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Mannaggiammé e alla mania di firmarmi Nadir.
Davvero, mi chiamo Nadja Jacur ma uso la contrazione Nadir da così tanto tempo che l’ho perfino registrata come sigla: due grosse gobbe, un cerchio e un impulso seguito da una lineetta col delirium tremens. Facile, immediato e sintetico. Voilà, la mia firma. Me.
Mannaggiammé.
Per capire cosa intendo dovreste seguirmi in un salto nel passato, ma prima ancora è imperativo sappiate che io non so il russo.
Ja nje gavariù pa-russki, porca mignotta.
Conosco qualche parola: fermo, a terra, mani in alto, grazie, puttana, ti amo. Cose così, del tutto inadeguate a sostenere una conversazione. Voi mi capite?
Sul serio?
Beh, sareste i primi.
“Jacur è un nome russo, vero?” avevo venticinque anni, ero fresca di laurea e il mio primo boss era famoso per far domande che non richiedevano risposte. Sfortunatamente, ero appena arrivata e non potevo immaginarlo, perciò replicai “No, Marcovitch, non è russo”.
“Vabbè, però sembra, no?”
Feci spallucce non sapendo come proseguire. Pensai che la frase non aveva senso e che anche la mousse au chocholat talvolta sembra merda e invece…
“Beh, in ogni caso sai come si dice, no? Piuttosto che niente è meglio piuttosto. Quindi vai in Uzbekistan, Jacur”.
Confesso che li per li mi sfuggì l’eleganza del processo logico e per diversi secondi annaspai penosamente alla ricerca della scintilla che chiudeva il ragionamento.
Niente da fare.
La mia inadeguatezza intellettuale era innegabile: riuscivo solamente a cogliere che, partendo dalla disamina di un cognome, mi si spediva in culo al mondo e ciò bastava a confondermi. Sconfitta, ebbi appena la forza di gorgogliare “Uz-che?”
“Uzbekistan”
“È un gioco di parole, vero?”
“Non fare la spiritosa, Jacur: è un posto, un paese, una specie di grossa regione”.
“Ma va la? E dove si trova?”
“Asia centrale. A destra dell’Ucraina, sotto la Siberia, spostata un po’ in qua rispetto a Cita e Kamchatkca… Cazzo ne so, Jacur? Cazzo importa? Non fare domande idiote, l’obiettivo è da qualche parte laggiù, in Singania [letteralmente: terra-degli-zingari, identifica infallibilmente tutto ciò che si trova ad est di Monfalcone]. Quello che *tu* devi fare è poggiare il culetto su un dannato Tupolev, andare li (ovunque sia il li) e smazzarti il lavoro descritto in questo fascicolo. /SCIAF
Facile come pisciare, no?” il mio primo boss era famoso anche per il vocabolario elementare ma efficace.
“Hmgpfggg… ufff” sbuffai e se tradii scarso entusiasmo, la cosa non tolse il sonno a nessuno.
Disgraziatamente il viaggio fu un successo perciò, sempre per via del cognome “russo”, dopo l’Uzbekistan e la via della seta toccò al Kazakistan ricco di giacimenti petroliferi, poi al Turkmenistan feudale e così via, tupoleveggiando per tutti i bucodiculo-stan del pianeta finché non cambiai mestiere… ma evidentemente c’è una maledizione che mi perseguita.
AD 2006.
Mancavano quindici giorni alle vacanze di Natale e ogni cosa in ufficio lasciava presagire due comode settimane di stasi intellettuale.
Perfino il Grande Manager in Carriera ciangottava al telefono apparentemente inoffensivo, ma ad un tratto, senza preavviso, se ne uscì con “Ci mandiamo la Nadja, che la xe anca ‘na bea tosatta”.
“Come?” sollevai gli occhi dal catalogo Yamamay che, sulla mia scrivania, fa da sempre le veci del sole 24 ore.
“Si, si” continuò lui imperturbabile “si presenta bene, è educata e ha anche una patina interna-sio-na-le” sillabò arrotolando la mano nell’aria come a definire qualcosa di vago e misterioso.
“Si figuri, sa anche due o tre parolette di russo! - e li, dentro di me, già cominciai a bestemmiare furiosamente - Eh? Che è una donna? Si, va ben… No. Ok, ok… se è per far scena possiamo mandarci anche un strafanto [aggeggio talmente inutile da non possedere un nome proprio. Come le sorpresine kinder, quelle stupide. In veneto può essere indicato così o con una bestemmia standard n.d.a.]. Pesavento, ad esempio, sarebbe perfetto”.
