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Manuel.
Manuel Ibanez y Ruiz de Alliende, Conte de Carimacon e Margravio delle piccole Indie.
Un Grande di Spagna, per farla breve.
L’uomo si versò un bicchiere di gin. Il quarto?
Vallo a sapere.
Ingollò l’alcol tutto d’un fiato e per la miliardesima volta cercò d’annegarvi le disgrazie della sua triste esistenza.
Che poi, a ben guardare mica si capiva perché dovesse essere così triste.
Un uomo bellissimo, sulla trentina. Alto almeno un metro e ottantacinque centimetri. Moro, muscoloso, con due occhi talmente neri da sembrare sfere di ardesia. Mascolino senza eccessi, con modi raffinati e un portamento da re.
Magari… ecco, si qualche fisima ce l’aveva pure lui, ma nell’anima non nel corpo: un istante sembrava levitare sostenuto da nuvole d’alterigia, quello successivo sprofondava dagli almi cirri al più depressa autocommiserazione.
Vero è che negli ultimi vent’anni la sua casata aveva vissuto un tracollo finanziario dietro l’altro.
Innegabile anche la tragedia in cui era incorso il fratello maggiore: torturato, si sussurra, da inconfessabili confusioni sessuali e indotto alla follia dallo smodato consumo di letture amorali, Alejandro - questo era il suo nome - invece di farsi prete come la tradizione familiare imponeva in quei frangenti, aveva preferito rinunciare a nome, titolo e diritti legali, partire per il Nicaragua ed arruolarsi nell’esercito sandinista.
Ecco, si, in effetti a ciò si dovrebbe aggiungere anche la reazione non proprio ortodossa di Don Cristobal, trentottesimo conte di Carimacon e padre di Manuel.
Persona integerrima, il conte, per carità, ma provata dagli eventi e sopraffatta dalla precipitosa rovina delle sostanze. Anche un po’ seccato, a dirla tutta, per la vergogna e l’imbarazzo derivategli dallo scandaloso comportamento del primogenito: “quel frocio marxista figlio di puttana” come lo chiamava nell’intimità, cedendo al turpiloquio ma segnandosi subito dopo.
Don Cristobal, dunque, dopo la partenza di Alejandro, sentì la profonda necessità d’una purificazione morale. Allo scopo investì ogni avere residuo in un ultimo, faraonico ricevimento, ingentilito della creme dell’alta società madrilena e nobilitato da più d’una testa coronata.
Non lesinò lussi, il conte, né conigliette mercenarie e a mezzanotte esatta, tra gli incitamenti dei non più lucidi convenuti, si produsse in un discorso memorabile e toccante nel corso del quale ringraziò i presenti, rievocò alcune sfolgoranti glorie del proprio casato e, in nome di quest’ultimo, innalzò il calice alla salute di sua Cristianissmia Maestà re Juan Carlos.
A compimento del brindisi, su segnale convenuto dal conte, due lacchè in livrea sciolsero le tele che nascondevano alla vista un enorme tumulo. Gli ospiti, che in massima parte s’aspettavano una copia a grandezza naturale del famoso complesso equestre dedicato al Caudillo, si trovarono invece di fronte ad una colossale catasta composta da dischi di Julio Iglesias, corresponsabile – a dire del padrone di casa – d’aver traviato l’erede degenere.
Don Cristobal diede alla platea il tempo di metabolizzare la sorpresa poi, col tempismo di un attore consumato, appiccò personalmente fuoco alla pira.
Il rogo ci mise alcuni minuti prima di infuriare vivace e nel frattempo il conte si crogiolò nel balsamico abbraccio di un applauso caloroso e spontaneo. Quando lo scrosciare dei consensi raggiunse l’apice, però, egli salutò gli ospiti con un signorile, ampio gesto allocutorio alla Marco Aurelio e marciò tra le fiamma purificatrici.
Ieraticamente, lento pede, in smoking ed avec grandeur, avvolto tanto dai fumi di combustione quanto dal mutismo sconvolto degli astanti.
Fu così, dunque, che il fatale precipitar degli eventi aveva fatto di Manuel il trentanovesimo ed ultimo conte di Carimacon, ricco d’un fulgido albero genealogico e forte d’un’educazione impeccabile… ma senza una casa, parenti in vita o un singolo centesimo di euro.
“O avverso il mondo, avversi a me gli eventi” frignava un poeta. Un grande poeta.
Gin, gin.
Fu allora che Manuel scoprì il gin.
Vi annegò ricordi e miserie. Vi si lascio cullare senza mai permettere, però, che l’alcol diventasse il suo padrone. In fondo c’era ancora Lisbeth, no?
