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Oggi è il quattordici febbraio: San Valentino, la festa degli innamorati.
Anche in Israele celebriamo la ricorrenza perché talvolta capita perfino a noi di innamorarci.
Che progetti ho per la serata? Ebbeh, gente, provate ad immaginare.
Vi aiuto: vorrei che il mio ragazzo mi sorprendesse con un regalo mozzafiato (ma è un po’ improbabile perché ci siamo lasciati la settimana scorsa. Colpa sua, logico: non aderiva più al mio ideale di maschio). Allora mi piacerebbe sedurre Gad, quello che gioca a pallavolo (ma ci ho già provato e non è andata esattamente come speravo perché Gad… lasciamo perdere). Eqquindi… quindi è ovvio: trascorrerò la nottata in pieno West Bank, blindata nell’alcova di parpar (un carro armato), sveglia come un gufo e in compagnia di altre tre ragazze. Se la vostra mente riesce a concepire qualcosa di più romantico ed eccitante, avete seri problemi. Sappiatelo.
L’ordine di raggiungere Ramallah, nel cuore della Cisgiordania, ci è stato consegnato stamattina e adesso stiamo già entrando nella prima periferia con Yael, il mio artigliere, che intona Blood sugar sex magik dei Red Hot Chili Pepper.
Che cos’è accaduto stavolta? Cosa ci spinge quaggiù?
‘Spetta, fammi pensare… due terroristi hanno cercato di forzare un posto di blocco verso Gerusalemme? No, no…questo è successo il mese scorso. Routinarie pressioni di ammorbidimento su quel limpido gentleman di Arafat? Oppure – aspetta, forse ci sono – oppure è per quel fatto dei kamikaze che si son fatti saltare ad Asquelon? Oh, diamine, ultimamente la vita è così ricca di elettrizzanti imprevisti che non è mica facile starle dietro.
Amen, il motivo cambia forse la realtà dei fatti?
No. Punto.
Inseguendo una mistica visione strategica, qualche pezzo grosso ha deciso che bisognava mostrare i muscoli e perciò eccoci qui. Quattro carri armati, il plotone al competo. Lo schema è sempre lo stesso: entriamo in città facendo scudo alla fanteria, arriviamo fino in piazza Dawret al Manara, ci restiamo un po’, massimo un giorno, e torniamo a casa. Nel frattempo i ragazzi effettueranno perquisizioni a campione. Non so cosa significhi, o meglio lo so e non ci voglio pensare. A volte sono misure necessarie, su questo non ci piove, altre volte… beh diciamo che sposano perfettamente la strategia della tensione. Il punto è che non son più così sicura che sia ciò che serve al paese. Perplessità personali, non c’è tempo per loro.
Ci dividiamo in due gruppi: Zaira entrerà da est con due tank, mentre Leah ed io entreremo da sud con quelli che restano. Ci rincontreremo in piazza.
«Allora, ci muoviamo?» domanda Leah.
«Hai fretta?»
«Un po’ sì… domani devo uscire con Gad, ricordi?»
Cazzo se ricordo, maledetta!
Sto scherzando, eh, perché le voglio un mare di bene, a Leah. Almeno una volta alla settimana accarezzo l’idea di metterle acqua ossigenata nello shampoo, ma le voglio bene.
Leah è una sefardita di Haifa ma i suoi sono originari di NonRicordo-ton, in Grecia. È una ragazza perfettamente normale, né brutta né bella, e non potete immaginare quanto ciò contribuisca all’affetto che provo per lei. Si vede che ha sangue greco nelle vene perché fisicamente ricorda l’etera danzante di un famoso vaso d’epoca ellenistica. Beh, vaso… in realtà è un orcio basso e tozzo, via, e anche Leah non è altissima, inoltre ha un nasino, come dire… importante e le gambe son discrete ma con le caviglie da dinosauro. (Ecco, la descrivo e mi sento un sacco meglio. Ah, miracolosi poteri terapeutici della penna). Leah ha dei bei capelli, però, corvini, riccissimi, lunghissimi, -issimi. Potrebbe non lavarsi per un mese fino a puzzare di bue muschiato e poi girare la sontuosa reclame di un balsamo crine-di-seta.
È l’unica cosa che le invidio, sul serio.
Che dite? Le tette?
Volete scherzare? Solo perché io ho una quasi-terza orgogliosa mentre lei ha due cisterne tonde e dure che puoi suonare come bongo? Non siamo ridicoli, quelle cadono, gente! Cinque anni, forse sette come i bracci di una menorah, e van giù simili a caciocavalli. Non sono invidiosa, giuro. E anche se Gad… ok, forse l’avete capito che ci dovevo uscire io con Gad ma Leah me l’ha soffiato sotto al naso. Tra noi c’era una specie di sfida e l’altra sera ci eravamo messe in tiro apposta: lei casual ma elegante, a tratti signorile. Io uguale solo che, inspiegabilmente, viravo appena un filo sul tipo tossica-prostituta. Un match equilibrato, insomma.
Eravamo una decina ed avevamo in programma di cenare in una pizzeria. Tuttavia, non avevo quasi fatto in tempo a sedermi che Leah la Serpe ha messo in atto la sua subdola e slealissima strategia.