Panico.
“Cosa cosa?”
Panico panico panico. Perché sono disponibile a trasferte disagiate, ma non vedo il motivo di renderle un inferno.
Il Grande Manager sventolò una mano e mi zittì con un cenno isterico che sembrava dire “Dopo, dopo! E taci una buona volta, papera del cazzo”. Doveva trattarsi dell’amministratore delegato, perché quando l’uomo abbassò la cornetta lo fece con la deferenza religiosa con cui si maneggia il culo di un santo. Poi mi fissò dritto negli occhi, come fa sempre quando deve mandare allo sbaraglio la fanteria e vuole evitare ammutinamenti.
“Due giorni, Jacur” laconico e autorevole come un vero condottiero.
“Si può fare”
“San Pietroburgo”
“Poteva andare peggio”
“Il lavoro è facile” spiegò con una professionalità glaciale che mi fece sentire molto Nikita “Arrivi la sera, meeting il giorno dopo. Tu ascolti, guadagni tempo e fai un sacco di fumo: è il tuo campo”.
“OK”
“Poi torni”
“Troppo buono”
“Ah, si. Ti porti Pesavento come spalla”
“Ma perché? Perché [quello scoppiato di] Silvano [Dio greco]!?” chiesi, ingoiandomi l’anima nell’impresa di non tradire un’enfasi eccessiva.
“In effetti lui non sa il russo, ma serve comunque un uomo per far scena. Poi, anche se son qui da poco, mi par di capire che voi due lavoriate bene assieme” come no, inseparabili. Due gemelli siamesi uniti alla tempia.
“Per cortesia, me lo dica chiaramente se è mobbing”
“In che senso?”
Già, in che senso? Parlar male di Silvy col nuovo capo sarebbe stata una mossa troppo meschina, ma averlo tra i piedi in trasferta è come nutrirsi di chili e wasabi quando si soffre di disturbo intestinale: si piange sangue, roba da Amnesty International.
Temporeggiai e tentai la via dell’escamotage “Nulla, una battuta… ma Silvy è terribilmente sensibile al freddo, capo”.
Mi resi immediatamente conto che la scusa era patetica, ma li su due piedi non m’era venuto in mente niente di meglio.
“Beh? E a me? Si copre, qual è il problema?”
“Ehm, giusto, si, ma quando soffre diventa estroso: si lamenta, si agita, da colpa di tutto ai froci atei comunisti. Forse non è geograficamente strategico…”
“Si contiene, Jacur. Non farmi perder tempo con cazzate e preparatevi. Partite domani”
/SBAM, fregata.
Pensare che un tempo avrei escogitato palle meravigliose: lui si sarebbe commosso, forse avrebbe pianto, magari si sarebbe offerto di adottarmi e di certo avrei ottenuto quello che volevo. Si vede proprio che sto invecchiando. Miseriazozza.
Ventiquattro ore dopo Silvano ed io eravamo schiacciati in un curioso taxi ex-sovietico.
L’autista, un omone esagerato con poderosi baffi pensili, aveva addobbato l’abitacolo con una marea di cimeli: patacche falce-e-martello appese come arbre magique allo specchietto retrovisore, un santino di Lenin appiccicato allo spigolo del parabrezza e, immancabile, un generoso tributo alla bandiera rossa che furoreggiava a 360 gradi. Insomma, si capiva a colpo d’occhio che definirlo solamente un nostalgico era fare un torto alla categoria.
La cosa, però, non dava fastidio nè a me nè a Silvano: io non credo in Dio e nelle ideologie, lui aveva il cervello troppo atrofizzato dal freddo per metabolizzare.
Dissi all’autista il nome dell’albergo e lui annuì borbottando qualcosa che non compresi.
“Scusa?” domandai
“Nicevò. È che l’albergo è un po’ fuori”
“Quanto fuori?”
“Vi sieriedinie nicevò, karasciò [bene/capito]?”
Karasciò una sega: io non lo so il russo “Ok, nema problema” sorrisi incoraggiante.
Non fu una mossa astuta perché l’autista prese confidenza “Luna di miele?” domandò complice.
Un brivido ghiacciato mi scese a slalom lungo la schiena “Per carità, no!” puntualizzai “Obblighi di lavoro”.
