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Saranno passati dieci anni ormai. Era settembre, ed io ero appena arrivata in Italia per studiare all'università.
Avevo scelto Ingegneria come il nonno e suo nonno prima di lui e così via - che io sappia - fin dal primo, faraonico e sfortunato appalto a Giza, in Egitto. Quello che costò l'esilio ai miei avi a causa di non ancora chiarite invidie burocratiche.
Mi sentivo pronta a tutto, eppure mi feci cogliere impreparata dalle sottili differenze che diversificano l'ambiente universitario italiano da quello israeliano. Differenze che, in seguito, i patriarchi fuoricorso mi avrebbero assicurato essere gelosa prerogativa della facoltà di ingegneria.
Il primo giorno scelsi con cura la mise, sobria ed anonima, a mio giudizio perfetta per la lezione di geometria che avevo programmato di seguire.
Arrivata a Padova chiesi indicazioni come una qualsiasi extracomunitaria sperduta e finalmente giunsi di fronte ad uno sgraziato edificio grigio, ex manicomio dall'architettura cervellotica riattato a malabolgia studentesca per il biennio di Ingegneria. (Caso o ruvido umorismo, mi chiedo ancor oggi? Mistero).
Per svariati, lunghi minuti pregai con fanatico trasporto d'aver marchianamente malinterpretato le indicazioni ricevute, soprattutto quando mi ritrovai sull'uscio di un titanico stanzone gradonato che formicolava di bipedi sudati, stipati in modo caotico e primordiale: gente in piedi, gente seduta sulle scale, gente appollaiata su sedioline da pic-nic con assi di legno sulle gambe e necessario per scrivere tra le orecchie, come pizzicagnoli. C'era addirittura un tizio con barba profetica mestamente seduto su un sanitario divelto.
Il vociare collettivo, la temperatura da serra e la conseguente pesantezza dell'aria completavano il quadro d'insieme.
La mia comparsa provocò un vago trambusto e non certo per qualche particolare favore concessomi da Afrodite: sospetto infatti che anche una capra, purchè di sesso femminile, avrebbe catalizzato il medesimo sovrapporsi di cupidi sguardi.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, per un istante ebbi la viva impressione di essere l'unica donna apparsa dopo lustri tra i gli uomini talpa della Sierra Pelada. Come un vitellino nella gabbia dei leoni, non so se rendo...
Insomma, fu uno dei miei cinque momenti più critici di tutti i tempi. Gli altri quattro, così, su due piedi, mi sfuggono.
Non appena mi mossi, dando involontariamente prova di non essere un ologramma, si animò anche il cicaleccio tipico della foresta pluviale: vocalizzi, bisbiglii e ritmiche deglutizioni, in un clima rapace che a posteriori potrebbe ricordare la discesa di Madre Natura nel programma “Ciao Darwin”… e vi posso assicurare che vivere un momento del genere, se da un lato può essere lusinghiero, dall'altro mette una certa inquietudine.
Uno degli studenti più audaci - tracagnotto, incipiente calvizie, occhiali. Insomma, somaticamente anonimo nella facoltà - pressò un paio di colleghi con una prepotente culata e, con interessata galanteria, mi offrì un angusto spazietto accanto a lui.
<< Abbiamo un posto libero, se vuoi >> mentì spudoratamente.
<< Grazie >> approfittai.
E fu il primo errore. Già, perché il tracagnotto calvo iniziò subito un metodico bombardamento a tappeto fatto delle domande più banali e meno intriganti che una mente umana possa concepire << Da dove vieni? Come ti chiami? Che ci fai qui? Sei biologa? >> (Perché un ingegnere stenta a credere che la sua facoltà possa essere frequentata anche dal genere femminile), etc.
A fine lezione ero coventrizzata e non avevo preso un solo appunto.
Lo guardavo cristallizzata in un sorriso spontaneo quanto quello di una foto di “Life” e al contempo ne desideravo ardentemente la prematura dipartita o quantomeno l'esilio perenne nel Ponto Eusino.