«Dai, Nad» mi ha detto «Raccontaci di quel tizio che ti ha scambiata per un pompiere»
Invitata a nozze! Figuratevi se trascuravo un’occasione per fare la sbruffona pagliaccia e mettermi in mostra come un pavone. Giammai!
Sono partita in quarta, armata dell’ormai proverbiale aura d’umiltà: mi son parlata addosso, ho bevuto, ho riso, ho impreziosito la storia con particolari sempre più mitologici e boccacceschi, ho bevuto, ho coinvolto due grassi turisti americani gay nella kermesse, ho bevuto. Ero felice!
Conclusa la performance, mi son girata per godere il rapimento della platea e il sorriso mi si è congelato in una smorfia che assomigliava ad un sintomo del tetano.
Mentre facevo la scema, infatti, Leah aveva irretito il contesissimo Gad. L’ha stuprato di attenzioni, gli ha sicuramente lanciato sguardi da “non hai idea quanto mi piaccia essere frustata sulle tette” e poi si sono messi ad amoreggiare di fronte a me, che ero troppo impegnata a nutrire l’ego per notarli. Fregata alla grande, altroché!
Lo sguardo di Leah scintillava “Veni, vidi, vici” e il suo trionfale sorriso ionico mi faceva sentire talmente scema da bramare una catarsi fatta di punizioni corporali. Grrr, che rabbia!
Ma perché vi sto raccontando i fatti miei?
Torniamo alle cose serie. Dunque, parlavamo di Ramallah… anzi, stiamo proprio andandoci nella stramaledetta Ramallah. Siamo già in periferia: due enormi scarafaggi cingolati color sabbia e una quarantina di formiche antropomorfe in tinta verde oliva. Dio entomologo, dall’alto dei cieli proteggi i tuoi figli diletti.
Una banda di ragazzini esce da un vicolo e ci scarica addosso una sassaiola. I fanti imprecano, uno fa il gesto di rincorrerli e quelli scappano vomitando insulti e ricordandoci che le nostre nonne succhiavano cazzi tedeschi per sopravvivere un giorno in più. E’ San Valentino e l’aria crepita di passione. Meglio rintanarsi in casa, non sia mai che l’amore ti centri in piena fronte.
Chiudo il portellone. E’ solo un gesto, ma lo scatto metallico ha il sapore d’un bando d’esilio su una piattaforma petrolifera del Mare del Nord.
Scendo dalla torretta lavorandomi le gambe di Yael come pali da lap-dance, mi incastro sul sedile accanto ad Annah, la marconista, e saluto Irina con una pedata di cortesia sull’elmetto. Voilà, sono pronta ad assumere l’allure spavalda da ussaro in gonnella.
Questa, infatti, è la mia “trasformazione” e ognuna ha la sua, dentro la scatola di latta. Io mi faccio possedere dal ruolo di comando. Cerco di mostrarmi calma e sicura, di irradiare karma positivo ed evocare un culo tremendo a tutte le sedici ragazze che dipendono da me. Finora ha funzionato.
Al contrario Annah, che è timidissima, si fa piccola piccola, quasi invisibile. Parla pochissimo e le rare volte che osa farlo si esprime con toni dubitativi, possibilisti, vaghi o privi di una posizione definita. Dà segni di vita solo quando lo stress da gitante nel west bank si traduce in sete nevrotica. Allora si attacca compulsivamente ad un borraccione da trekking da cui tracanna litri e litri di latte e menta. E’ veramente un contenitore abnorme. Una grande borsa dell’acqua calda che oltraggia il bello oggettivo con un color malva stile Barbie-svampita-puttanella. Però Annah ci è affezionata: è il suo salvaculo, il portafortuna, perciò non gliene frega niente se le ridono dietro anche le galline. Fa benissimo, è lapalissiano: i salvaculi sono sacri come le mamme.
Irina, invece, è quella che subisce la trasformazione più radicale. Normalmente è esuberante, incontenibile e ribelle, ma quando si chiude il portellone diventa professionale e laconica. Sarcastica, glaciale. Spesso mi ritrovo a pensare che sarebbe un ufficiale migliore di me.
Infine c’è Yael che, quando non dice minchiate, canta a squarciagola.
Yael è intonatissima, per fortuna, però non si trasforma e questo è un dramma, perché… oddiamine, perché quella ragazza ha dei problemi comportamentali serissimi, cazzo.
Non che sia attivamente malvagia, ma di fatto è inadatta alla vita sociale e ciò comporta che il suo indice di popolarità tra le ragazze sia pari a quello di Hilter a Tel Aviv. Tuttavia io, che sono il suo comandante (capo, come dice lei), non posso ammetterne esplicitamente la dissociazione mentale senza minare lo spirito di gruppo, anzi peggio, senza fornire una legittimazione gerarchica all’ostracismo. E questo è intollerabile perché le mie ragazze, tutte, devono essere simbionti. Devono. Per il loro stesso bene e per il mio.
Pertanto proteggo Yael ma al tempo stesso non gliene faccio passare una, la massacro, mi abbandono ai più sadici istinti graticolari, le strappo il culo e glielo riappiccico in fronte, e mentre lo faccio so che è tutto inutile perché ogni cosa le rimbalza addosso con disarmante sistematicità.
E’ una consapevolezza frustrante.
Senza speranza.
Chi me lo fa fare?