La cara, favolosa, perfetta Lisbeth, con due gambe impossibili che da sole erano una poesia. Venere bionda, procace, provocante, sensuale e persino un po’ ninfomane.
Era sbarcata in Spagna come modella di lingerie, la sua Lisbeth, e vi aveva trovato un clima mite, gente gioviale e, naturalmente, l’amore. Mai, gli confessò una sera di scatenata intimità, mai sarebbe tornata in patria, in Svezia. E mai, mai, mai l’avrebbe lasciato.
La sua Lisbeth…
Quella puttana se n’era andata neanche un mese dopo con un calciatore brasiliano del Real.
Un negretto alto un Maradona o poco più, ignorante come una capra, bello come un calcio nei coglioni e il cui unico tratto distintivo – oltre al miliardario ingaggio - poteva dirsi quel monosopracciglio alla Breznev, folto e arricciato, che ricordava in modo inquietante il pelame di uno yak tibetano.
Lisbeth… puzzava ancora di favelas, quel fetente, come hai potuto?
Gin. Un gin. Senza berlo, solo versarlo.
Era ancora innamorato, Manuel, ne era certo. Lo sentiva nella pancia e nello stomaco, ma non sapeva che fare e perciò lasciava che la vita gli scivolasse via, come le note melanconiche della quarta sinfonia di Mendelssohn, e nel frattempo… nel frattempo si era accorto che da tre anni ormai viveva dell’ospitalità di alcuni amici di famiglia.
Amici… conoscenti, và. Aristocratici come lui, a cui non pareva vero di far beneficenza all’ultimo Conte di Carimacon.
Un altro bicchiere di gin, su. Solo un goccio.
Che schifo di gin, tra l’altro… ordinario, grossolano.
Manuel guardò il bicchiere e lo rovesciò nel lavandino.
Meglio l’astinenza che un surrogato: l’ultimo lembo di dignità andava salvaguardato ad ogni costo.
Se n’era andato, Manuel.
Un giorno, senza preavviso, aveva lasciato la Spagna e la ricca, ma umiliante elemosina di cui viveva.
Con le sue misere finanze s’era concesso un volo per Venezia (prima classe, naturalmente, a costo di razionare i viveri) ed aveva eletto il capoluogo marciano a sua patria d’adozione.
Quale altra città, infatti, ha conosciuto la decadenza meglio della Dominante? In quale altro posto al mondo si può respirare la stessa aria d’ineluttabile destino, nobile e mortale? Dove uno spirito come il suo, intrappolato tra passato e presente, avrebbe potuto ritrovare il suo equilibrio e – magari – la forza di rialzarsi, di risalire la china del declino?
Venezia, c’era solo Venezia, per Manuel!
Aveva affittato un bugigattolo: salotto, toilette e cucina abitabile (esente acqua alta, era importante) e già da diversi mesi s’ingegnava d’escogitar un modo per sopravvivere… possibilmente godendo di quei piccoli ma essenziali comfort che un conte di Carimacon non si dovrebbe mai negare.
Di conseguenza…
Si, insomma, di conseguenza…
Oh Signore, com’era dura ammetterlo. Com’era dura persino pensare all’abisso nel quale s’era calato. Farlo senza provare un forte, giustificato disprezzo per la propria persona. Per aver tradito i colori del casato, per non essere stato all’altezza degli avi.
Che vergogna.
Manuel riempì un altro bicchiere di gin e lo gettò via, ma questa volta direttamente nel water.
Ok, andava meglio.
Un bel respiro e l’ammissione definitiva: Manuel si era messo a lavorare.
Come un comune plebeo, si, certo, ci sono forse altri modi?… Che schifo, che degrado.
Dapprima aveva fatto la guida turistica (ma solo per una clientela selezionata, perché anche la decenza ha i suoi must), poi aveva accettato di vendere la propria partecipazione ad alcuni cocktail esclusivi e persino di dar lezioni di flamenco ad una giovane e rivoltante ereditiera, tanto racchia quanto imbranata… forse pericolosamente interessata.
Gin.
Era stato proprio alla fine dell’ultima, deprimente lezione di danza che Manuel aveva fatto la conoscenza di Italo, il Troncato.
Meglio, l’uomo era disteso per terra a trafficare con i cavi d’uno di quei diabolici attrezzi cubiformi che tanto contribuiscono a rendere dozzinale quest’epoca, e Manuel gli aveva calpestato inavvertitamente le dita dell’unica mano.
<< Lo siento [Mi dispiace] >> precisò subito con solerzia
<< Pu-pure io >> mugolò Italo, stringendosi la mano ferita sotto l’ascella.