“Così non si può andare avanti” realizzai, e mi ripromisi di cambiare radicalmente la mia tecnica d'approccio universitario e di sfruttare a mio vantaggio le vistose debolezze del Nemico.
L'indomani, perciò, bandita la mise da casta suffragetta, mi equipaggiai con una ristretta T-shirt rossa con su scritto Eroe Positivo, dei jeans-culotte ottenuti amputando sadicamente le gambe a dei vecchi pantaloni e un paio di rollerblade, esotica intuizione frutto di una giornata particolarmente ispirata.
Mi presentai tre minuti prima dell'inizio della lezione nell'aula stipata d'umanità vociante e, quando feci capolino all'ingresso, una fantamagia alla Harry Potter ammutolì l'ambiente.
Aleggiava quel silenzio ovattato che caratterizza i momenti topici dell'esistenza di ciascuno di noi. Mi feci coraggio ed iniziai a cabotare l'aula in direzione della cattedra e lo feci oscillando goffamente come un ubriaca su un ponte tibetano.
FRRRRRR, FFFRRRR, FFFFRRRRR, facevano i cuscinetti a sfera.
Silenzio.
FFFFFRRRRRRRRRR.
CKCKKKC.
Mi fermai in derapage davanti alla prima fila, trofeo di squilibrati nottambuli aspramente conteso a morsi ed insulti fin dalle più innocenti luci dell'alba.
Mi fermai li davanti con studiata innocenza, una buona dose di faccia tosta e quella sorridente ocaggine che tante scemenze fa compiere agli uomini.
Mi fermai e chiesi: << C'è per caso un posto libero? >> /Sbatt-di-cigl, /Sbatt-di-cigl.
Gelo artico tra le bocche semiaperte.
Il più rapido a reagire fu un ragazzo triestino. Alla sua destra c’era uno zainetto orfano: un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Con ogni probabilità il suo legittimo proprietario era stato fatalmente tradito “dall’effetto caffelatte”, ossia quell’inopportuna impellenza fisiologica anche detta squaquero che ti coglie all’improvviso dopo il caffè delle macchinette.
Comunque sia, il ragazzo squadrò l'oggetto con incantevole, quindi lo artigliò e con fluida nonchalance se lo buttò alle spalle.
<< Certo, questo! >> esclamò proud.
Mi ero appena sistemata quando giunse il legittimo proprietario del posto.
<< Ma... ma... TROIA CULONA, C'ERA IL MIO ZAINO LI! >>, perché la facoltà accetta e sforna solo gentlemen.
Feci per alzarmi, ma Michele, il triestino, mi blocco. Tacito’ il tipo con un gesto sioux e disse ermetico << Poi ti spiego>>. Le pupille del nuovo arrivato saettarono rapidamente dal bordo dei miei jeans-culotte alla curva del seno, con oscilloscopica armonia. Quindi, per solidarietà maschile, si ritirò in buon ordine borbottando un generico << Natura Bastarda>>
Ero soddisfatta della mia raffinata intuizione strategica: “Operazione Circe” aveva dato i risultati sperati. Non avevo considerato, però, era che anche il mio nuovo vicino fosse smodatamente ciarliero << Ma che belli i rollerbledes (Si? E allora perché mi guardi le tette?). Ma di dove sei? Ma che scuole hai fatto? >> Etc. etc.
Insomma, anche la seconda volta non presi nemmeno un appunto. L'unico vantaggio rispetto al giorno precedente consisteva nel fatto che l'interlocutore era decisamente carino: alto sul metro e settantacinque, più o meno come me. Capelli castani, occhi chiari, un bel culo stretto e muscoloso, indispensabile appiglio nei momenti di massima passione, e due mani bellissime, delicate, signorili, da pianista o da killer.
In due parole mi ero presa una croccante cotta e arrivai perfino a domandarmi come fosse possibile che un tale adone venisse rozzamente ignorato dai talent-scout del cinema.