Sarebbe più facile entrare in geriatria e farlo diventare duro a tutti leggendo ad alta voce l’Ulisse di Joyce. In dieci minuti.
Prostrata, a volte chiedo ad Irina di darmi supporto morale. Allora ci rintaniamo in camerata, o in cesso, o anche nello sgabuzzino delle scope e lei ascolta i miei sfoghi dandomi affettuose pacchette sulle spalle. Che immagine marziale, vero?
Comunque non vorrei sembrare acidella o ingiusta, perciò lo ammetto: capita che un artigliere tenda a sviluppare atteggiamenti mentali non lineari. E’ per via del lavoro. Quasi isolato, mezzo cieco, continuamente shakerato contro pareti d’acciaio, il suo inconscio sviluppa la sindrome da bimbo abbandonato su una giostra a Disneyland e, per difesa, si estrania. E’ relativamente comune che gli artiglieri siano misantropi, scorbutici, oppure parlino e si rispondano da soli con insospettata logorrea: le sintomatologie sono identiche a quelle di altri mestieri alienanti quali l’allevatore di larve, la telefonista porno e il sistemista di rete.
Tornando a Yael, lei ha un’ulteriore attenuante perché viene da un contesto familiare problematico: è la pecora nera di una famiglia molto religiosa che ha avuto sei figlie femmine e un solo maschio sulle cui facoltà mentali, peraltro, serpeggia qualche perplessità. Ciò deve aver provocato una sorta di mutazione genetica nella psiche già di per sé duttile della nostra compagna, la quale adesso si ritrova con un corpo da ventenne e il cervello di un teenager maschio esaltato, razzista e cresciuto su Plutone.
«Annah, cosa bevi Annah? Latte e menta? Passa qua, passa qua!»
Annah sporge la borraccia. Yael, acrobatica, l’aggancia con un piede, la solleva e inizia a bere a garganella sputacchiando ovunque denso liquido verdastro.
«E sta attenta, no!»
«Glo-glo nn è miha facile bere snha appoggiae e labbra»
«Ecchissenefrega, appoggiale!»
«Naaaa, mi fa schifo succhiare dove ha messo la bocca quella: sua mamma è araba»
«Obbeh, mio nonno era cattolico, e allora?» sbotto
«Nessuno è perfetto, capo»
Annah interrompe la lezione per aforismi della nostra maître a penser e ci comunica che abbiamo oltrepassato la periferia e stiamo entrando nella zona più densamente abitata.
Mi attacco alla radio e chiamo Leah.
«Ciccia, vuoi la bocca o il culo?» [= Vuoi andare in avanguardia o in retroguardia?, è il linguaggio usato nel plotone quando siamo *rigorosamente* in assenza di maschi. Può apparire sboccato, ma è solo un’impressione fallace dettata dal contesto.]
«Bocca, bocca… così mangiate la polvere e imparate dagli assi come si fa il mestiere»
«Che fa, la puttana, sfotte?» una voce si intromette nella conversazione.
«Chi è questa?» chiede Leah.
«Yael»
«Piccina… salutamela e dille che quando torniamo le rivoluziono la vita regalandole un vibratore: ne ha un bisogno selvaggio»
«Ma sentitela! Fa la gradassa solo perché Gad l’ha preferita al capo. Capita, mica stai competendo con Claudia Shiffer, inutile cagna!»
Laeh si decompone in risate e io cerco di sbrogliare il nodo improvviso che mi trovo all’esofago.
Il tatto e Yael quando si incontrano si insultano, ma per fortuna Irina coglie la criticità della situazione e sentenzia «Piantala»
Ovviamente Yael non se la fila «È lei che ha iniziato, non l‘hai sentita? Quella si diverte a stuzzicarci»
«Sì, ma pare che tu ci caschi sempre» esala Annah con la sua vocina da Winnie the Pooh.
«Ommerda, ora ci si mette anche Encefalogramma Piatto!» Tenta di tirarle un calcio e la manca di poco «Cos’è, la rivolta degli schiavi?»
Annah assume un incarnato rosso Ferrari «Tu… tu… sei schizofrenica, ecco!...O almeno lo sembri»
«Per cortesia, ragazze!»
«Ma è lei, capo, l’hai sentita? Prima dice che sono rimbambita e poi rettifica dandomi della pazza isterica. A me! Che la tratto come se fosse normale nonostante il suo evidente autismo»
«Non… non mi sembra carino quello che dici. E’ anche ingiusto... mi pare»
«Non mi sembra carino, mi pare ingiusto» Yael fa il verso ad Annah con voce acida da professoressa zitella «“Ence”, ti rendi contro che eviti l’epilessia da esaurimento nervoso solo perché ti droghi con sperma di ramarro? Latte. E menta. Maddai! Caglialo un po’, mettilo in frigo e dimmi se non sembra sborra sciroppata, capo» e per rafforzare la boutade con solide basi empiriche, Yael sporge la testa in avanti e lascia penzolare una bava verde di saliva, sputo e latte, quindi la risucchia e ride sguaiata «Hahahahaha».
Signore aiutami.
Mi concentro sulla sagoma di Falafel, il carro di Leah, che procede dritto davanti a noi. Fra poco la strada si allargherà e allora non ci sarà più questione di “bocca” e “culo” perché procederemo quasi affiancate e sfasate di pochi metri.
