ma lui, premuroso, mi agguantò per le natiche e mi affondò dentro. Senza rispetto, con malagrazia, e soprattutto con una foja animale che non avrei mai sospettato.
L’aria mi uscì tutta d’un fiato, ma non gridai. Fu una specie di poderosa, bovina ansimata, e mi piegai per regalargliela. Per donargli ogni cosa: respiro, gemiti, dolore e piacere.
<< Ti piace, finocchio? >> chiesi, mordendogli piano un orecchio e strusciandogli una guancia di lagrime << Ti piace spaccarmi il culo? >>
<< Puttana >> fu il suo elaborato commento << Guardami, puttana >>
Raddrizzai la schiena. Verticale, orgogliosa, col seno teso e le mani appoggiate sui fianchi.
<< Sei pronta? >>
<< Si >>
Recuperò allora il velo, lo attorciglio lentamente e me lo tese davanti al viso.
<< Apri >>
Dischiusi le labbra, separandole ad una velocità da incubo e godendomi ogni istante, perché le torture raffinate hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Farle e subirle.
<< Mordi >>
Strinsi i denti sulla stoffa. Ve li affondai con rabbia, ad essere onesta. Portavo un bavaglio invisibile tutti i giorni e lo portavo mio malgrado. Questo era solo più evidente ma, a differenza del primo, avrei potuto disfarmene con un battito di ciglia… e magari usarlo su di lui.
Per questo non battei le ciglia.
Non quella sera… forse un’altra, ma quella no.
Rapidamente, l’uomo abbozzò un nodo spastico sulla nuca e lasciò che le due estremità di stoffa mi penzolassero fino a mezza schiena. Poi mi prese il viso tra le mani e l’attirò a sé. Mi baciò piano ma mi strinse forte, con una disperazione indescrivibile perché entrambi sapevamo, e poi scese, disegnandomi spalle e seni con le dita.
Su questi ultimi, curiosamente, si soffermò. Li soppesò a mano piena, giocò con la loro consistenza da ventenne e quando decise di averne abbastanza, imprigionò i capezzoli tra pollice e indice.
Senza preavviso serrò forte le dita, sapendo che per orgoglio non avrei reagito né ceduto. Infatti mi mancò il respiro, strinsi ancor di più il morso improvvisato e resistetti fino a quando gli occhi si inumidirono di stelle, poi mugolai sconfitta e mi divincolai, risvegliando la coscienza del cazzo che mi scavava il culo.
<< Si, puttana. Ti voglio succube stasera. E mia. Completamente mia >> gorgogliò soddisfatto.
Annuii docile e lui mi liberò il seno. Fece scendere le mani lungo i fianchi, giù, giù, fino a guadagnare le natiche, le imprigionò con forza e le allargò insieme.
Fu allora che cominciò ad incularmi veramente.
Ed io… io feci ogni cosa pur di regalargli tutte le emozioni, mie e sue, per renderlo il mio Signore e goderne con lui.
Quando mi venne in culo, quella notte, era felice e allo stesso tempo piangeva. Mi baciò, mi baciò e mi bacio coi nostri sessi ancora umidi e uniti, e quando ebbe fiato a sufficienza esalò piano << Ti amo>> Però lui non mentiva, povero.
<< Io no >> risposi, al di la del bavaglio che s’era sciolto ed era scivolato giù come un collare da cane. << Io no >> ma ricambiai il bacio e lo strinsi, perché erano tutte cose che sentivo: gli volevo bene. Un mare di bene. Gliene ho sempre voluto anche se non l’ho mai amato, ed è in nome di questo sentimento che sono stata sincera. Con le parole e coi gesti.
Poi, lui…
Già, Lui. Pronome.
Non vi ho detto come si chiamava e ora che ci penso non vi ho nemmeno descritto com’era. Alto o basso, magro, grasso, calvo, con due spalle così o un culo negativo.
Ma che importanza ha, in effetti? Per voi, dico, farebbe qualche differenza?
Era un uomo.
Punto.
E una grande persona.
Aveva il coraggio delle sue idee e in nome di queste, appena il giorno prima, si era alzato in piedi in un aula stracolma ed ammaestrata. Come tutti aveva in mano la foto del premier distribuita d’ufficio. Come tutti l’aveva sollevata…. ma capovolta, mentre altri lo imitavano.
Incredibile. Per noi, per noi-noi… veramente incredibile. Lui invece era rimasto così, fermo e serio, incurante d’essere ripreso e fotografato. Incurante di siglare il proprio destino con quel gesto dignitoso, muto e ribelle. Lui. E altri sessantanove ragazzi come lui.
Pronomi.
Pronomi e basta, ma che uomini!
All’indomani, il giorno prima di quella notte che pioveva, sono venuti a prenderli a casa.
Uno ad uno. Tutti quanti.
In poche ore li hanno processati e condannati ad indossare una piccola stella gialla a cinque punte cucita sulla giacca. Una stella come simbolo della loro inaffidabilità ed infedeltà al regime.
Si, avete letto bene.
Non sto scherzando e non mi invento niente.
E lo so, non ditemi anche voi che tutto ciò è grottesco: c’è un regime che nega un passato scabroso e incredibilmente si trova ad adottarne gli stilemi.
Incredibilmente… anche qui ci sarebbe da discutere, ma temo che si perderebbe un mare di tempo senza risolvere nulla. In fondo la verità è semplice: orrori ed errori si ripetono sempre. Per calcolo, per ignoranza, per stupidità o banale emulazione. Il problema è che si ripetono nonostante tutti i buoni propositi.
Comunque sia, vi ho raccontato cos’è successo quella notte e il giorno prima, ma mentre scrivo mi rendo conto che in Italia, in Francia o negli Stati Uniti, quella della stella cucita sul petto potrebbe sembrare una condanna ridicola. Anzi, in quei paesi un aggeggio del genere magari verrebbe sfoggiato come un’onorificenza.
Beh, vi assicuro che nell’Iran dei pasdaran non è affatto così.
Laggiù quel marchio ti segna come un lebbroso e ti espone a rappresaglie lavorative, morali, fisiche e di ogni tipo. Con quella stella sei fuori. Scomunicato. Terra di tutti e di nessuno. E anche se nominalmente hai gli stessi diritti di prima, in pratica… in pratica sei un morto che cammina. Non hai futuro, non hai più tempo.
Forse qualche notte appena.
Con ciò concludo il mio racconto e insieme ad esso la sua storia. Di Lui, pronome.
Lui che non ho mai amato, ma è stato il mio uomo e… si, solo un’ultima cosa per favore, ci tengo a sottolinearla: non rimpiango nulla di quella notte che pioveva, ma mi dispiace che la luce fosse così scarsa.
I ricordi che mi restano, infatti, sono ricchi di sagome, suoni e profumi, ma di immagini nitide ne conservo appena due. C’è il suo sguardo, orgoglioso, spaventato, felice, amaro e c’è il riflesso pallido di una stella gialla addormentata su una giacca scura.
Perché le stelle, tutte quante, senza distinzione, si vedono solo quando cala il buio.
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