A ripensarci, non è che Michele mi avesse rapito cuore, senno e fantasie con una conversazione particolarmente brillante. Tuttavia le sue banalità, talvolta impreziosite da un ingenuo quanto catastrofico senso dell'umorismo, avevano per me una così grande forza evocativa che mi brillavano gli occhi senza l'ausilio delle gocce di collirio.
Insomma, la differenza tra lui e calvo&traccagnotto consisteva sostanzialmente nel fatto che Michele grondava di sex-appeal, C&T no.
Già, tutto qui. E quindi, caro calvo&tracagnotto, se mi stai leggendo non me ne volere ma liberati anche tu ululando un catartico “Natura Bastarda” e se non è molto originale, non fartene un cruccio: è in linea col personaggio.
A fine lezione Michele mi guardò colpevole e mi rivelò: << Sai che non ho preso appunti oggi?>>
<< Ma guarda te che caso >> sospirai << nemmeno io>>
Per fortuna è nei momenti di maggior difficoltà e sconforto che la natura umana viene in aiuto ai suoi figli concedendo loro le più brillanti folgorazioni. Io, nella fattispecie, ne ebbi una come se ne hanno poche nella vita, e tutta concitata gli chiesi: << E quelli di ieri ? Non e’ che – per caso – li hai presi? >>
<< Certo, ma li ho a casa: abito qui a Padova da mia nonna>> (Bersaglio avvistato, comandante, tubi di lancio pronti).
<< Però... Senti, magari ti sembrerò invadente, ma che ne dici di studiare assieme? Ti secca? >> (Primo siluro, fuori uno).
<< Ma no, ma no, assolutamente >> (Bersaglio colpito).
<< No, è che magari da solo ti concentri meglio... >> (Secondo boccaporto aperto).
<< Ma mi concentro anche in due. Io sono nato concentrato >> (Bersaglio in posizione).
<< Non vorrei approfittarne... >> (Secondo siluro: fuori).
<< Mannò, che dici mai. Approfitta, approfitta pure, se non ci si da una mano fra noi...>> (Colpito e affondato).
Così quel pomeriggio passai da lui. La nonna trafisse subito con un'occhiata di disapprovazione il mio abbigliamento che a ben guardare poteva essere malinterpretato.
Feci di tutto per avvampare nel modo più convincente e virginale possibile, lo ricordo con chiarezza, e ancora una volta mi venne in aiuto Michele che risolse la faccenda con un laconico e misterioso << È straniera, nonna>>
Andammo nello studio, chiudemmo fuori il rumore ed il trambusto di una casa vissuta e cominciammo a studiare.
Lui aveva preso bene gli appunti: ordinato, spaziato, policromo. Proprio un lavoro ben fatto, ma geometria... penso che esistano poche materie altrettanto noiose. Non ha nulla a che fare, naturalmente, con la geometria che uno si ricorda dalle scuole. Non ci sono cubi, cilindretti, simpatici coni, ma solo interminabili matrici multidimensionali, soporiferi teoremi, letali dimostrazioni.
Beh, ora non cercherò di convincervi che se avessimo dovuto studiare una disciplina più fascinosa non avremmo avuto alcuna distrazione, ma senza dubbio la noia spinge anche i più indolenti ad improvvisare attività alternative, questo dovete concedermelo.
Ci avvicinammo per condividere gli appunti ed io feci la prima mossa frustandolo ripetutamente con la coda di cavallo (capita di scuotere la testa, no? Con geometria, poi...). Lui ne approfittò per toccarmi i capelli e da li, con la scusa di indicare gli appunti, passò a sfiorarmi quasi casualmente braccia e mani.
Il rito del corteggiamento procedeva con una timidezza così dolce e disarmante che non capivo bene se Michele stesse vivendo uno dei momenti di maggior esitazione della sua vita o se semplicemente non fosse abbastanza lucido da realizzare che si vive una volta sola, come dice il bolero.
Sbloccai la situazione accosciandomi sulla sedia, entrambe le gambe piegate da un lato, ginocchia verso di lui. Close combat.
Michele studiò il dinamismo dell'operazione col nervosismo di un papa che avanza dubbi sulla Trinità, quindi si risolse facendo scivolare lentissimamente una mano dal tavolo alle mie cosce scoperte.