“Beh” concluse lui rivolgendosi a Silvano “sei fortunato a possedere una segretaria così, compagno” /risata da camionista.
Silvy non comprese una mazza, ma si face contagiare dall’ilarità schietta del baffone.
Calma.
Calma perché la Russia è un paese diverso, lui non può sapere ed in più è grosso e sta guidando. Ok, calma, ma non potevo fargliela passare liscia e non mi andava nemmeno di passare mezz’ora rinchiusa in una Skoda con due ebeti che non si capiscono e ridono “Hem” intervenni all’indirizzo del tassista “Non ti ha capito”.
“Eh? E allora perché ha riso?”
“È fatto così”
“Ah” vocalizzò perplesso.
“Ma giusto per chiarire, lui non mi possiede e non mi possiederà mai. Io non sono la sua segretaria e, in tutta confidenza” abbassai la voce, folgorata da un’intuizione maligna “è anche uno sporco fascista”.
“No!” baffone si indurì di colpo come se gli avessi appena rivelato che Stalin era astemio “Mi prendi in giro?”
“Per niente. Guarda <>”
E il fenomeno, stordito dal gelo ma sempre preciso ed affidabile, mitragliò tra i denti un ritmico “Comunista-di-merda”. Espressione, tra l’altro, che non necessita di grandi traduzioni.
Le mani dell’autista furono scosse da un tremito. “Visto? E pensa che gli ho solo chiesto se gli piaceva il taxi” L’omone cambiò marcia con energia nervosa e grattò violentemente. Io ne approfittai per indossare la migliore espressione da vittima di tutto il repertorio e, sbattendo gli occhioni, sospirai “Mi ci costringono a viaggiare con lui”.
Ne ricavai uno sguardo misto di schifo e pena, come se avessi appena confessato che per vivere facevo pompini agli asini. Poi il tassista si blindò in un ferreo silenzio interrotto da borbottii incomprensibili che avevano qualcosa a che fare con l’immoralità della borghesia capitalista.
Fu in queste condizioni che, dopo un tempo incalcolabile, arrivammo finalmente all’hotel.
Appena scesa dal taxi pensai che il freddo mi stesse giocando un brutto scherzo: vedevo la macchina, vedevo la sagoma di un casermone monolitico, ma non vedevo nient’altro che facesse capolino dall’onnipresente distesa di neve. Solo una macchia di betulle verso est.
Mi venne in mente il Nulla e “La storia infinita”, un libro-film che mi piaceva un sacco da bambina.
Eravamo in mezzo al Nulla.
Lo accennai all’autista e lui replicò “Già, quello che ti avevo detto in macchina: vi sieriedinie nicevò, in the middle of nothing”.
Fu un’illuminazione: è davvero incredibile come la stessa frase in italiano suoni romantica, in russo appaia minacciosa, mentre in inglese sembra il titolo di una canzone dei Magic Affair.
Salutammo l’autista che rifiutò il mio denaro e pretese d’essere pagato da Silvano, poi ci dirigemmo alla reception per le solite formalità. L’ufficio trasferte aveva triangolato con i partner russi e loro avevano organizzato ogni cosa, perciò trovammo con facilità due suite prenotate a nome dei signori Silvano Pesavento e Nadir Jacur.
“Nadja” precisai al consierge.
“Oh, ci deve essere un errore”
“Si e no, nessun errore. Sono io, mi chiamano anche Nadir. Il collega può confermare”
“Ehm, si” sembrava imbarazzato “ma lo stesso ci deve essere un errore”.
“Dettagli. Formalismi. Per cortesia, mi dia la chiave che ho un bisogno feroce del bagno”.
“Eh, ma, come dire… Nadir e un nome da uomo”
Dio… quando fanno così mi danno proprio sui nervi. “Uomo, donna, che differenza fa?” Mi stavo arrabbiando. “Sempre con queste discriminazioni del cazzo. E proprio qui, poi, nella patria del Siamo Tutti Uguali”.
Il tizio tentennava ed io stavo perdendo la pazienza. Con un agile colpo di mano afferrai le chiavi “Senta, a casa mia siamo abituati a non fare alcuna distinzione in merito, karasciò? Ora salgo in camera e domattina, se proprio lo desidera, affrontiamo il misunderstanding, ma glielo dico fin da subito: per quanto mi riguarda siamo a posto così. Nessun problema. Nema problema”.