Quello fu l’inizio.
Italo… Italo.
Buffo ometto: alto appena un metro e cinquanta, biondo, quasi albino, con capelli tagliati a spazzola, occhiali a doppio fondo e privo della mano sinistra.
Dunque, che altro… ah, si, orribile naturalmente: tartassato da una strana dermatite molto simile all’acne giovanile, bilanciava due occhietti puntiformi e troppo vicini con un grosso nasone a patata. Aveva gambe tozze e grasse, sproporzionate sia rispetto al busto sia rispetto alle spalle, un pò curve e rachitiche. Due braccia scimmiesche e sgraziatamente lunghe (nonostante il moncherino) completavano il quadro in asimmetrico contrasto. E balbettava. Si, balbettava, ma solo quando perdeva il controllo della propria emotività o gli si calpestava la mano sopravvissuta.
Italo.
Un paggio? Un nano? Un cabarettista prezzolato, come s’usa chiamare oggidì i giullari?
No, un tecnico di computer. Manuel l’apprese con stupore pochi minuti dopo, mentre gli offriva un aperitivo e cercava di farsi perdonare la dolorosa zappata.
Non fu un esordio piacevole, a dire il vero, e l’intera situazione aveva del grottesco tanto che ad un certo punto il giovane conte si sentì a disagio. Persino il bar era buio e sporco, con tavolacci luridi e privi di tovaglie sostituite da un rettangolino beige di carta da pacchi, all’americana.
Inoltre era un locale turistico, quindi carissimo, perché i gitanti che hanno conquistato Venezia adorano farsi salassare in letamai che coniugano il fascino d’uno spaccio per rifugiati congolesi alla rude villania d’un Francis Drake travestito da barman.
<< Dunque lei è un conte >> gracchiò improvvisamente l’ometto. Anche la sua voce era sgradevole, povero.
<< De Carimacon y Margravio delle Piccole Indie >>
<< Ne ha i modi e il portamento, in effetti… ma non sembra averne anche le fortune >> osservò il tecnico con un certo acume, ma senza la benché minima delicatezza.
<< La fortuna è un’amante lasciva ma volubile >> si difese Manuel, con allusiva noblesse.
<< … ma è anche un’amante che si lascia conquistare con una certa facilità >> continuò il suo interlocutore << Una troia >>
Lisabeth… << Cameriere… un gin, sia gentile >>
<< Diceva? >>
<< Dicevo che la fortuna si fa conquistare. “Fortuna audax iuvat”, conosce il latino? >>
<< Lo parlo, e non sto scherzando >>
<< Allora mi ha capito >>
<< Non del tutto. Mi sta proponendo qualcosa? >>
<< Si. Una società, ad essere precisi >>
<< Io e lei? >> Lo spagnolo era talmente sbalordito che ad ogni interpunzione successiva la sua voce parve salire di un ottava << Io, il Conte di Carimacon, e lei un manovale. Si, un operaio… oh, insomma, uno smanettone? >>
<< Ingegnere, grazie >>
<< Quello che è >> taglio corto Manuel, non rilevando differenze semantiche significative << Come potrebbero, uno come lei e uno come me, avere interessi comuni? >>
<< Avendo bisogni comuni: ambizioni e denaro. Entrambi abbondiamo delle prime, ma scarseggiamo del secondo. Mi sbaglio? >>
<< No >>
<< Allora le proporrei di continuare la conversazione in un luogo più discreto. Ha preferenze? >>
Un attimo di silenzio, poi Manuel decise << I miei alloggi, col loro banale squallore, mi sembrano quanto mai indicati ad approfondire l’argomento, mister Italo >> e pregustò, con una sorta di autoflagellazione interiore che rasentava il masochismo, la perfetta integrazione estetica tra il suo interlocutore e le mura del sozzo bugigattolo nel quale trascinava la propria sventurata esistenza.
Ciò detto, tracannò il drink ed estrasse un biglietto da visita, uno di quelli prestampati, da distributrice automatica << Fra tre giorni, alle cinque in punto >> salutò Manuel. Poi inforcò l’uscita scordando i piccoli, fastidiosi dettagli legati della consumazione.
Un ronzio metallico. No, una strana vibrazione, come il volare d’un moscone.
Le cinque in punto, constatò Manuel sul quadrante del suo inseparabile Rolex. Ne accarezzò il lucido cinturino e per l’ennesima volta si ripeté che si, aveva fatto bene a stringer la cinghia pur di non separarsi da quel piccolo status symbol, uno dei pochi che gli fossero rimasti.
Il ronzio si fece nuovamente sentire. Più insistente, nervoso.