Per la cronaca: Neil Armstrong ci mise la metà del tempo a poggiare il piede sulla superficie lunare. Io, nel mentre, stracciai il record d'apnea dell'intramontabile Majorca.
Finalmente ci baciammo.
Dio, quanto è pallosa geometria, voi non potere immaginare.
E quanto è rigenerante, baciare! Questo si che potete immaginarlo!
Anche noi ci riuscivamo.
Non ci mettemmo molto a far scomparire le mani al di sotto dei rispettivi involucri di stoffa e presto mi trovai a manipolare un'orgogliosa erezione.
“Toh, non circonciso”, registrai in un angolo della mente (allora non ci ero molto abituata).
<< Nadja >> disse lui ad un tratto << prima ho chiuso a chiave. Possiamo stare tranquilli, ma oltre alle sedie, i libri e il tavolo non è che ci sia granché in questa stanza... Si, insomma, dovremmo arrangiarci con quello che c'è >> Pensai di cogliere l'antifona, e glielo feci capire, baciandolo e sussurrandogli maliziosamente << scendo? >>
Sorrise, mi mise una mano sul collo e me lo impose dolcemente.
Non so cosa ne pensiate voi, ma per me il sesso orale è fondamentale. Attivo e passivo, allo stesso modo. Mi piace farlo e riceverlo, insomma, e a seconda del mio stato d'animo può essere eccitante o rilassante.
È un modo quasi distaccato di fare l'amore, perché quando sei lissotto sei da sola col sesso del tuo partner. Una dimensione diversa, non so come dire.
Ma d'altra parte c'è poco da dire: mi da soddisfazione eccitare un uomo in quel modo, sentire le sue pulsazioni. Gustare le goccioline che escono inconsapevoli, ben diverse e più dolci del seme. Passare con la lingua dalla pelle rugosa dello scroto a quella via via più liscia del membro, arrivare sul glande e giocare col prepuzio, spingerlo dolcemente giù, finché sta al suo posto: kasher (quanto sei orgoglioso di me, rabbi?). E poi cominciare a stimolarlo sul serio, raccogliendolo in bocca, leccandolo ruvidamente sul frenulo mentre contemporaneamente lo masturbo con dolcezza. Oppure farlo scendere in gola giù giù, il più in fondo possibile, fino a sentire quasi le lacrime, fastidioso e sublime. Oddio... Dio, com'è bello. Non fatemici pensare.
Bello, si, come sentire la sua mano che ti guida. Si poggia sulla testa. Tira i capelli come redini. Bello come sentire quando sta per godere. Quei piccoli, ritmati colpetti... a qual punto sai che è cotto ed allora gemi lussuriosamente per farlo venire, per sentire sulla lingua e sul viso il sapore del tuo uomo. Che ci volete fare, a me piace. Decisamente. Che sia un atto completo o meno, mi fa impazzire. L'ebraismo non è la sola cosa che condivido con la Lewinsky.
Per farla breve, fu questo il tipo di rapporto che ebbi con Michele. Quando venne, mi accorsi che io ero rinculata sotto la scrivania e lui era li, aggrappato al tavolo come un freeclimber con chissà quale stimolante pornoteorema di geometria davanti agli occhi. Ebbi cura di ingoiare e ancora una volta lo dico chiaramente, lo feci perché mi è sempre piaciuto, non solo per una forma di colpevole delicatezza nel confronti della nonna che avrebbe lavato i pavimenti.
Poi naturalmente facemmo cambio: fu mio il turno di sedermi lascivamente sulla sedia mentre Michele prendeva posizione sotto la scrivania. Mi accorsi quasi subito di aver fatto un buon affare perché, anche se come compagno di studi Michele non dava grande affidamento, in veste di leccatore dimostrò un'energia, una passione ed una dedizione olimpioniche. Mi fece dimenticare geometria, insomma.
Ora desisto dal raccontarvi i dettagli intimi del nostro rapporto, le dinamiche aggrovigliate, le parole sussurrate tra il linguaggio e la suzione e cose così.
