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Odio i funerali, qualunque sia il credo.
Odio quel miscuglio di dolore, presenzialismo, sfoggio e ipocrisia.
Odio il pomposo spreco di risorse per ciò che non è vita, ma una celebrazione della sua nemesi.
Odio il morto, le sue volontà, il suo imporsi ai vivi con muto, invincibile ricatto.
Lo odio, anche se da vivo gli volevo bene.
Eppure anch’io sono vittima del ricatto. Mi trovo costretta ad andare li, a sentire le parole vuote di un prete (che tra l'altro sono quasi identiche a quelle di un rabbino), a vedere il dolore di alcuni e le lacrime circostanziali di altri. A vivere, ospite, il disagio di una celebrazione che non capisco e che non mi appartiene.
Ero in vaporetto e pensavo a tutto ciò quando un ragazzo si è seduto al mio fianco.
Carino. Molto carino: carnagione scura, abbronzata, capelli castani ma piacevolmente mossi. Un bello sguardo dolce, un bel viso. Belle spalle e un culo niente male.
<< Signorina >> chiese << Signorina, va tutto bene? >>
Evidentemente non avevo un aspetto radioso.
<< Si, si, tutto bene, la ringrazio >>
<< È che sembra un po’… mi permette di offrirle qualcosa? >>
<< Non si preoccupi, non sono prossima ad un mancamento, davvero… sono solo un po’ scossa perché sto andando al funerale di un’amica. Una carissima amica. >>
<< Oh, non potevo immaginare… mi dispiace >>
Era sincero, penso. Anche imbarazzato, perché aveva tentato di intavolare una cortese conversazione e si era trovato impantanato in un garbuglio emotivo non previsto.
Eppure non era solo quello. Mi è capitato tante volte di vedere quello sguardo. Da quando avevo quindici o sedici anni è sempre stato così... così facile.
Parlammo un po’ senza dirci nulla. Le solite sciocchezze.
Alla mia fermata feci un mezzo sorriso e mi avviai sul ponte.
<< Non vorrei essere inopportuno >> mi trattenne lui << Ma dopo il funerale le andrebbe...>>
<< Dopo me ne andrò subito a casa >>
Dillo “da mio marito e da mia figlia” Dillo.
Ma non lo dissi.
<< Permette? Devo scendere >> non riuscivo nemmeno ad essere gentile << Mi scusi >>.
Il marinaio avvolse la cima all’attracco dell’imbarcadero e ormeggiò il mezzo con la consumata noncuranza che viene dalla quotidianità. Non attesi che fosse lui ad aprire la sbarra di sicurezza: lo feci io, in barba a regole ed etichetta, e smontai senza voltarmi.
Mi avviai verso la chiesa di SS Giovanni e Paolo accompagnata dal fastidioso ticchettare dei tacchi. Un suono orribile che ho sempre detestato. Un rumore meccanico, troppo secco, che in una fondamenta nebbiosa o nelle solitarie salizade veneziane, echeggia lugubre come il tintinnio di un monatto.
Svoltai l’angolo e mi trovai di fronte all’imponenza ieratica della chiesa.
È una delle più antiche della città e sull’enorme facciata di mattoni rossi espone le proprie ossa scarnificate: candide colonne dritte come tibie, marmoree guglie puntute come corna e bianchi sepolcri medievali col loro macabro contenuto.
Sembra materializzare il dogma ed è massiccia, maestosa e soffocante al tempo stesso.
Istintivamente deglutii. Poi mi feci coraggio e m’incamminai verso il portale d’ingresso.
Ad ogni passo la costruzione mi sovrastava sempre più… Dio, come sono opprimenti le chiese. Come sono fredde, alte, vuote, algide, sepolcrali.
Io non ho Dio, ma mi sono sempre chiesta come potrebbe un uomo o un Dio amare una casa così inospitale. È una catacomba seppellita da polvere secolare, ha sarcofagi alle pareti, pietre tombali per pavimenti, ovunque quadri di supplizi occhieggiano nella penombra dei lumi di candela. E su tutto c’è l'odore di chiuso che spesso si intreccia a quello di fiori recisi che stanno appassendo.
