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Giustizia? Etica?
Valori relativi, piegati al capriccio e alle testarde convinzioni dell’uomo.
È etico ciò che ho fatto? È giusto?
Solo io, che conosco tutti i risvolti della faccenda, posso giudicarlo.
E allora decreto “Si, è giusto”. È giusto perché io sono imputata, giudice e giuria.
È giusto perché etica e giustizia dipendono dallo spazio e dal tempo e, qui ed ora, io regno sovrana.
Di cosa stiamo parlando? Di questo:
<< Avevo 17 anni e mi sarei dovuta sposare già da un pezzo se la mia famiglia non fosse stata talmente povera da non potersi permettere una dote.
Così dovevo aspettare.
Aspettare e sognare, mentre aiutavo mia cognata Maya ad allevare i suoi tre figli.
Maya mi raccontava cosa volesse dire avere un uomo, mi raccontava ciò che faceva nell’intimità con mio fratello Padmaj e come fosse possibile scovare sempre nuovi modi per provare piacere. E le brillavano gli occhi quando lo diceva, ed era sempre impaziente che Padmaj rincasasse per appartarsi con lui. E l’indomani raccontava. Ed io aspettavo.
Dicevano che fossi molto bella e probabilmente era vero, a giudicare da come mi guardavano i ragazzi, ma io avevo occhi solo per uno di loro: Upendra, il figlio del pescatore, che aveva più o meno la mia età, era forte come un toro e bello come un dio.
Sapevo di piacergli e speravo che suo padre mi chiedesse in sposa per lui, ma prima che ciò potesse accadere mio fratello ricevette un’offerta molto vantaggiosa da parte di Bishima, un vecchio con oltre quaranta primavere alle spalle, abbastanza ricco da pretendere una dote praticamente simbolica.
Ero disperata e passavo interi pomeriggi a piangere, ma un giorno, mentre raccoglievo l’acqua dal pozzo del villaggio, una delle sorelle di Upendra, la più piccola, mi portò un involto colorato e mi disse: “Se vuoi sapere chi te lo manda, seguimi.”
Non me lo feci ripetere e la seguii fino al limitare della foresta. Li, nel luogo in cui le orchidee scolpiscono un’impossibile cascata violetta, come speravo, trovai il ragazzo di cui ero innamorata.
Lui mi chiese stupito: “Ma come, non hai ancora aperto il mio regalo?”
Allora io svolsi la stoffa e vidi questo foulard da sogno che porto indosso, era il più bello che avessi mai visto. Delicato, prezioso, un regalo principesco, il mio foulard delle orchidee, guardalo…
“Sono mesi che lavoro per comprartelo, Ramilla” mi disse “Per farti vedere quanto ti voglio bene, quanto ti desidero e per donarti qualcosa che non sfiorisca di fronte alla tua bellezza” ed io abbassai lo sguardo, tanto ero felice.
Restammo insieme fino all’imbrunire, Upendra ed io, a parlare, a guardarci, a sognare il futuro. Sempre sotto lo sguardo della sorellina, per salvare le apparenze. E ci rivedemmo spesso, quasi ogni giorno, sempre allo stesso modo. Io indossavo il foulard, per apparire ancor più bella ai suoi occhi e per fargli sentire che ero sua come un’onda appartiene al mare.
Lui sapeva del contratto che mio fratello stava stipulando con il vecchio Bishima, ed era disperato quanto me, tanto che un giorno, dopo aver parlato a lungo, decidemmo di fare una follia: ne parlammo a lungo.
Quella notte, quando tutti dormivano, ci incontrammo vicino al pozzo, corremmo insieme fino al fiume e li ci nascondemmo tra l’erba e le canne. Oh, ero eccitatissima e più lo guardavo più mi piaceva. I suoi muscoli sodi e ben definiti risaltavano sotto la pelle scura e il petto era ampio e liscio come il foulard che mi aveva regalato.
Ci inginocchiammo uno di fronte all’altra. Io non sapevo come comportarmi e nemmeno lui sembrava molto esperto. Mi sentivo come ubriaca di felicità e di fantasia, con i racconti intimi di mia cognata che mi martellavano in testa come una canzone. Non lo baciai sulla bocca: non avevo il coraggio di farlo, perché mi sembrava troppo audace. Posai invece il viso e le labbra calde sul suo petto che odorava di uomo.
“Oh, Ramilla, sei come un sogno” mi disse “facciamolo, facciamolo subito: se non sarai più vergine il vecchio Bishima non ti vorrà più e allora io ti chiederò in sposa. Anche se per dote avrai solo la tua bellezza, per me andrà bene. Guardami, Ramilla, sono giovane e forte e non ti mancherà nulla se starai con me”.
E mentre mi parlava, mi coricò dolcemente sull’erba e mi alzò la gonna scoprendomi il ventre. Quindi si spogliò davanti a me ed io lo guardai bene, imprimendomi nella memoria ogni particolare: i suoi capelli lunghi e leggeri come una poesia, gli occhi e i denti, candidi come le perle di un Rajah, la sua sagoma nera disegnata sullo sfondo di un mare di stelle che sembravano ballare di gioia, come gli invitati al nostro futuro matrimonio.
Si, lo so che deve aver fatto in fretta a svestirsi, eppure a me quegli attimi sembrarono lunghi e pieni come una vita intera.
Quando fu completamente nudo si stese su di me, prese il foulard che mi aveva regalato, lo attorcigliò e mi disse “Apri la bocca”. E io aprii, obbediente.
“Mordi.” Morsi.