“Se lo dice lei…” fu la replica sibillina.
“Si, lo dico io” eccheccacchio, un po’ di polso nella vita, dico bene?
Mirai l’ascensore e andrai dritta alla meta ancheggiandogli sul muso. Così impara.
La suite 205, come tutte quelle dell’albergo, era costituita tre ambienti separati: un atrio con salottino, un bagno e una camera da letto laterale.
Entrai nel primo, mollai la valigia e scaricai il paltò su un divano. Sbuffai per la mania tutta russa di riscaldare esageratamente gli interni ed esplorai le altre stanze. Il bagno era splendido: con doccia ad idromassaggio e megavasca. Le camera da letto era fastosa, quasi barocca, e… “Dobre viecer”
Strabuzzai gli occhi: c’era una pertica biondo miele nel mio letto. Autoreggenti, sottoveste di raso, chanel N° 5 da troia “B-buona sera” risposi in italiano, poi guardai stupidamente la chiave.
205.
Per forza. Sennò non sarei nemmeno entrata.
Ma che cazzo… “Ci deve essere un errore” mormorai, senza rendermi conto che stavo facendo eco al consierge. Anche la ragazza sembrava condividere una certa perplessità: rannicchiò le gambe abbracciandole protettiva e chiese “Mister Nadir?”
Nessun errore.
Vaffanculo a me e alla mania di firmarmi con un nome maschile. Ora capite perché sacramentavo?
“Ommerda” la ragazza arrossì ed io pure ammetto di aver provato un certo imbarazzo “Si, no, cioè... Nadir è una sigla, ma io mi chiamo Nadja e… ommerda”
“Nadja è un nome russo” commentò la bionda giusto per ammorbidire il clima.
“Beh, non esattamente”
“Però sembra russo”
Eccazzo no, è una persecuzione! Decisi di contrattaccare e portare a casa almeno una vittoria morale “Senti, parli inglese?”
“Naturalmente” rispose con ottimo accento.
“Bene, perché devi sapere che io non parlo russo. Quasi niente”.
La bionda alzò le spalle come per dire che, viste le circostanze, non le sembrava un dettaglio così fondamentale e non si può negare che avesse le sue ragioni. Ero io che sentivo la necessità di troncare sul nascere i sintomi dell’ormai famigerata Maledizione Uzbekistan.
“Ok” continuai “per piacere, sapresti spiegarmi cosa sta succedendo?”
“Ti hanno scambiato per un uomo”.
“A me? A ME?!?! [/respirone] Ok, ok, e allora?”
“Ospitalità russa”
“Che significa?”
“Significa che diverse compagnie, qui, sono molto accorte quando trattano con manager stranieri, perciò si preoccupano che la loro permanenza non sia priva di… comfort” spiegò la ragazza con notevole tatto e diplomazia.
“Cristo… ho capito. E adesso che facciamo? Ti chiamo un taxi?”
La sua reazione fu tutt’altro che entusiasta “No, ti prego… mi hanno già pagata. O meglio, hanno già pagato il mio… dirigente, chiamiamolo così, e mi creerebbe seri problemi… Poi a quest’ora di notte dove vado? Siamo… “
“… in the middle of nothing” conclusi per lei.
“Già” ci guardammo negli occhi per un lungo istante valutandoci a vicenda. Non sono bravissima a giudicare le donne, ma lei mi sembrava veramente bella. Alta, con quel fisico scandinavo che hanno alcune russe: gambe perfette ed infinite, pancia oscenamente piatta e un seno che gridava ‘maltrattami’. Il culo, forse, era meno tondo e alto di quello che abbiamo noi mediterranee, ma ciononostante non credo che sarebbe dispiaciuto ad un uomo.
Sorridemmo contemporaneamente. C’era feeling e in fondo non era necessario consumare, quindi perchè no?
“Ok, mi sta bene” decisi “Ho una sola richiesta: io mi farei una doccia e poi… beh, non sopporto lo chanel N°5. La mia professoressa di francese ne usava a fiasche e l’ho sempre considerato un profumo da troia… con tutto rispetto” aggiunsi immediatamente.
“Guarda, anch’io non lo sopporto. Mi ci costringono ad usarlo”
“Cara mia, che ci vuoi fare. Ogni mondo è paese: sapessi cosa devo sopportare io per lavoro” mi riferivo a Silvano e lei allo chanel ma per un attimo ci sentimmo molto vicine, la puttana ed io.