Che noia la gente maleducata: sempre frettolosa, inquieta, incapace di vivere la vita al suo ritmo naturale, che come tutti sanno è quello di un valzer o di una gondola.
Manuel pigiò l’interruttore automatico senza nemmeno degnarsi d’usare il citofono per verificare l’identità dell’ospite.
Italo, il Troncato, si materializzò in un baleno sull’uscio di casa. Face capolino per accertarsi di non aver sbagliato interno, quindi scalciò sullo zerbino una, due, tre volte, con una veemenza esagerata che avrebbe potuto ricordare gli ardori di una talpa in estro.
Gin? No, non ancora.
<< Eccomi qua >> esordì l’ingegnere. Armeggiò coi gancetti di un’orribile cartellina blu elettrico ed estrasse un sottile plico di carta spiegazzata << Ed ecco qui anche il mio curriculum >>
<< Curriculum? >> chiosò Manuel interdetto e aggrottò un po’ la fronte come per acuire al massimo le proprie facoltà deduttive << Di grazia, cosa dovrei farmene del suo curriculum? >>
<< Lo legga: è sempre meglio sapere con chi si ha a che fare >>
Manuel fece spallucce, indicò all’ospite la brandina metallica che fungeva da letto e, per canto suo, si sedette sull’unica poltrona della stanza, tragicamente sfondata. Compì ogni gesto con grazia estrema, sfoggiando inconsapevolmente quell’elegante portamento alla Humphrey Bogart che da sempre padroneggiava, poi sorrise e si concentrò sulla lettura con cortese distacco.
<< Bene, bene… >> scandì dopo qualche minuto << molto singolare, non c’è che dire… qui è specificato che nel ’92 è stato persino… >>
<< in galera >> l’anticipò l’omino, con una certa fierezza.
<< Delinquente? >>
<< Neofascista: mi hanno rilasciato quasi subito >>
<< Ah >> esclamò Manuel, con britannico autocontrollo << Io non ho pregiudizi di sorta: un nonno franchista e un fratello sandinista mi permettono di osservare il ring della politica da una certa equidistanza >>
<< Guardi, se è per quello io credo ancora, ma son quasi dieci anni che non frequento più.
D’altra parte, non so in Spagna, ma qui in Italia c’è un tale casino che non ci si raccapezza: diversi camerati sbarcano il lunario come mercenari nei no-global. L’antisemitismo old-style vivacchia solo in alcuni centri sociali, ma anche quelli son diventati luoghi troppo esclusivi: tra figli di papà e forzati della trasgressione, non se ne può più >>
<< Com’è vero, signore mio, com’è vero ciò che dice. E non solo in Italia, sa? >> ribatté Manuel. Quindi passò ad esporre una sua personalissima teoria politica, frutto di una giornata particolarmente ispirata.
Secondo Manuel, dopo il rovinoso crollo dell’Unione Sovietica, i comunisti di tutto il mondo – tranne naturalmente quel ritardato mentale di suo fratello Alejandro – avevano rinunciato per sempre alla loro natura sovversiva per slittare al centro, verso i socialisti. Questi, di conseguenza, si erano visti costretti a cercare un lebensraum politico negli spazi del vecchio partito liberale, il quale a sua volta si era spinto a destra innescando un processo a cascata che potrebbe avere un parallelo storico nelle invasioni barbariche.
I più penalizzati dall’intero fenomeno, sempre secondo Manuel, alla fine sarebbero stati i rappresentati dell’estrema destra, già al limite dell’anfiteatro politico e pertanto impossibilitati a migrare oltre.
Costoro dunque, pungolati da un concreto rischio d’estinzione, avrebbero dato fondo ad ogni energia residua riuscendo ad elaborare in poco tempo una concezione copernicana, rivoluzionaria, della politica che avrebbe permesso loro di trascendere come il Buddha: morire per rinascere dalla parte opposta, sulle ceneri della protosinistra populista, contadina, sottoculturata e valdeana. In Italia, concludeva Manuel, il frutto finito di tale evoluzione veniva chiamato Lega.
<< Molto, molto sottile, davvero >> commentò Italo, il Troncato, dopo un attimo di riflessione << D’altra parte si pensi che Celine un tempo passava per parafascista, mentre oggi lo si ritiene quasi parte del patrimonio pluralistico social-liberale: shift, nient’altro che un banale shift. Acuto, molto acuto >>
Ma tu guarda, si stupì Manuel, leggermente lusingato, il brutto anatroccolo nasconde persino un substrato letterario << Amen. Panta rei, tutto passa, tutto cambia >> sentenziò invece, chiudendo l’argomento e manifestando la chiara intenzione di piantare un paletto divisorio tra la sua persona e il sottoprodotto umano col quale intratteneva conversazione. Un limes, una pietra miliare, la quale, insieme al lignaggio, contribuisse a scavare un incolmabile solco tra i due e a stabilisse fin da subito un’incontestabile egemonia intellettuale.