“Se ti faccio male non gridare, altrimenti ci scopriranno, ma mordi il foulard e aggrappati a me”. Annuii.
Poi sentii che cercava la giusta posizione tra le mie cosce. Cercai di divaricarle, impaziente, ma nello stesso istante lui mi penetrò. Sicuro. Virile.
Non so se mi sverginò subito, ma non penso, so solo che morsi il foulard e gemetti, mio malgrado.
“Ssssttt” mi disse e per enfatizzare il concetto mi tappò energicamente la bocca con una mano. E poi spinse, spinse, spinse. Sentii ancora più male e morsi ancora più forte, mentre un velo di lacrime mi impediva di vedere la danza delle nostre amiche stelle. Poi lo sentii sprofondare in me e fui felice. Si felice, perché finalmente ero una donna!
L’idea di accogliere un uomo dentro era meravigliosa, nonostante il dolore, ma tutto ciò durò solo un attimo, perché Upendra mi premette ancor più forte la mano sulla bocca, gemette a sua volta e usci, bagnandomi il ventre col suo seme.
Non era stato come mi aspettavo. Molto diverso dai racconti estasiati di Maya.
“Ti amo” sussurrò Upendra e la mia delusione scomparve.
“È la prima volta - pensai - la prossima non mi farà male e sarà talmente bello che quando lo racconterò a Maya lei arrossirà di invidia”
“Anch’io”, risposi.
Poco dopo ci separammo come due predoni notturni, ma nell’allontanarsi Upendra mi promise “Ti sposerò, Ramilla, ricorda: nulla e nessuno potrà dividerci, perché tu sei per me la luna e le stelle”.
Ed io corsi a casa ubriaca delle sue parole e felicemente sicura che, ora, il vecchio Bishima non mi avrebbe più voluta per se.
Infatti, l’indomani, quando la mia futura suocera constatò che il mio fiore era già stato colto, il contratto nuziale stipulato tra mio fratello e il vecchio Bishima sfumò, con grande disappunto di Padmaj.
Mio fratello mi batté forte, disse che ero una vergogna, una prostituta e mi prese a calci e mi segno la schiena con una verga, ma io sopportai tutto perché sapevo che sarebbe finita e sapevo che quelle botte erano il prezzo della mia felicità.
Ciò che non potevo immaginare, invece, era quello che sarebbe accaduto in seguito.
Il giorno dopo, poco prima di pranzo, Padmaj venne a cercarmi scuro in volto. Mi aspettavo ancora botte, invece mio fratello si fermò a due passi da me, con un recipiente di latta in mano e mi chiamò: “Ramilla”.
Alzai lo sguardo, che avevo abbassato per rispetto ed umiltà, come mi era stato insegnato, e contemporaneamente sentii uno schiaffo liquido in pieno volto.
Era acqua!
No, era fuoco!
Gridai, ma le mie grida non alleviarono la pena. Non richiamarono nemmeno aiuto.
Istintivamente portai le mani al viso, con il solo risultato di moltiplicare il dolore e di bruciare anch’esse.
Poi caddi in ginocchio di fronte a Padmaj e ancora non capivo, non riuscivo ad immaginare. “Perché? Perché?” gli chiesi “Siamo fratelli, siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme, ho allevato i tuoi figli! Perché?”
Ma lui non rispose. Non mi sfiorò nemmeno, mi sputò addosso e se ne andò. E poi non ricordo cosa accadde.
Quando mi ripresi era già notte ed ero ancora li dove ero caduta.
Sola.
Nessuno nel villaggio mi aveva soccorsa né toccata, perché Padmaj aveva agito nel suo diritto.
Volto e mani erano di fuoco e pensai che l’unico che potesse aiutarmi fosse il mio Upendra.
Ma mi sbagliavo.
Quando Upendra mi vide così ridotta, una caricatura di un essere umano, mi cacciò via e disse che lui aveva amato una bella ragazza e che ora ero più orribile di una scimmia. Disse che mi proibiva di andargli davanti perché la mia vista lo disgustava.
Anche piangere era una sofferenza, tanto fisica quanto morale e non fu di sollievo, come dicono.
Da allora cerco di sopravvivere come capita. Non posso vendere il mio corpo perché nessun uomo pagherebbe per venire a letto con me, perciò non mi resta che mendicare. >>
Così Ramilla terminò il suo racconto lasciandomi senza fiato.
Quando mi ripresi le chiesi se potevo comprare la sua storia, ma fu complesso farle capire, tramite l’interprete, il baratto che le proponevo.
Alla fine accettò (che altro poteva fare, poveraccia?), ma poiché non comprendeva come si potesse acquistare solo un racconto, volle darmi in cambio il famoso foulard delle orchidee, il pegno d’amore di Upendra. Al momento non mi parve sconveniente e concludemmo l’affare.
Solo in seguito, ripensandoci, rividi lo sguardo di Ramilla mentre mi cedeva il foulard.
Solo in seguito realizzai che quello era, nonostante tutto, uno sguardo di infinito rimpianto.
Solo sull’aereo, che volava libero come lo è un gabbiano e come lo sono io, compresi di aver acquistato, per un pugno di rupie, i sogni, i ricordi e la vita stessa di un altro essere umano.
Ho scelto di condividere questa storia forse per alleviarmi la coscienza o forse perché ormai l’ho cinicamente comprata. Ora che l’avete letta, sotto un certo aspetto, siete diventati miei complici. Potete benedirmi o maledirmi per questo, ma alla fin fine non significa nulla, perché fra qualche giorno l’avrete dimenticata.
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