Mi metto in contatto con Zeira per sapere come va all’altra metà del plotone. Dice che è ok, che ci sono movimenti ma nulla di allarmante. Spiega che stanno procedendo spedite e che probabilmente ci precederanno in piazza Dawret al Manara. Le abbiamo davanti, in pratica… Nessun problema, anzi, meglio: più sicuro.
Nel frattempo anche attorno a noi è iniziato un certo movimento. Si intuiscono grida e qualche sporadico tonfo echeggia sulla corazza. Sassate, sicuramente. Routine.
Imperturbabile a tutto, Yael non ha smesso un secondo di stuzzicare Annah. Irina ha cercato di dare un taglio alla cosa ma, nonostante riesca ad incutere rispetto a qualsiasi essere vivente dai celenterati in su, con Yael è impotente. Lei è come se fosse immune alle strigliate.
Cerco di concentrarmi sul lavoro ma un mezzo tzunami al latte e menta mi sciacqua la nuca. Chiudo gli occhi, sussurro una bestemmia e mi autoconvinco che quando li aprirò tutto sarà fiabescamente perfetto. Illusa. «Visto cos’hai fatto, cretinetti?» accusa Yael, che e’ quasi certamente la vera responsabile dell’attentato alla mia persona «Hai bagnato il capo. Scusala, capo, è figlia della mancata selezione naturale»
Conto. Sì, dai, conto paracadutisti immaginari. Nudi, in tiro e con collari e bracciali di cuoio. Più stimolanti delle pecore.
«Che poi… Miseria ladra! A destra, capo, a destra!» Yael si agita eccitatissima «C’è uno col passamontagna! (È tuo cugino, Annah?) (Ti spiace se punto un pezzo da 120 millimetri addosso alla famiglia?)»
«Non credo sia mio cugino» miagola Annah, che a volte sembra veramente stordita.
«A no? Maddai…» Yael brandeggia inseguendo il potenziale terrorista «Stai vivendo una giornata particolarmente ispirata, “Ence”. Dimmi un po’, ma quando si tolgono il passamontagna, tu riesci ancora a riconoscerli, i parenti?»
Ebbasta cazzo!
Non c’è spazio, in un tank. L’aria è centellinata, i volumi sono compressi e ogni movimento è liofilizzato in espressioni essenziali. Sfogarsi è un’arte, in questa capsula che sa di sudore e arbre magique al mango. Stringo i pugni una, due volte, poi sbotto.
«Basta!» spazientita, incalmo una manata sulla prima cosa che trovo. Do-donk, sussulta la nostra casa. Di colpo, cala un silenzio primordiale e no, non è solo una mia impressione. Sento le viscere sciogliersi e temo di assumere il colorito di un tacchino spennato mentre prendo consapevolezza di ciò che ho appena fatto. Lo sento distintamente, il sangue che defluisce via dal viso. Sono bianca. Dentro e fuori.
Scatto e inchiodo gli occhi all’isoscopio.
Ecco di fronte a noi, dritta a ore dodici, una colonna di fumo, terra e pietre che da una collina deserta schizza verso i cieli. Che Dio mi strafulmini, ho premuto il pulsante, ho fatto fuoco.
Non ho colpito nulla e nessuno, ma ho sparato.
Deficiente, oca, incosciente, nevrotica e tu saresti un ufficiale?
Vado in deficit di aggettivi qualificativi.
Comunque è un classico che in situazioni del genere ci sia l’imbecille che innesca il processo a catena. È come… avete presente i colossal in cui due eserciti medievali si osservano a muso duro? C’è quel clima da rissa ad Harlem e la tensione fa crepitare l’aria di scintille elettrostatiche mentre folle di scalmanati ribolliscono smaniose di prendersi a cornate. Tuttavia regna ancora la stasi: si aspetta che l’Imbecille Designato ne faccia una delle sue. Ecco, rilassatevi gente, l’Imbecille Designata ha appena dato il meglio di sé.
Potrei sentirmi depressa se riuscissi a smettere per un secondo di disgustarmi da sola.
«Troppo presto, capo!» tuona Yael dalla sua tana «Volevi spianare quella palazzina grigia, vero? C’hai occhio, capo, quello è sicuramente un covo di blatte. Ora te l’inquadro per bene e facciamo un bel lavoretto pulito, sì?»
La sento appena e posticipo la complessa analisi psicologica della sua mente criminale. Non voglio nemmeno guardarla perché mi ricorderebbe il motivo per cui sono sbottata e moltiplicherebbe i sensi di colpa in modo esponenziale. Di Irina vedo appena il casco e una biondissima ciocca ribelle. In pratica l’unica persona su cui posso avere una panoramica piena è Annah, seduta alla mia sinistra. La fisso. Sto malissimo. Lei alza un sopracciglio senza emettere un fiato.
Sei troppo sensibile, Annah. Fossi al posto tuo mi sputerei in faccia.
Yael brandeggia la torretta e tutto il suo mondo ruota con lei. C’è puzza d’olio lubrificante mista al profumo del solito mango. (A chicazzo dobbiamo ‘sta passione per il mango io non lo so. Forse ai meccanici. Vogliono farci capire che puzziamo? Oppure si tratta di un nuovo metodo di seduzione basato sulla confusione sensoriale? Mah.).