Mi avviai verso le panche con passi che rimbombavano vuoti come in una cripta. Tac-tac Tac-tac, sempre più vicina all’altare. Un monolite marmoreo sovrastato da un Cristo enorme, bianco e contorto, trafitto da lunghi chiodi arrugginiti e che sembra gridare. Diamine, il suo destino è quello di rimanere inchiodato senza pietà ad una parete buia ed umida, chi non avrebbe urlato al suo posto?
Nella chiesa c’era già molta gente. Altra ne è entrata dopo di me e tutti si sono segnati << nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo>>
I più zelanti, i più ortodossi o forse solo i più esibizionisti, hanno dardeggiato sguardi a destra e a manca, alla ricerca della bacinella marmorea a forma di conchiglia che è destinata a contenere un residuo d’acqua. Vi hanno tuffato dentro le dita, poi, immancabilmente, si son segnati anche loro.
Io non l’ho fatto.
Non l'ho mai fatto perché segnarsi è una dichiarazione di fede e non di etichetta, quindi nel mio caso sarebbe falsa e ipocrita… sotto un certo aspetto anche irrispettosa per chi crede davvero.
Ma non tutti sono dello stesso parere e a volte capita di sentirsi addosso sguardi di altera e supponente disapprovazione. Non di vederli, di sentirli. Sulla schiena. Sulle spalle.
È il prezzo che si paga per essere una lupa solitaria, per non appartenere ad un branco, per non cancellare la propria diversità uniformandosi, per non nasconderla con imbarazzata vergogna.
È come se intorno a voi si alzasse un muro invisibile e alimentato dal senso di superiorità di chi pensa essere nel Giusto. Di chi non ha dubbi. Di chi si inventa un Dio perché altrimenti gli interrogativi della vita lo sovrastano… oppure non è abbastanza forte da sopportarne l’ineluttabilità della conclusione.
<< Io voglio più vita, padre! >> geme l’androide di Blade Runner rivolgendosi al suo creatore, e nel farlo mima il gesto che l’uomo stesso ha ripetuto per millenni. Con la medesima disperazione, con la medesima energia… con la differenza che lui, l’androide, conosce il suo creatore, mentre l’uomo lo ipotizza soltanto. Lo crea, paradossalmente, crea il proprio creatore. Lo colloca in un mondo parallelo e perfetto e si inventa la fede per superare l’ostacolo della ragione, un po’ come i numeri complessi (o irrazionali) trascendono e comprendono quelli razionali.
Sto andando oltre il dogma specifico e ragiono in generale. Lo feci anche allora, sperando che il tempo volasse via veloce come i pensieri. Ma non fu così.
<< Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis >> gongolò d’un tratto il prete tra un tripudio di gigli morenti.
E godeva del suo latino, era evidente. Godeva di quella scheggia di cultura che per un attimo lo faceva sentire un po’ meno mortale.
Godeva di una lingua morta che celebra un morto, tra fiori morti, sotto una statua d'agonia, inchiodata alla parete spoglia di una cripta fredda e buia come una tomba.
<< Absolve Domine animas omnium fidelium defunctorum ab omno vinculo delictorum >> continuò lui imperterrito e in quell'apocalisse desertica, poco dopo, parlò di resurrezione.
Quell’uomo avrà pur saputo il latino, ma doveva essere di un cinismo più tetro del mio… oppure doveva avere una sensibilità al sarcasmo decisamente blanda.
Il prete continuò imperterrito il suo sfoggio linguistico ed io mi accorsi che facevo molta fatica a seguire quanto stava dicendo.
Sospettai anche di non essere l’unica in quelle condizioni e per verificarlo alzai gli occhi ed iniziai a studiare il comportamento dei vicini: scorsi capi chini, volti compiti, sguardi pensierosi o corrucciati. Alcuni avevano un aspetto talmente concentrato che si sarebbe detto stessero ascoltando le istruzioni in tedesco della caldaia appena installata e non un’omelia in latino. Altri attendevano stoicamente in posizione marziale: gambe leggermente divaricate, mani allacciate dietro la schiena e un quasi impercettibile dondolio sui talloni.
No, decisamente non ero la sola a non capirci una patatina.