Ero estremamente compiaciuta per il sangue freddo con cui avevo superato l’impasse e con questo stato d’animo conquistai il bagno. A tal proposito non so se avete mai provato una doccia ad idromassaggio (spero che si chiamino così, almeno). Sono quelle docce che, oltre all’erogatore superiore, hanno tutta una serie di getti laterali che vi fanno sentire come un Chrysler in un autolavaggio.
Una volta entrate nella cabina l’operazione più complessa consiste nel regolare la temperatura, ma lo sforzo viene premiato con un assaggio di paradiso: l’acqua cade dall’alto scivolando su capelli, spalle e viso, ma contemporaneamente vi investe anche su fianchi, cosce, petto, ovunque e basta ruotare su se stessi per moltiplicare il piacere mentre mani liquide vi accarezzano, vi leccano, vi palpano… vi palpano?
Aprii gli occhi di scatto e mi trovai faccia a faccia con la ragazza “Ehi…”
“Mi hai detto tu che dovevo togliermi lo chanel e che ti facevi una doccia”
“Si, però…” la mia non era una richiesta, vacca miseria! Eppure mani e getti d’acqua insieme, come dire… “non intendevo questo” protestai, ma il tono di voce s’era già piegato ad uno scandaloso laissez-faire.
Oh, ‘fanculo, chi lo sarebbe venuto a sapere, il consierge? Chissenefrega. Quello m’aveva già classificata come lesbica rampante e il pensiero non mi avrebbe certo incanutita precocemente anche se… anche se non è giusto che in queste situazioni ci finisca sempre io. Ci faccio la figura di una che, a dispetto delle migliori intenzioni, non riesce mai a tenersi addosso le mutande. Non sono così, ecco.
Ciò nonostante chiusi di nuovo gli occhi e mi arresi alla ragazza dandole la schiena. Lei mi spinse in un angolo della doccia. Appoggiò le mani sulle cosce e iniziò a spostarle su, ad impossessarsi del busto e dei seni. Contemporaneamente prese mordicchiandomi spalle e collo.
Dio mio se era brava! Più di un uomo, e chiedo scusa alla categoria che sicuramente ha interessantissime prerogative, ma a mio modesto avviso è dotata di una minor sensibilità tattile.
Non so come iniziammo ad avvitarci l’una sull’altra. Magari fu per catturare meglio le sifonate d’acqua tiepida o magari fu una proprio un cercarsi a vicenda. Non lo so e non mi frega. So solo che mi girava la testa quando, all’improvviso, i nostri seni si incontrarono e le mie mani si scoprirono impegnate ad esplorare la pelle di lei percorrendole fianchi e ventre.
“L’hai mai fatto?” sussurrò, mordendomi un lobo.
“In una doccia?”
“Con una donna, stupida”
“Si… no. Non completamente. Cioè, alcuni anni fa in oriente, ma era un casino. Poi c’era anche un uomo… tu?”
“Io si” naturale, che domanda stupida, in fondo era una professionista “e non mi dispiace”
“N-non sei costretta”, balbettai.
“Lo so, ma queste cose non sempre si fanno per mestiere. Comunque non ti preoccupare, se non ti va me lo dici. Faccio quello che vuoi” Già, ma cosa ma cosa volevo io veramente?
Cercai di concentrarmi, ma mi sentivo ubriaca senza aver bevuto. L’epifania della sfiga.
Mi arresi quasi subito “Non so” confessai “Sono confusa e non so più niente. Non so cosa voglio, non so come ti chiami, non so dove mi trovo e soprattutto non so cosa sto facendo”.
“Oh, questo è semplice: io sono Adara, tu stai facendo la doccia e siamo tutte e due in mezzo al nulla. Ora devi solo capire cosa vuoi, qui, nel nulla e al rest[]”
Forse fu per curiosità, forse per farla tacere o forse solo per decisionismo kamikaze che le mie labbra incontrarono le sue. Compresi cosa stavo facendo quando era già troppo tardi, ma almeno resi evidente a tutti, soprattutto a me stessa, ciò che volevo veramente.
Non ricordo se l’abbracciai o usai subito la lingua, ma di certo arrossii perché un bacio non è una carezza e non è nemmeno un pompino o una scopata. Un bacio - per me - è veramente qualcosa di intimo ed esclusivo. Ed è anche l’ultima, l’ultimissima cosa che avrei mai pensato di fare con una donna.