<< Mi tolga una curiosità >> aggiunse un istante dopo, cambiando volutamente discorso << sempre se non sono indiscreto, naturalmente >>
<< Prego, prego, non ho segreti >>
<< Come le è successo… Si insomma, come ha perso la mano? >>
Italo, il Troncato, sollevò con malagrazia il moncherino all’altezza del viso << Questo? >> gracchiò, sventolandoglielo fin quasi sotto il naso << Fu nel ’96, ai tempi dell’università >>
<< Incidente di macchina? >>
<< Non proprio: a quei tempi prendevo il treno due volte al giorno. Una sera di febbraio le portiere d’una sovraffollata carrozza per pendolari si sono chiuse sulla mano serrandola come in una morsa. Svenni per il dolore, ma nella calca non se ne accorse nessuno. Mezz’ora dopo, quando le porte si riaprirono, l’arto era ormai congelato ed in principio di necrosi. Fu necessario amputarlo >>
Gesù, che modo assurdo per perdere una mano, pensò Manuel.
Che idiozia, che demenzialità, che sfiga.
<< Numi, dev’essere stato orribile! >> disse invece, con tatto e partecipazione. Quindi, per esercizio, sforzò al massimo la propria immaginazione per figurarsi uno di quei carri bestiame che con scelta quanto mai felice vengon detti vagoni di seconda classe.
Costruì con cura una rappresentazione mentale che comprendesse il suo squallido interlocutore, un po’ più giovane, un po’ più timido, altrettanto brutto e someggiato d’uno zainetto a colori vivaci. Se lo dipinse privo di sensi ma pur sempre eretto, grazie alla calca animale.
Si concentrò un po’ di più e subito la visione si allargò, come diretta dalla sapiente regia di un Brian de Palma. Apparve un convoglio lanciato a velocità folle attraverso la campagna gelata. Finestrini, finestrini, finestrini, finalmente una portiera: da essa, rigida e morta, garriva immota una tozza appendice umana congelata.
Squirl, squirl, squirl… incalza il jingle di Shining flirtando col caratteristico battito cardiaco della ferrovia.
Lo sforzo speculativo del giovane fu interrotto bruscamente dalla voce un po’ querula e gracchiante del suo ospite << Senta, è già mezz’ora che sono qui, che ne dice se veniamo al sodo? >>
Dannata fretta plebea.
Gin.
<< Esponga, esponga la sua proposta, la prego >>
<< Dunque >> iniziò il Troncato, portandosi due dita al colletto della camicia sudicia e strattonandolo, allentandolo con evidente disagio << Lei deve sapere che io bazzico molto in Internet. Ci vivo, se vogliamo, e li ho mille identità, mille antenne, mille contatti: sono un fascinoso gigolo, un killer spietato, un esperto d’informatica o un vecchio partigiano un po’ smemorato o infinite altre cose, naturalmente >>
<< Sbalorditivo >> fu lo speziato commento di Manuel.
<< Ecco, si… in questo modo sono riuscito ad avere un co-contratto. Un gran contratto, a dire il v-vero >> balbettò il Troncato.
<< Sempre più emozionante >>
<< D-d-ddddieci milioni di euro >>
<< Pr-prego? >> tossì Manuel.
<< Come le ho detto >> continuò l’omino, riassumendo il controllo della propria emotività e delle corde vocali << Dieci milioni di euro. Cash >>
<< E cosa dovrebbe fare per una cifra del genere >> sorrise il conte << uccidere qualcuno? >>
Una boutade, un modo di dire. Manuel non si aspettava certo che il suo interlocutore restasse zitto ed immobile. Che poi annuisse piano, sempre senza proferir parola.
<< Ossignore >>
<< Già. L’obiettivo è una persona di rango, io posso tracciarla, seguirla, studiarla fin nel minimo dettaglio, ma mi serve qualcuno che l’avvicini e arrivi li dove internet è cieca. Mi serve un insospettabile gentleman, un nobiluomo dal sangue freddo e senza nulla da perdere >>
<< E per questo ha pensato a me >>
<< Infatti, signor conte. Anzi, Manuel: ti dispiace se, arrivati a questo punto, mi prendo la libertà di darti del tu? >>
<< Faccia come crede >> rispose l’ultimo degli Ibanez y Ruiz de Alliende, Conte de Carimacon e Margravio delle piccole Indie.