Stavo ancora osservando il vicinato, quando una signora anziana fece la sua comparsa sbucando da una porticina minuscola, un uscio quasi camuffato dietro al confessionale.
La signora indossava una gonna scura e un sobrio maglione di lana beige, calzava scarpe invernali da casa ed era armata d’una misteriosa busta di velluto viola grande come un piccola borsetta.
La donna si diresse decisa verso la prima fila.
Iniziò a percorrerla fermandosi di fronte ad ogni persona, parenti affranti inclusi. Congelò ogni convenuto, lo immobilizzò al suo posto con uno sguardo glaciale alla Clint Eastwood e, senza proferir parola, gli impose il sacchetto di velluto.
Povera signora, era evidente che soffrisse di tremori senili perché se nessun obolo giungeva solerte, la mano le iniziava a tremolare come un evanescente miraggio sahariano e subito il sacchetto produceva un concretissimo tintinnar di monetine. Un rumore metallico che – sarà stata sicuramente una mia suggestione - sembrava danzare sul motivo del “Dies irae”.
Dopo aver drenato la prima fila, la signora passò alla seconda, poi alla terza e così via.
Era impossibile sfuggirle perché la liturgia inchiodava gli astanti ai loro posti. In piedi, seduti o in ginocchio, tutti seguivamo le complesse dinamiche imposte della coreografia, mentre l’anziana era l’unica a godere di nullaosta speciale il quale, col libero arbitrio del movimento, le concedeva facoltà di proseguire nella sua implacabile avanzata.
Mi soffermai ad osservare il comportamento dei convenuti. Quasi nessuno si permise di eludere la discreta supplica e quei pochi audaci che osarono tanto, dapprima sopportarono le stalattiti oculari della perpetua, e subito dopo dovettero sopravvivere al suo definitivo gesto di condanna: il sacchetto viola che veniva letteralmente strappato da sotto il loro naso. Un po’ come dire “Hai perso la tua occasione, peccatore. Mi spiace, ma ormai sei fottuto”.
Ripeto, furono pochissimi ad osare tanto e tutti gli altri – me compresa – potevano essere suddivisi in due macrocategorie: quelli che davano monetine e quelli che davano banconote.
I primi, in genere, non lasciano offerte principesche e ne sono ben consci, perciò stringono due o tre monete nell’invisibile impenetrabilità del pugno, lo inseriscono nel contenitore color lillà e lasciano che lo scampanellio metallico parli per loro. Che sia evidente a Dio e al Diavolo (ma soprattutto ai vicini) che anche stavolta si è fatto il proprio sporco dovere.
I secondi, invece, sanno che la loro offerta non tintinnerà salvifica, perciò si premurano di lasciar intravedere la banconota. Alcuni la ostentano addirittura tra pollice ed indice e quando arriva il momento fatidico, oplà, fanno canestro, compiacendosi della propria abilità ginnica e dell’approvazione di occhi-di-ghiaccio.
Io, da brava ospite, mi adeguai e preparai per tempo il mio obolo: scelsi una banconota di medio taglio e vi aggiunsi due o tre monetine (chè ho anche l’onere di sfatare un certo mito). Strinsi tutto in un pugno e attesi con partecipazione olimpica che arrivasse il mio turno.
Non ci volle un’eternità ma la metà di essa: passò abbastanza tempo infatti perché il denaro mi si macerasse in mano e, quando il sacchetto fu finalmente a portata di allungo, vi scaricai il malloppo con un sollievo che non saprei descrivere. Anche fisico, però.
Scoprii così che la vecchina non doveva essere umana, bensì un cyborg con la capacità di calcolo di un autistico hollywoodiano. Pur intravedendola appena, infatti, fu in grado di valutare la mia offerta e di calcolarne le prospettive di investimento da li a cinque anni in almeno una decina di valute diverse. Mi premiò sorridendo compiaciuta.
Ecco fatto, avevo la sua approvazione: avevo conquistato il Regno dei Cieli.
Avevo anche i piedi indolenziti e le orecchie che ronzavano come un motorino. Mi guardai un po’ in giro e un movimento sullo sfondo attrasse la mia attenzione.