Non lo faccio perché sarei certa di annoiarvi e sinceramente è l'ultima cosa che desidero.
Cercherò invece, per simmetria letteraria, di descrivere i canoni galileiani di un buon cunnilingus (e chiedo venia in anticipo se sarò più imprecisa e soggettiva, ma in questo campo, capitemi, non ho modo di appoggiarmi sull'esperienza diretta e mi sento un po’ come muratore ungherese che si trasferisce nel faentino per illuminare la popolazione autoctona circa la corretta panificazione della piadina).
Dunque, a mio avviso un buon cunnilingus deve iniziare con delicatezza non intrusiva: la punta della lingua deve disegnare generose pennellate lungo le grandi labbra, dal basso verso l'alto, divaricandole con paziente determinazione in modo da esporre la più delicata, umida e rosea carne sottostante. (Non dite << CHEEESE >>, provate a dire << LALLLO >> e vedrete come viene bene. Parola).
In seguito le pennellate devono farsi più convinte e ardire uno sforzo in profondità, coinvolgendo il già turgido clitoride che riconoscerete in quanto ostacolo orografico lungo percorso che vi vede impegnati.
A quel punto, signori, mi permetto di suggerirvi d'usare le dita, meglio, i polpastrelli per divaricare le labbra e permettere alla vostra avida lingua d'intrufolarsi la dov'è tanto attesa. (Si, lo so, è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare, no?).
Siccome di mani ne avete due e non usarle è peccato, la seconda può esercitare un'indolente pressione circolare e concentrica su quel morbido ponte di carne che separa l'ano dalla vagina. Vi assicuro che in quelle condizioni è divino sentire un dito che esplora prima timidamente e poi in profondità, con decisione, mentre la lingua non si stacca dal clitoride, le labbra lo risucchiano esponendolo e i denti lo mordicchiano con la delicatezza di un cagnolino giocoso.
In quel momento, sinceramente, non mi importa più dove il mio uomo sta mettendo le sue dita (purché non siano troppe, chiaro!) e mi diventa quasi impossibile restare zitta e ferma.
Se lui è un sadico bastardo che ama vedermi soffrire deve avermi legato le mani alla spalliera del letto o dietro la schiena, perché il mio istinto è quello di premergli il capo sul ventre, dissetandolo.
Ma mi sono lasciata trasportare. Chiudiamo quindi questa noiosa parentesi didattica e torniamo alla nostra storia.
Dunque, dopo una soddisfacente seduta di sesso liberatorio, Michele ed io fummo finalmente pronti a riprendere quella benedetta geometria. O meglio, io lo ero di certo, perché il sesso mi distende, mi libera la mente e mi da un'energia che fa un mazzo così alle normali zinco-carbone.
Michele, invece, dava l'idea di essere un po’ più sullo spossatelo. Com'è logico, dato l'esaurimento letterario che si impadronisce di un uomo in simili circostanze.
Visto il successo e la vicendevole soddisfazione, dopo quel giorno ripetemmo l'esperienza con una certa frequenza. Io mi alzavo presto e studiavo, lui andava a lezione per tutti e due e - senza distrazioni - prendeva ottimi appunti. Il pomeriggio ci trovavamo a casa della nonna, fingevamo di aggredire la materia e facevamo altro.
Tutto e sempre nella medesima, angusta stanzetta, complici due sedie e una vecchia scrivania da impiegato statale. Sotto quella scrivania ho succhiato per un inverno ed una primavera. Sopra, invece, mi sono piegata un discreto numero di volte, in posizione ortonormale concedermi a Michele mentre un librone di geometria sotto il ventre mi rialzava natiche e uno di fisica mi faceva da guanciale.
Feci quattro esami nei sette mesi in cui restammo insieme. Michele, invece, non ne passò nessuno.
Poi ci separammo e ognuno andò per la sua strada, come spesso capita nella vita.
Mi hanno detto che Michele oggi fa il ferroviere.
Non si è mai laureato. Non so se abbia rimpianti.
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