Dentro al carapace corazzato le vibrazioni ritmiche del motore si combinano con gli scatti dissonanti del caricamento automatico. Il nuovo proiettile è in canna… e non è successo ancora niente.
Non credo in nessun Dio, quindi è stupido pregare sul serio, ma mi concedo di sperare.
C’è silenzio, fuori… almeno così sembra. Il minuscolo francobollo di mondo che si può ammirare dai visori è luminoso, torrido, giallo e diroccato. Ma immobile.
Penso furiosamente e concludo che devo vedere meglio. Farlo sul serio, uscendo fuori.
Devo. Non mi importa se rischio il culo perché sto troppo male: mi sembra di non aver più sangue nelle vene, ma solo succhi gastrici esausti. Mi spingo, ruoto e do la classica culata al sedilino di Annah. Poggio la spalla destra al vano granate e, ancheggiando, striscio su. Mi sfilo, contorcendomi nella scatola d’acciaio, cerco l’aria come un sub nel mar rosso e salgo verso la torretta e la luce. Salgo, forse, verso un proiettile.
Anche Yael si sta muovendo, probabilmente per dare uno sguardo all’isoscopio. Siamo appiccicate come ballerini di tango quando sento il primo rumore in cuffia. È un gracchiare basso, lontano. Accelero, mi sbuccio un gomito, ho una mano sul portellone… ma Parpar inizia a muoversi. Ruota, il cingolo sinistro bloccato e il destro che raspa il terreno. Scivolo e sbatto la faccia tra le tette di Yael «Capo!» ridacchia. Cazzo ridi, incosciente? «Torna al tuo posto» Yael a modo suo mi venera e le voglio sinceramente bene anche se a giorni alterni la strangolerei con un paio di collant. Mi costringo a ricordare che in caso di emergenza sarebbe una risorsa preziosa, perfino pericolosa. Perché lei è precisa, affidabile e vorrei dire anche “spietata” ma l’aggettivo presuppone la coscienza della pietà e il suo rifiuto. Tutti concetti che semplicemente trascendono la mente di Yael: lei è una predatrice, una leonessa col cervello di un colibrì.
«Irina» chiamo «Irina, che succede?»
«Davanti a noi, Nad. Sparano a cinque o sei isolati da qui. Ci muoviamo»
Cinque. Sei isolati. Allora non è colpa mia, sì, dai… non lo è. Cinque o sei sono troppi. E… niente, devo tornare al mio posto. Dentro, sotto. Ancora. Nella luce artificiale trapassata dalle lame giallo ocra che entrano dai cristalli Bezel. Mi infilo, sguscio, mi contorco di nuovo «Avanti, bimbe belle, dateci un minimo di copertura, su» È Gavriel, dall’esterno. La voce calma, pratica. Gavriel è il comandante del plotone di fanteria che stiamo appoggiando, gli manca poco più di un mese. Dice che dopo non vorrà più vedere Ramallah nemmeno in cartolina.
Dalla nostra tana il mondo appare fatto a rettangoli, più angusto di come deve vederlo il cavallo di un calesse… Certo che, almeno, l’animale ha il privilegio di sentire i suoni senza alterazioni e lo stesso non vale per noi. Adesso, per esempio, è ovvio che fuori sta succedendo qualcosa, ma cosa, precisamente non lo sappiamo. Ci sono tonfi, detonazioni, crolli. Tutti questi rumori giungono distorti dentro al carapace d’acciaio. Le esplosioni sono echi rocciosi, i sibili sono fischi lontanissimi e le grida degli uomini sono solfeggi piumati oppure rauchi gracidii digitali che bucano i dispostivi acustici.
Parpar entra in uno slargo che forse una volta era una piazza. Irina lo guida sul lato orientale e con la coda dell’occhio scorgo una pantera color sabbia garrire alla nostra sinistra. Niente paura, è Falafel, il carro di Leah. Ragiono che se mi dovesse succedere qualcosa sarà lei a riportare indietro le ragazze, e mentre elaboro questo pensiero, di colpo, inizia a piovere.
C’è un sole che rende semiliquido l’asfalto e vampe di calore ondeggiano in una risacca da spiaggia greca. Eppure, distintamente, piove. Gocce soffici, delicate lavano parpar e Yael, la sciroccata, gorgheggia «Kakatoa-kakatoa!!!» L’effetto è quello di rain in the forest, ma siamo sotto i colpi di AK-47.
Rispondiamo sfrondando un muro con una breve raffica di mitragliatrice. Più che una vera guerra è una gara di spintoni tra bulli: loro tirano su una corazza di titanio, noi sui mattoni. Francamente la preoccupazione maggiore è che Yael si lasci prendere la mano peggio di me prima, ma finché canta The Wall è tutto apposto.
Procediamo fiancheggiando un grosso caseggiato ed io sono concentratissima. Non perdo d’occhio due tizi che si sono infilati in un vicolo laterale con un grosso affare cilindrico in mano. Potrebbe essere di tutto: un tubo da idraulici, un RPG (Reaktivnyj Protivotankovyj Granatomjot… un fottuto anticarro russo), perfino una baguette in un sacchetto di plastica… ma non mi fido.