Aristocraticamente assiso sulla poltrona sfondata, controllato nei tratti, impeccabile nella postura, il suo busto prestante, perfino atletico, si lasciava blandire da una candida camicia Armani aperta con studio fino alla terza asola. La schiena eretta come un asparago, si manteneva con elvetico rigore a venticinque centimetri esatti dallo schienale consunto. Il piede sinistro leggermente avanzato accompagnava la musica muta delle braccia: rilassate, dai movimenti lenti ma naturali, impercettibili ma significativi. E infine, a coronare l’opera, quasi l’ultimo tocco realista d’un maestro fiammingo del ritratto, il mento: leggermente sollevato, altezzoso, puntato li dove insisteva lo sguardo fiero, ombreggiato appena da una frangia un po’ troppo lunga ma curatissima.
<< Faccia come crede >> ribadì Don Manuel, fiero di se stesso e dell’incolmabile gap << ma spero che capirà se io continuerò alla vecchia maniera: il tu non lo usavo nemmeno con mio padre – che Dio l’abbia in gloria – e non vedo il motivo per riservare alla sua persona una confidenza così intima. Preferisco coltivare l’illusione che il nostro rapporto resti confinato al campo professionale, comprende? >> concluse il giovane, sperando che il pungente, caustico messaggio venisse recepito.
<< Non del tutto >> confessò il Troncato << ma comunque ok: io ti do del tu e tu mi dai del lei, contento? >>
Fatica sprecata. Eufemismi, giri di parole, sottili allusioni erano sussurri in una tempesta quando ci si trovava costretti a trattare con certi trogloditi.
Amen. Manuel accondiscese con frustrato distacco.
Gin.
Si un bel bicchiere di Gin era proprio quello che ci voleva. E non da buttare nel lavandino o nel water, questa volta, ma da tracannare d’un fiato, alla cosacca, incendiando gargato ed esofago, respirando forte per sentire quel doloroso pizzichio ai polmoni.
Dieci milioni di euro.
Una cifra niente male, dieci milioni.
<< Mister Italo, una precisazione >> disse invece << Mi faccia capire, lei si aspetta che io alla fine… >> Manuel non trovava le parole.
<< Bonifichi il target? >> lo aiutò il Troncato << No, no di certo! Siamo una squadra e ognuno ha il suo ruolo. Ti ho studiato, sai? Penso di sapere ciò che sei disposto a fare e soprattutto ciò che sei in grado di fare >>
Sorpreso e un po’ interdetto, Manuel sollevò un sopracciglio, esprimendo una tacita ma esplicita domanda.
Italo corrugò la pelle butterata del viso in una smorfia decisamente sgradevole: stava sorridendo.
<< Ti ho detto che sono bravo, no? >> esordì, aprendo la sua inseparabile cartellina blu elettrico.
Armeggiò per una decina di secondi prima di estrarre un enorme plico straripante di fogli e fogliettini. Lo aprì, ne controllò meticolosamente il contenuto e poi lo lanciò al suo interlocutore << Al volo, eh? >>
Selvaggio.
Manuel agguantò senza scomporsi il frisbee improvvisato e si concentrò nella lettura.
Incredibile.
Già dopo poche pagine le capacità dello squallido ometto si manifestavano in tutta la loro imbarazzante evidenza: quella creatura era riuscita a scavare così a fondo nel suo passato da scoprire dettagli che lo stesso Manuel aveva rimosso.
Come diamine aveva fatto? E in così poco tempo, per di più!
C’era di tutto, davvero, perfino alcune fotografie della sua infanzia. E poi il babbo, la mamma, alcune istantanee che lo ritraevano insieme ad Alejandro durante una festa di carnevale. Che bei ricordi: il piccolo Manuel indossava un costume da Re Giovanni Senza Terra e il fratello maggiore impersonava Robin Hood… il giovane si fermò un attimo a riflettere. Coincidenze.
E poi cosa c’era, ancora?
Vogue? Un numero di cinque anni prima, che senso aveva?
Aspetta, aspetta… lingerie. Uno special su un nuovo, atomico reggiseno che…
Lisabeth. Il suo primo servizio d’eccezione.
Gin, gin, subito del gin.
Da gettare in canale, da versare nel water, da scaraventare in un pozzo nero << Gradisce un pò di gin, mister Italo? >>
<< Oh, si grazie. Gentilissimo >>
<< Ma le pare, semplice cortesia >>
Un nanetto negro con la maglietta del Real.