Adara lo interpretò correttamente come una sorta di resa incondizionata così, mentre avevo ancora le labbra premute sulle sue, mi ritrovai di colpo tre dita in figa che spingevano, scavavano, ruotavano. Spalancai gli occhi, mugolai ma non mi allontanai, anzi. Le schiacciai la bocca, forte, possessivamente, per violarle almeno quella mentre lei mi fotteva il resto.
Fu lei a staccarmi, tirandomi i capelli dolcemente ma con fermezza “Apri le gambe” mormorò “so quello che faccio”. Annuii ma rimasi a boccheggiare per l’eccitazione, per l’apnea del bacio e perché il cuore mi batteva come una mignotta da tangenziale.
“Apri le gambe” ripeté Adara, uno scintillio d’acciaio nella voce “e allarga le braccia, tieniti alla doccia”. Feci come diceva, mentre l’anticamera del cervello registrava che stavo assumendo un ruolo succube, insolito… e che, incredibilmente, andava benissimo così.
Pochi istanti dopo premevo le mani sui muri della doccia e i piedi scendevano paralleli. Una specie di crocifissione ad X, bagnata e golosa, che certo non avrebbe sfigurato in un calendario sadomaso.
Adara mi strinse il mento con una mano, mi baciò una seconda volta e mi premiò con un’unica, dura scopata di dita “Brava, ora resta così” disse, con voce dolcissima e inflessibile. Quindi scese.
Calando mi graffiò i fianchi e mordicchiò la verticale che unisce la gola all’inguine regalandomi una scia di brividi, poi si inginocchiò tra le cosce e le allargò con arroganza. Non avevo alcuna intenzione di sottrarmi, ma ad Adara questo non bastava: mi impose un dito dietro, poi due. Mi uncinò il culo e solo dopo iniziò a leccare.
Cominciò a farlo come una gattina, quasi con timidezza, poi diventò via via più decisa ed invasiva. Mi affondò la lingua, il naso, la bocca intera nella fica ed io non mi accorsi nemmeno quando l’agguantai per i capelli, le schiacciai la testa e la usai con prepotenza, trasformandola da padrona in oggetto con la naturalezza di un gesto.
Venni rantolando e aprii gli occhi solo per affondarli nelle gocce che piovevano come lacrime di collirio. Non vedevo nulla ma sentivo, e nello spazio astrale che separa il cervello dal ventre, Adara si era trasformata in un paradosso senza nome: contemporaneamente signora e schiava, uomo e donna, vittima e carnefice. Fu in questa veste che la usai e lei mi violentò… o mi amò, se preferite, perché a volte il confine è così labile.
Godendo, piegai le gambe e, lentamente, scivolai in ginocchio. Ansimavo e volevo dirle qualcosa, qualsiasi cosa, perfino in russo, ma Adara fu più veloce e mi catturò i capelli. Sorridendo, mi portò una mano ai suoi e insieme, sotto un mare di gocce, l’una costrinse l’altra a baciarla.
“Dovrai farlo anche tu, sai?” mormorò subito dopo la mia nuova compagna, ed il respiro mi uscì tutto d’un fiato mentre mi rendevo conto che era esattamente ciò che desideravo.
Annuii e fu l’inizio di una notte lunga e tempestosa.
Potrei descriverla in dettaglio, quella notte, ma sotto un certo aspetto sarebbero solo citazioni alla Snoopy, che senso avrebbe? Siamo state insieme e ci siamo amate, questo è successo.
E si, non importa se ci credete o meno, avete letto bene: amate, non scopate. È diverso e si sente, come si sente il desiderio quando non è artefatto.
Per il resto… beh, l’abbiamo fatto con la bocca, con la voce, con le dita e in mille modi. L’abbiamo fatto sul letto e nella doccia. Ovunque e in nessun luogo mi sono lasciata usare e mi sono sottomessa come non mai, ma ho anche imposto quanto ho subito, regalando piacere e godendone in stereofonia. Questo è stato, senza regole e senza genere, in the middle of nothing.
Il giorno dopo ero ancora sullo stordito andante quando incontrai Silvano al buffet della prima colazione. Il creaturo, al contrario, era palesemente vittima di un uragano emozionale che ne arricchiva la ben nota logorrea “Nad, nad, oh, oh, oh… Madame Hussein, dove sei?”