Sto strizzando gli occhi a mo’ di ispettore Callaghan quando qualcosa di pesante colpisce parpar. Lo scossone è appena percettibile, ma l’abitacolo funziona da cassa di risonanza. È un bong sordo, opaco, le cui vibrazioni armoniche si propagano come onde in uno stagno… e poi entrano dentro l’anima di tutte noi, risvegliando l’incubo più temuto.
Annah è la prima a reagire e lo fa con inedito panico «Ci hanno colpite. Fuori, fuori tutte!». Yael scalcia nel tentativo isterico di raggiungere l’unica uscita sicura, quella del portellone posteriore, e nel frattempo piagnucola «Ci illuminano, arabi rottinculo, ci illuminano!» [NOTA: Illuminare, nel gergo dei carristi di TZHAL, significa incendiare un tank, in genere con un colpo diretto di anticarro o una granata HEAT. All’interno di un carro “illuminato” si sviluppa quasi istantaneamente un calore di non so quanti gradi centigradi e si arde vivi. È la morte più comune e la più temuta dai carristi.]
«CHE NESSUNA SI MUOVA!» tuona Irina… sangue di ghiaccio, che invidia «saremmo già morte se ci avessero illuminate. Usate il cervello!»
«Esatto» chioso, giusto per dare l’impressione di padroneggiare la situazione. In realtà sono impegnatissima a perdere la battaglia con una raffica di spasmi addominali. Questo, però, non intendo divulgarlo. È una questione di dignità personale connessa al ruolo, capite? Perciò vi sarò eternamente grata se mi farete la delicatezza di ignorare il dettaglio, cosicché possa portarmi nella tomba l’imbarazzo e il suo segreto.
«Cosa ci ha colpito, allora?» chiede Yael «Perché qualcosa ci *ha* colpito… Capo, esci a vedere.»
«Fossi scema!»
«Chiama con l’interfono, allora.»
«Ecco, già meglio.»
Mi attacco al walkie talkie e chiamo Gavriel, «Gav, ehi Gav? Mannaggiattè, dove sei?»
«E un attimo, segen [tenente]! Qui è lammerda»
«Anche da noi non è uno spettacolo»
Sbuffa come a dire “Cazzate. Dovresti sentire l’arietta che tira fuori, figadilegno raccomandata” ma fortuna vuole che Gav sia un gentleman pertanto si limita a chiedere «Cazzo volete, bimbe?»
«Abbiamo sentito un botto. Non può essere un razzo, cosa c’ha colpite?»
«Ah, quello…»
«Sì, quello.»
«È una lavatrice.»
«Una CHE?!»
«Una lavatrice, presente? È un cubo con un oblò circolare, un motore e una centrifuga. Vi hanno tirato una lavatrice dal terzo piano e vi hanno rigato la carlinga. Vi hanno anche scrostato la vernice del nome e finalmente questa farfalla è diventata un toro. Hahaha.» [Stupido gioco di parole in ebraico tra parpar, farfalla, e par, toro. Lo humor maschile raramente è sofisticato ma quello di Gav tende all’aberrante. Peccato perché di suo, il ragazzo, sarebbe anche un discreto manzo da rodeo.]
‘Fanculo, gli chiudo l’apparecchio in faccia, sgarbatamente, e spiego l’accaduto all’equipaggio.
Risolini, battute prevedibili, sollievo che si può tagliare a fette come burro per poi spalmarlo di incredulità. Siamo tutte sollevate ma io mi sento strana, addirittura svuotata. Scomodamente tiepida. Un sospetto aleggia nell’aria, e chiamarlo sospetto è riduttivo. Chiudo gli occhi e prego ogni dio e ogni demone che non sia come temo, poi mi faccio coraggio come quando si afferra un ragazzo per il bavero della camicia e lo si violenta di baci al primo appuntamento. Con noncuranza, quasi timidamente, faccio scivolare una mano lungo la coscia e poi dietro. Lenta, come a raddrizzare una fastidiosa piega dell’uniforme. Tasto.
Morbido, troppo morbido
Tiepido, troppo tiepido.
Diodiodio… mi sono cagata addosso. E che tanfa di carogna!
Non se ne accorgeranno, dai, con tutto ’sto casino non succederà mai. E infatti… «Ma cos’è questa puzza?» geme Irina «È insopportabile, cazzo!»
Yael le fa eco dalla tana «Vero, vero… e non hai idea di cosa sia quaggiù. Doveva essere piena di merda quella lavatrice. Bastardi! So come funziona, è una tecnica consolidata: non sanno che farsene di una lavatrice, questi selvaggi pidocchiosi, la scambiano per una specie di turca portatile. Perciò la rovesciano, poi tutta la famiglia caga nell’oblò fino a riempirla e solo allora ce le scagliano contro. Stronzi! Adesso glielo dico» afferra l’attrezzo collegato al megafono e inveisce «STRONZIII!»