<< Finisca pure la bottiglia, non si formalizzi, non faccia economie >>
<< Impressionante >> concluse Manuel dopo aver sfogliato l’intero contenuto della cartellina << Davvero impressionante. Suppongo che ciò debba essere interpretato come un saggio della sua abilità nel reperire informazioni o, se preferisce, nel “tracciare” individui >>
<< Esatto >>
<< Comprenda però il mio scetticismo >> continuò l’aristocratico << Io sono disperato e questo è evidente. Sarei anche disposto ad uccidere per una cifra adeguata, e dieci milioni di euro lo sono di sicuro. Dalle sue scoperte, però, avrà dedotto che anche volendo non avrei la capacità (nemmeno il fegato, probabilmente) per – com’è che ha dettò – ah, si, bonificare un target.
Di conseguenza, mi permetta di reiterare il quesito che le ho posto poc’anzi: come pensa di onorare il contratto? Lei, me ne conceda la libertà, sembra addirittura meno adatto di me >>
Italo ridacchiò di gusto. Un suono sgradevole, come tutto ciò che avesse a che fare con quell’individuo: ricordava una caffettiera, o il fischiotto di un asmatico, o il sibilo irregolare d’un disgraziato affetto al contempo da enfisema polmonare e da singhiozzo.
<< È per questo che ho coinvolto un professionista >> disse tronfio << E che l’ho invitato qui, in casa sua. Dovrebbe arrivare, vediamo… tra quindici minuti >>
<< Qui, in casa mia! >> gridò Manuel, perdendo di colpo l’eleganza della postura << Dico, un filibustiere tra le mie mura! Ma è impazzito, ma io vi caccio entrambi! >> era furioso, anzi no, impaurito. Più impaurito che furioso.
<< Calmati, cabalero: questa non è una casa, è una topaia. Qui non ci vivi, ci agonizzi insieme a ciò che resta del tuo orgoglio. E soprattutto queste mura fatiscenti non sono tue, ma in affitto… finché avrai denaro per pagarne la pigione >>
Le parole di Italo investirono il trentanovesimo conte di Carimacon come altrettante frustate sul retrobocca. La loro crudezza, la loro nuda essenzialità, la loro realtà quasi lo stordirono.
Sprofondò nella poltrona, Manuel: la resa, la debacle.
Contemporaneamente e quasi per contrappasso l’ingegnere, galvanizzato dal trionfale confronto di volontà, s’alzò in piedi dando vita alla parodia d’un altalena.
Il mutilato sprizzava emozione da tutti i pori, non riusciva a contenersi. Cominciò a controllare ossessivamente l’orologio, girovagando per la stanza e balzando di qua e di la come un saltapicchio. Iniziò anche a parlare a voce alta, a magnificare le doti del terzo convenuto, ricordandone le prodezze più a se stesso che al suo prostrato interlocutore.
Fu così che Manuel fece la sua prima, virtuale conoscenza col terzo ed ultimo socio.
Socio… che parola orribile, borghese, da bottegaio.
Dov’era finita la bottiglia di gin?
Secondo quella subcreatura saltellante e ciarliera che gli aveva invaso la casa, il killer doveva chiamarsi Chani, o qualcosa del genere, ma si fregiava anche d’un nome d’arte… com’è che aveva detto? Ah si: the Blak Sun. Che banalità.
Era originario del Libano, di Israele o della Barbagia. Insomma, di uno di quei paesi, assolati e inquieti, popolati da caprai che s’ammazzano tra loro per tradizione.
A sentire l’ingegnere questo Chani era un vero artista, un virtuoso dell’omicidio, ed armi bianche, esplosivi o veleni non avevano segreti per lui.
Non solo, ma tra gli specialisti si vociferava che costui, in circostanze estreme, fosse in grado di dar fondo ad un’impareggiabile fantasia creativa che gli permetteva esecuzioni assolutamente spettacolari. Era sua, per esempio, la variante della classica decapitazione jihadista eseguita con la lama spuntata di un silkepil: una prodezza tutt’oggi molto commentata.
Il Troncato era letteralmente entusiasta d’essere riuscito ad ingaggiare una leggenda vivente come Chani.
No, non semplicemente ingaggiare, ma addirittura entrarvi in società: avere il privilegio d’onorare un contratto insieme a lui. Pertanto, più si avvicinava l’ora del fatidico appuntamento e più l’omino s’agitava, dipingendo the Blak Sun come un magnifico ed eclettico angelo della morte, leale e professionale. Sbrodolandosi addosso un fiume di parole che, a causa dell’emotività incontrollata, si spezzavano in un balbettio verboso ed insensato.
Manuel, dal canto suo, avvertiva un groviglio alla bocca dello stomaco, un atroce nodo gordiano che sospettava legato all’imminente ingresso, nella sua già meschina esistenza, d’un pericoloso assassino patologico.