“Qui, non mi vedi?”
“No, dico, dove ti nutri, dove sei seduta, dove…”
“Laggiù, al tavolo con quella ragazza biondo miele”
“Ok, ok, non mi interessa. Era tanto per dire… cioè tu non ci crederai, ma stanotte è successa una cosa sbalorditiva, inenarrabile, inconcepibile” enfatizzò il concetto mulinando un braccio come il Daitan 3 e mancò di un soffio l’arcata occipitale di un cliente stupefatto ma agile “Zitta! Tu taci, io parlo. Zitta, che se parli tu mi fai due palle luminose come un albero di natale. Allora no, ieri entro in camera e una fanciulla, una ragazza, una russa… si insomma, una di queste pervertite patologiche dell’est – di sesso femminile! - non si era mica sbagliata di stanza?”
“Ma non mi dire…”
“Essetelodico!” mi assestò una gomitata che a momenti mi ribaltava sulle tartine ananas e caviale, poi continuò frenetico “Me la son trovata nel letto, tutta calda di piumone. Cioè, ed era pure bona. Un sacco più di te… senza offesa, ça va sans dire. È che tu sei una collega e perciò per me sei un uomo. Si, insomma… vabbè, frégati. Sai cosa intendo e poi ci vuole ben altro per offenderti, dico male vecchia mia? Dunque, allora no, io non sapevo come comportarmi. Cioè, non sapevo… Avevo tutto sotto controllo, naturalmente, e le mie celluline grigie stavano vagliando i dettagli della strategia ottimale. Ti spiego, ti illumino. Avrei potuto far notare alla femmina che la stanza 206 era mia e che lei era una bolscevica analfabeta incapace di distinguere tre cifre, ma mi son detto ‘e se questa piglia la porta e se ne va? Cioè, a posteriori rischierei di sentirmi un po’ coglione’, ho ragione, no? No, dico, ho ragione? Per fortuna sono uno che si fa camminare il cervello, perciò ho fotografato all’istante la situazione e sono andato giù di fino: l’ho tranquillizzata con una conversazione intrigante, qualcosa che rompesse il ghiaccio, facesse emergere il mio lato migliore e al contempo non l’allarmasse”.
“206, enfant terribile”
“Che?”
“No, dico… progetto ambizioso. Non robette per un Clark Kent qualsiasi”
“Ah! ‘Fanculo. Cazzate. Ora taci. Non pensare, non parlare. Cerca di cogliere, sforzati di comprendere. Anche se, beh… sapessi quante ne ho viste in giro per questo pazzo mondo. Comunque, riesco a scoprire che la ninfetta si chiama Maria Demorian. Pota - le faccio - ma Demorian è un nome veneto!”
“Armeno” intervenni automaticamente, forte della tuoplev-esperienza maturata nel primo lavoro.
“Già, armeno, me l’ha detto pure lei, ma che importa: sembra veneto, no? E chi meglio di te sa che le venete son tutte geneticamente puttane? Cioè… quasi tutte. Ma lascia stare. Non ti smarrire in piccolezze, segui me: da qualcosa si deve pur partire, no? E tacchete, io l’ho fatto. Eh? No, dico: eh? Le ho raccontato che sono un grande manager italiano e che evidentemente quei coglioni perestroici della reception si erano sbagliati. Le ho detto che se desiderava potevamo scendere e chiarire il misunderstanding e che, se era proprio necessario, le avrei lasciato la stanza e sarei venuto a dormire da te che sei una specie di segretaria da viaggio (tanto non ti secca, siam tra colleghi), ma quella – senti qua, Nad, perché lo sfigume decadente di questi pezzenti rossi ha del miracoloso – quella mi prega di non andare alla reception, mi dice che se la caccio passerà i guai con una specie di mafioso, che la ricattano, che ha una sorellina più piccola e un cumulo di colossali fesserie. Dio bono, che grande attrice. Tremava, quasi piangeva. Sul serio. Quante palle, ma per chi mi ha preso? Per un sottosviluppato boccalone mugiko fatto di vodka? Cioè, ho capito al volo come stavano realmente le cose, che te lo dico a fare. Era una clandestina! Proprio così – seguimi. Nelle palle degli occhi – clan.de.sti.na. È l’unica spiegazione logica. Cartesiana. Una barbona-da-hotel