Ho come l’impressione che la situazione mi stia sfuggendo di mano. Blocco l’interfono e la riprendo pesantemente. Non ho la più pallida idea di cosa le sto dicendo ma in questi casi – come insegnano in accademia – i contenuti sono secondari rispetto alla gestualità, al tono e alla rabbia cattiva che metti nelle parole. Perciò gesticolo nella posa che ho studiato apposta per i Grandi Ammonimenti: la mano sinistra poggia sul fianco mentre l’indice della destra, teso per aria, disegna piccole circonferenze immaginarie che dovrebbero rievocare l’Assoluto sepolto nella coscienza atavica dell’uomo. Chi avrebbe mai detto che anni dopo sarei stata spudoratamente copiata da un certo Bin Laden? Da brava fessa, mi sono lasciata sfuggire l’unica chance di brevetto che abbia mai avuto nella vita. Nonna aveva previsto tutto: ero nata da un paio di giorni e, unica nella nursery, non riuscivo ancora a cogliere la relazione seno-cibo. Mi ha osservata seria seria per qualche minuto, poi mi ha indicata alla mamma «Questa è inconcludente, Alberta» ha sentenziato «ti suggerisco di farne qualcun altro». E’ per questo che ho due fratelli.
«Hu-huuuu» la voce di Leah esplode dalla radio «ma siete bellissime! Se vi vede Yossi (Yasser Arafat n.d.a.) scoppia a ridere e muore dissanguato per epistassi»
Ma porc… Leah spiega che la lavatrice deve essersi incastrata da qualche parte sulla corazza. Ce l’abbiamo sopra la testa, come le masserizie degli emigranti. Che vergogna!
«Ora… la… but-to… via… capo.» Yael agita la torretta a destra e a sinistra. Veloce, sempre più veloce.
«Nooo, dovrei filmarvi» è sempre Leah «Un Merkava che si scrolla come un terranova bagnato. Creative! Ascolta la profezia di un’amica, Nadja: tu un giorno lavorerai nel marketing»
«Ma smettila!»
«Ok, capo… la smetto… »
«Non dicevo a te Yael, ma in effetti è un’idea se la pianti anche tu.»
«… è che… questo movimento… eppoi ‘sta puzza… BUUEERP.»
«Nooooooooooo.»
«Scusa, capo, sai che normalmente non ho lo stomaco sensibile ma… BUUEERRPPP.»
Yael non è in grado di vomitare come una persona normale: lei erutta a caso e lapilli di contenuti gastrici gocciolano ovunque inzaccherandoci a pioggia. Annah stringe al petto la sua preziosa borraccia-antistress ed eroicamente le fa scudo col proprio corpo.
Mi vien da piangere.
«Attenzione!» il grido di Leah ci riporta alla realtà.
Un’esplosione davanti a noi fa supporre il lancio di granate.
Automaticamente triangoliamo sulla posizione da cui pare sia stato lanciato l’ordigno ed apriamo il fuoco. Falafel, che è ad una ventina di metri più avanti, allinea i suoi sistemi d’arma ai nostri e si unisce al concerto. Yael è precisissima, un killer nato. In pochi minuti di una casa restano ferri contorti, mozziconi di cemento e metà facciata. Se c’è stata una risposta armata non l’abbiamo nemmeno sentita.
«Stop!» ordino il cessate il fuoco e lascio che il silenzio si riappropri di ogni cosa. E’ incredibile la quiete che segue una sparatoria. Tesa, assoluta, agghiacciante. Il nostro artigliere, che in fondo ha una sua sensibilità corrotta, intona Emotion di Mariah Carey.
Intanto i ragazzi di Gavriel si lanciano verso la casa diroccata per stanare eventuali superstiti e la strada si svuota con l’eccezione dei grossi Merkava. Immobili. In uno di essi, un rivolo di granita di merda mi liscia l’interno coscia «Sai, Yael? Per quanto inverosimile credo che tu abbia ragione con quella storia della lavatrice piena di escrementi: senti cha arietta, devono averci concimate per bene» .
Yael risponde alzando il pollice e sorridendo con aria compiaciuta “Eggià lo so” sembra dire “sapessi com’è dura aver sempre ragione, capo”. Non risponde a parole solo perché è attualmente posseduta da Out of Time dei R.E.M. e ad un tratto ci stupisce stonando con un sibilo soffice, quasi incerto. Non faccio in tempo a commentare che una nuvola avvolge Falafel. Granelli di polvere, a milioni, sfumano la sagoma del tank e catturando la luce diventano una cascata di paillettes dorate. Il carro di Leah sembra una star di Hollywood appena un filino soprappeso, ma sgargiante nel suo chiccoso abito da sera.
Sorrido accarezzando l’idea che il bello o un’opera di arte moderna possano nascondersi anche nelle immagini più scontate. Ho ancora un’espressione perfettamente ebete quando le paillettes iniziano a perdere la loro patina festosa facendosi dapprima color torba poi grigie e infine nere. Quello è fumo, non polvere!
«Falafel!» una sola parola. La voce di Irina esprime allarme striato d’ansia.
«Non ci credo…» Annah dubita, non si smentisce mai.
Poi uno sbuffo oleoso si alza dalla prua del carro colpito ed inizia ad arrotolarsi in direzione del vano posteriore «Macchine indietro, Irina! Muoviti, staccaci via!»
Yael brandeggia il pezzo da 120, probabilmente per vedere meglio «Wooowww, sta friggendo! Okey, dai, i falafel crudi fanno schifo.»
«Yael!»
«Beh, che ho detto?»
«Non ho parole» Annah scuote la testa con lenta esasperazione.
Io ne ho, invece «Sei un pezzo di merda, Yael, se vengo lì ti rompo il culo.»
«Ma perché, capo?»
«Per ristabilire l’equilibrio» psichico, il mio.
«Eccheccazzo, capo, una battutina per svelenire il clima.»