Laggiù a destra, vicino al trabiccolo di ferro battuto che spaccia candele a prezzi da strozzino, c’era un ragazzo abbronzato coi capelli castani e mossi.
Sbattei le palpebre e guardai meglio.
“No. Impossibile” pensai
Non credo alle coincidenze. Non più, da tanti anni.
“E va bene” conclusi. A quel punto anche lui poteva tornare utile. Dopo un'ora che me ne stavo seppellita li, viva, piccola piccola sotto le navate, avrei fatto di tutto pur di uscire.
<< Scambiatevi un segno di pace >> tuonò perentorio il latinista.
Dio, questa è la fase che più detesto!
È irrazionale, lo so. È colpa mia, so pure questo, ma proprio non la sopporto.
La percepisco come un’imposizione, un’invasione tattile della privacy e soprattutto come un qualcosa di falso, non spontaneo, fatto a comando.
La signora di mezz’età che fino ad allora mi aveva sfiorata si e no con lo sguardo, si voltò verso di me, sorrise a trentadue denti e simulò una sguisciante stretta di mano. Cheeese.
Il tipo di fronte si girò e diede la mano alle tre persone più vicine. Stretta & sorriso, stretta & sorriso, stretta & sorriso. Cheese. Ma la sua fronte diceva “Ecco fatto, e ci siamo tolti anche questa rottura di maroni”.
Un esaltato (o forse un collezionista) quasi si distese sui banchi per stringere il maggior numero di mani possibile. Sembrava persino felice. Buon per lui.
Qualcuno mi batté due dita sulla spalla. Mi voltai e mi trovai di fronte un ragazzo sui venticinque con la mano pronta e la gestualità alla Fonzie, come a dire “Ehilà, bambola, ce lo scambiamo un bel segno di pace?”
E così via, fino a quando i convenuti decisero di mutuo accordo che anche per quella volta si era paciato abbastanza e che ognuno avrebbe potuto finalmente rinchiudersi nel proprio guscio con la coscienza a posto.
Si, decisamente non la sopporto come consuetudine.
Shalom a tutti, ma con discrezione. Senza ordini.
La funzione stava finendo, ma questo non voleva certo dire che anche il rito fosse terminato, no.
Perché i vivi devono andare tra i morti a porgere omaggio. In processione. Tra mancamenti e sofferenze autoindotte. Autoprolungate. Perché si deve.
Gli intimi, poi, avrebbero accompagnato la salma al campo santo. Avrebbero assistito all’inumazione che si sarebbe conclusa con un muratore che scazzuola un po’ di malta a sigillo del loculo, quindi si sarebbero riuniti a casa della scomparsa “per stare vicino ai parenti” ufficialmente, e laggiù la kermesse sarebbe proseguita tra lacrime e suggestione collettiva, alternando singhiozzi e pettegolezzi, commosse agnizioni parentali e qualche tazza di tea al limone.
Il tutto, magari, nel salotto attiguo alla camera da letto di Lea, quella stanza che io conosco bene. Bianca, rivolta a meridione, con le finestre sempre chiuse e le tapparelle abbassate. Quella camera che sa di medicinali e di malattia. Quel letto nel quale lei giaceva fino al giorno prima, puntellata sui cuscini a sbavare... e ad aspettare.
Ma perché una religione che celebra la vita deve ridursi così, ad adorare la morte?
Non fa per me.
Drizzai la schiena ed uscii per prima.
I capelli erano lunghi ormai e mi arrivavano quasi al seno. Sono tanti e in genere li raccolgo a coda di cavallo. Lo faccio per praticità, per semplicità, perché mi da fastidio avere questa cortina da una parte e dall’altra del viso. Quella volta preferii scioglierli e buttarli in avanti, così mi avrebbero coperto il volto formando un burqa di ricci neri attraverso il quale io potevo vedere ma non potevo essere vista.
Non mi interessa cosa abbiano pensato di me. Che sia fuggita per il dolore o per fredda insensibilità. Non mi importa, è già tanto che sia venuta e non so nemmeno perché l'ho fatto. Porto la mia amica viva cuore. Lei non è né è mai stata una bara, un funerale, le parole di un prete, una statua che urla.