E tutto ciò, pensò mestamente, è accompagnato dalla scomparsa della bottiglia di gin.
Ronzio.
Ronzio metallico.
Soffice, deciso, netto ma non insistente, ronzio metallico.
<< Il ca-ca-campa. Il ca-ca… >> l’ingegnere s’alzò in piedi, caracollò prima a destra e poi a sinistra, improvvisando un passo a metà tra il tango e una crisi epilettica.
<< Non si scomodi >> intervenne Manuel, che aveva già ripreso il controllo tanto della propria emotività quanto della situazione contingente.
Era una capacità scrupolosamente coltivata fin dalla prima infanzia grazie alla ferrea educazione impartitagli da personale altamente qualificato ed appositamente selezionato. Tra i propri precettori, infatti, entrambi i rampolli di casa Carimacon avevano il privilegio di annoverare maestri di vita quali un dittatore angolano spodestato, un vecchio funzionario della polizia segreta franchista, un vescovo senza portafoglio e l’immancabile istruttrice bavarese, frigida e misantropa, ma con un fascinoso passato ricco d’ombre e di segreti mercenari.
Come poche ore prima, dunque, il Conte di Carimacon pigiò l’interruttore automatico dell’apriporta e non si curò di verificare l’identità del suo nuovo ospite. Si diresse, invece, verso la già nota poltrona e vi si accomodò, pronto ad affrontare a testa alta qualunque cosa o creatura travalicasse i confini dell’appartamento, fosse anche Dio, il Demonio o il fantasma di Mao Tze Tung. “Firmeza y honor”, come recita il motto immortale della casa Carimacon.
Dapprima non si sentì nulla.
Poi, sibilante, il rumore lamentoso del portone d’ingresso che si piegava su se stesso, protestando cupo e sinistro.
Quindi i passi.
Leggeri e struscianti sui gradini ma più nitidi sui pianerottoli. A tratti sonori, secchi come ossa che si spezzano.
Il ritmo, soprattutto, era singolare: lento e controllato, tanto che ai due soci, consumati dall’attesa, sembrava d’esser piombati in uno di quei campi di stasi temporale la cui intuizione fisico-matematica è forse il più alto omaggio alla scienza tributato da Star Trek.
Istanti magici e terribili, capaci di dilatare o contrarre i secondi e con essi i sogni e i timori degli uomini. Talvolta anche gli orgasmi, ma decisamente non in quell’occasione.
Finalmente, quando piacque a Dio e al misterioso convenuto, lo stillicidio di quei passi semi-ticchettanti finì. Manuel s’accorse di trattenere il respiro, mentre il Troncato, armato di spruzzino per asmatici, inalava vigorose boccate d’una sostanza psicoattiva dalla quale aveva appena scoperto di dipendere in modo morboso.
Poi la porta oscillò, aprendosi con lentezza.
Manuel ammiccò incredulo. Il monco si alzò in piedi, si sedette, si alzò e si risedette di nuovo, il tutto a velocità warp. Entrambi fissarono la figura del terzo socio.
Per un attimo l’intero universo parve bloccarsi e un silenzio irreale dominò il mondo.
<< Pzzzzfffttt >> sussurrò lo spruzzino per asmatici, rimettendo in moto le sfere celesti e scongiurando così l’apocalisse.
Alta un metro e settantacinque, centimetro più o centimetro meno, sinuose le curve morbide, e sode e miotiche al contempo, con una silhouette provocante che ricordava le più applaudite creazioni di Pininfarina.
Corvini i capelli e lisci di seta. Lunghi fino a sfiorare il seno giunonico, che non riusciva, che non poteva contenere l’arroganza dei capezzoli, ma si limitava a sorreggerli, a sollevarli in una sorta d’inno pagano ad una divinità solare.
Un passo, poi un altro e un altro ancora, lentamente la ninfa mortale conquistò l’atrio muto d’un anonimo bugigattolo veneziano. La sua pelle era bronzo, ma con riflessi d’ottone. La sua bocca era tumida, carnosa, senza trucco ma d’una naturale tonalità rosso-violacea, come di prugna acerba. E gli occhi… oh, i suoi occhi erano impossibili: leggermente a mandorla, grandissimi, di un color castano talmente chiaro da sembrar ocra, quasi giallo, come le iridi d’un leone o di una tigre indiana.
La creatura si fermò al centro della stanza.
Sorrise e fu come se un calcio di mulo sfondasse lo sterno ai presenti.
Ecco Chani, bella e terribile, onirica e fatale.
Ecco Chani, in tutta la sua maestà.
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