che sopravvive saltellando di stanza in stanza per tutto l’inverno. Cose da russi. Era ovvio che avevo il controllo assoluto della situazione e ho fatto il duro: gambe larghe, mani sui fianchi, voce cattiva <> Eh, che ne dici, eh? Quella è scesa dal letto e, senza dire una parola, mi si è inginocchiata davanti. In.gi.noc.chia.ta, Nad! Scommetto che non sai nemmeno come si fa. Beh, lei si. Mi ha aperto la patta e me l’ha preso in bocca… allora no, dioccccristo, è una cosa che non si può spiegare, un mito da lussoporno XXX, una roba ai confini della realtà… Infatti l’ho documentata fotografandola col cellulare… Cioè, cazzo guardi? Non era mica la prima volta, chetticredi? E non fare quella faccia! È che li, con quella postura maschia da podestà… Indescrivibile. Fichissimo. Tu non puoi capire. Ma non l’ho mica bruciata così, sai? Già tu mi prendi per cretino. Nonnonnno! A ‘sto punto tanto valeva approfittarne, dico bene? Enfatti me la son chiavata dibbrutto, Nad. Oh, si, vedo già il tuo musetto incredulo. Mi prendi per un folle, eh? Per un volgare pallonaro, un eunuco impazzito. Ti sbagli, cocca mia, e di grosso. Ho le prove: me la son scopata, le ho fatto il culo e mi son fatto pulire il cazzo con la sua linguetta da cagna comunista bugiarda e devi vedere quanto le piaceva una sana e profumata cippa lombarda!
Bastarda.
Puttana.
Rossa.
Appopò, ricordami che poi ti mostro le foto: in piedi, in ginocchio, con la bocca deformata dal cazzo. Meraviglie che se le vede Reuter cambia mestiere per depressione da confronto. Capisci, Nad, capisci? È bastato un piccolo nokia per fare giustizia di tanti anni d’umiliazioni, iniquità, degradanti sfottò. Ora ho tutto. Qui. Tra le mie mani. Il prestigio. Il riscatto. L’onore. Frégati! Vedrai come li stempio in ufficio. Gli faccio vedere io a tutti quanti chi è il Pesavento!
Sfigati.
Inutili.
Lavativi.
Froci e Diessini”.
Gli battei una mano sulla spalla come si fa tra veterani “Silvy, sei un grande”
“Eh, c’è anche una certa dose di culo” concesse lui, reso magnanimo dall’insperato successo biologico “pensa se io prendevo la 205 e tu la 206. Un fottuto spreco, no? Ma che te lo dico a fare”
“Vero” confermai, e pensavo alla mia splendida Adara che s’immolava con questo sottoprodotto umano “Un fottuto spreco”.
Mezz’ora dopo eravamo entrambi a bordo di un taxi meno pittoresco del precedente. Silvy non riusciva a starsene zitto ed io non riuscivo ad ascoltarlo. Si potrebbe dire che eravamo pari, ma ciò nonostante avvertivo l’inspiegabile bisogno di trascinarlo fuori dall’abitacolo, seppellirlo sotto un cumulo di neve e lasciare che la salma riemergesse al disgelo per essere scambiata, magari, con quella di un alpino dell’ARMIR.
A parte quest’immagine accattivante, riuscivo a pensare solo che davanti a noi avevamo una sala congressi uguale a tutte le altre, vale a dire senz’anima. Alle spalle, invece, ci stavamo lasciando il Nulla e li, in mezzo al nulla, una notte imprevista che aveva segnato entrambi. Silvano perché era diventato una specie di uomo e io… pure, sotto un certo aspetto. Quello lussurioso, ambiguo, carnale, naturalmente, non quello affettivo o sentimentale.
Oh, si, è per questo che ho esordito a quel modo: mannaggia, accidenti, vaffanculo alla mania di usare uno pseudonimo che è anche nome proprio maschile. È colpa sua se adesso, quando chiudo gli occhi, rivedo Adara distesa accanto a me: è bionda, mora, eterea, formosa. È femmina e vampiro, è succube e autoritaria, ma soprattutto è un gioco complice che ormai è languore e nostalgia.
È bastata un notte, infatti, una sola in mezzo al nulla, per cambiare ogni cosa. Perché mi piacciono gli uomini e sempre mi piaceranno, ma da allora sogno di condividerli con un’Adara. E di condividere lei con loro.
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