<< Ehi, ciao! Ma tu guarda come è piccolo il mondo… Che dici, posso offrirti un caffè adesso? >> Era lui.
Però, tenace. Carino e tenace.
Essia. Ho sempre odiato i funerali, ho sempre odiato la celebrazione della morte con la morte.
Decisi che se dovevo celebrare qualcosa sarebbe stato il ricordo di una vita e che in ogni caso l’avrei fatto a modo mio, usando le mie carte e le mie regole.
<< Volentieri >> dissi << ma ho bisogno di sedermi, di lavarmi il viso... E non mi va di farlo nel bagno di un bar >>.
<< Guarda, se mi posso permettere... io alloggio alla locanda “Ai pozzi” È a dieci minuti da qui, se vuoi... Ti aspetto nella hall, naturalmente >>.
Gli sorrisi, piegai il collo leggermente di lato e ci incamminammo verso la locanda.
Feci strada io dal momento che conoscevo meglio il dedalo delle calli, e vi giungemmo veramente in dieci minuti. Senza fretta, camminando piano, quasi con l’impressione di fluttuare nel clima nebbioso e ovattato che talvolta domina la Venezia minore.
<< Ti aspetto giù >> disse << ecco la chiave >>
<< Per carità, dai, sali pure. E’ pieno di gente, mica ho paura. E poi, ci metterò un attimo e tu mi farai compagnia raccontandomi qualcosa: non ho voglia di stare sola, ho voglia di sentire una voce amica >>.
Ecco fatto. Facile. Gli uomini ragionano in termini lineari: hanno sempre un punto di partenza e un punto d’arrivo, e il percorso che si prefiggono è una retta. Perciò è quasi matematico prevederne le tappe intermedie, prevenirle, modificarle, adattarle alle proprie necessità. Se si impara a farlo con un minimo di maestria, poi, la maggior parte delle volte non se ne rendono nemmeno conto.
In bagno mi sciacquai il viso, i polsi, il collo e raccolsi i capelli ricostruendo la coda di cavallo.
Quando ebbi finito alzai lo sguardo e fissai lo specchio collocato sopra il lavandino. L’immagine riflessa mi restituì solo dubbi e pensieri, ed io rimasi ad osservare un volto senza vederlo veramente ma continuando ad interrogarmi se fosse giusto, se avesse un significato, se non stessi per fare una follia.
“Per te, Lea, amica mia” sussurrai. Dimenticando all’istante buon senso, decoro, raziocinio e tutto ciò che mi aveva imprigionata per un’eternità durata appena un battito di ciglia.
Poi... poi una camicia, dei jeans e un po’ di biancheria si tolgono in un attimo. Non porto altro, io, solo un vecchio ciondolo arabo fissato ad una catenella d'argento. Quello non lo tolgo mai.
Aprii piano la porta. Lui era appoggiato al davanzale, la schiena verso l’esterno, tra le mani una brochure fornita dall’hotel.
Si scostò di scatto dalla finestra e sbatté le palpebre un paio di volte.
La sua prima reazione fu di sconcerto, in bilico tra eccitazione e nervosismo, ma dominata da un evidente scompenso di salivazione.
Andai verso di lui immobilizzandolo con lo sguardo. Gli sfiorai le spalle, scivolai con le dita sul bavero della camicia ed incominciai a sbottonargliela piano, molto piano.
<< Ma sei certa... >> disse. Nient'altro, perché era qualcosa che la decenza gli imponeva di dire.
Sorrisi appena, forse solo con gli occhi, e subito lui mi prese la testa tra le mani, mani calde, e mi sprofondò la lingua tra le labbra. Fu abbastanza prevedibile all’inizio, poi prese confidenza e si fece più fantasioso e audace: mi baciò con più trasporto, lasciò che le mani vagassero sul mio corpo alla ricerca di tutti i suoi segreti orografici e con la lingua cominciò a scendere sul collo e sui seni.
Adoro questa fase, mi fa bollire il sangue percepire la tensione del partner attraverso i suoi movimenti, i suoi affanni, le sue frenesie. Avvertire le variazioni del ritmo, dominarlo suo malgrado, farlo salire e scendere come la marea.
Quando sento che ha perso la testa e l’anima, quando è solo corpo e niente cervello, allora mi impegno sul serio, anche con quelli di cui meno mi interessa, e mi preoccupo di renderli felici.
Un istante dopo lui prese con decisione l’iniziativa ed io lo lasciai fare. Lasciai che mi rovesciasse sul letto, che mi imprigionasse le mani sopra la testa, che mi prendesse così, quasi con violenza, e quando intuii che non avrebbe resistito a lungo, intrecciai le mie gambe con le sue, lo serrai tra le cosce e l’aiutai spingendo il bacino, contraendo i muscoli, ribellandomi col busto ma sottomettendomi col ventre. Ormai so bene come muovermi.
Presto il suo ritmo si spezzò. Affondò due, tre, quattro volte con impetuosa energia, e poi, ruggendo un languido grugnito, mi crollò sul petto. Allora lo strinsi forte, lo rigirai senza farlo uscire e cominciai il mio rito personale: pagano e amorale, eretico e osceno, istintivo e vitale.
Iniziai a muovermi mordendogli piano il collo e le spalle. Continuai a scendere, feci scivolare la lingua sulla linea che congiunge il petto all’ombelico e poi sempre più giù, fino ad arrivare dove sentivo pulsare il suo piacere ancora caldo, umido e profumato dei nostri umori. L’accarezzai con la delicatezza di una gattina, lo sollevai piano e lo baciai con quel bacio succhiante che lascia i lividi e porta il sangue in superficie. Con quel bacio che fa un po’ male e irrigidisce muscoletti sconosciuti.
Risvegliai con cura la sua mascolinità e allo stesso tempo pensai a Lea, a quanto ne avevamo parlato, a quanto ci avevamo scherzato sopra, a quanto piaceva ad entrambe farlo in quel modo.
Nei momenti di maggior disordine emotivo eravamo giunte persino a classificare i partner in base alla prelibatezza dei sapori... Non che potessimo avvalerci di un campione numericamente imbarazzante, per carità, ma l’embrione di una base statistica poteva starci.
“Oh, Lea, amica mia carissima. Lea”, strusciai ruvidamente la lingua sul frenulo. “Lea” con la punta della stessa circumnavigai il glande titillandolo. “Lea” morsi piano l’asta percorrendola nella sua lunghezza. Approdata sulla punta sporsi piano le labbra, le strinsi appena e scesi giù, piangendo in silenzio senza che lui se ne avvedesse.
Poco dopo iniziò a gemere e si aggrappò alla mia coda di cavallo. Mi appoggiò entrambe le mani sul capo, intrecciò le dita tra i ricci come per trattenermi, come se avesse temuto che smettessi.
Allora lo succhiai piano, ed ebbe un brivido. Lo sentii muoversi sotto di me, dentro di me e continuai a succhiare quel gusto di uomo, a succhiare forte, mentre lui venne e lo fece a lungo, riempiendomi la bocca e bagnandomi la gola. Ebbe ancora un paio di spasmi che si concentrarono in altrettanti movimenti pelvici, poi crollò svuotato. Così stanco da addormentarsi in pochi istanti.
Mi rivestii in silenzio e scesi nella hall.
Di fronte all’hotel c'è un vecchio bacaro che vende spuntini e vino in bicchieri. Vi entrai meccanicamente e un attimo dopo risalivo già le scale con un piattino di cicchetti: chele di granchio, olive all'ascolana, crocchette, palline di baccalà. Dall'albergo mi feci dare una tazza di latte e dei croissant alla crema. Se fossimo stati vicini al ghetto avrei chiesto due fette di challà.
Al risveglio lui avrebbe trovato quelle cose, perché in fondo l’essere vezzeggiato rientrava un po’ nel suo diritto di preda.
Posai il vassoio senza far rumore, accostai la porta e lo lasciai così, mentre dormiva. Non una parola, un bacio, una carezza o un sorriso: tornai a casa col suo sapore in bocca e senza avergli detto nemmeno il mio nome. Quello vero.
Lea.
Solo solo per lui, solo per quel giorno, da li all’eternità.
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