«Sei da riformare, mi senti? Ti dovevano assegnare allo Yaldei Raful, dove mettono i ritardati che maneggiano ruspe D9 senza sapere quel che fanno »
«Mio fratello era allo Yaldei Raful!»
Tutto si spiega. Irina piega la testa di lato, lo sguardo impassibile negli occhi blu marina. La voce esce sottile come filo di scozia «Tare genetiche.»
Parpar sussulta e stiamo guadagnando distanza quando il portellone posteriore del carro colpito si apre di scatto tossendo fuori una, due, tre sagome. Una ragazza inciampa, cade rovinosamente, si rialza, arranca con mani e piedi prima di riprendere a correre.
Tre, merda, solo tre! Ne manca una.
«Ferma! Blocca tutto »
Irina capisce al volo. Ha visto anche lei le compagne e reagisce d’istinto invertendo la marcia per tuffarsi verso di loro. L’idea è di usare parpar come scudo corazzato.
Nel frattempo falafel vomita il quarto componente dell’equipaggio. È Leah. E sta bruciando. Non completamente, per fortuna, ma fuma tanto da sembrare una candela appena spenta e arranca, barcolla, avanza come se avesse gli scarponi da sci ai piedi mentre lingue di fiamma le scappano dalla schiena e dalla tuta.
Dio, cosa è successo? Vorrei andarle incontro, aiutarla. Non so nemmeno io cosa potrei fare, forse sorreggerla. Vorrei… ma sono impotente. Mi è concesso solo guardare attraverso i paraocchi di una scatola di latta.
Irina sterza. Per coprire anche Leah rischia di avvicinarsi troppo a falafel, che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Annah ed io non facciamo commenti. Yael, sconnessa dal globo, canticchia My Baby Shot Me Down versione Nancy Sinatra, ma ormai non facciamo più caso a lei.
Poi Leah inizia a gridare. È un suono nitido, penetrante come il sibilo di una turbina e irreale come l’urlo di un fumetto. Accenna ancora qualche passo, si strappa il casco e quasi immediatamente i capelli corvini si accendono come uno stoppino.
È spaventoso.
Una figura umana che inciampa, rotola, fuma nella tuta ignifuga, ma non brucia. Tranne la testa, perchè quella è avvolta da una goccia di fiamme gialle e nere. Ce l’ho di fronte, Leah, quando si porta le mani al viso aggiungendo dolore al dolore. Le stacca ustionate e rantola, geme bassa, non è più in grado di gridare ma dall’esterno sembra che sia il fuoco a divorarle la voce e il respiro. A scioglierli come le sta sciogliendo la faccia.
Nel frattempo, Falafel arde e fuma ma non sembra ancora disposto ad esplodere. Carino da parte sua. Leah è ad un passo dall’angolo morto e fra poco non la vedrò più. Sospiro di sollievo e subito mi sento in colpa per averlo fatto. Che pezzo di merda. Yael ha il raziocinio di un coleottero, ma tu non hai attenuanti. Vergogna!
All’ultimo momento intravedo una silhouette verde oliva che scatta verso la mia amica. Sembra Gavriel, ma potrebbe essere qualsiasi altro. Un uomo, però. Sicuro, perché è troppo alto e largo di spalle. Ha una coperta, gliela butta addosso e la trascina a terra di peso come un placcaggio da rugby. Credo, almeno. Lo deduco, lo immagino, lo spero. La scena ha superato l’angolo e davanti a me, ormai, resta solo il muro di una palazzina palestinese. È sbracciato, cadente, le schegge e i proiettili hanno lasciato coriandoli di varicella sull’intonaco della facciata. È l’esatta proiezione di come mi sento adesso.
L’ululato di Zeira buca l’auricolare e la sorpresa mi schianta una craniata su una delle tante pareti del cazzo «Qui Zeira da Shakar [bugiardello, altro tank del plotone] È vero che hanno acceso uno dei nostri?»
«Hanno preso falafel »
«Bastardi figli di puttana! E le ragazze? »
« Fuori. Salve, ma Leah è ferita»
«Dobbiamo bombardarli, bombardarli e basta. E chiuderli dentro queste fetide città. Arabi e maledettissimi ultraortodossi invasati che giocavo a fare gli halutzim [coloni, pionieri] con la nostra pelle. Non so chi mi faccia più schifo. Forse i nostri… perché sono nostri»
Zeira deve avere poteri profetici perché l’aria inizia a vibrare orchestrando la sinfonia ultraterrena degli elicotteri d’assalto. Dom-dom-dom-dom, sono come tamburi. Bassi. Minacciosi. Ricordano i motori a due tempi… forse lo sono, in fondo che ne so io di elicotteri?
Dalla sua scatola di latta una carrista non vede nulla, ma può immaginare. Quindi ecco che siamo sovrastate da uno sciame sterminato di locuste color verde marcio (In realtà saranno tre o quattro velivoli, ma io preferisco sognarne a centinaia come in un film americano: per qualche motivo mi infonde una specie di euforica sicurezza). Sono osceni coleotteri d’acciaio con musi ibridi di cavalletta e bulldog, le loro ali cariche di morte sono come le sciabole di una mantide. Dom-dom-dom-dom, oggi la vendetta sarà loro. Forse. E ammesso che abbia senso ragionare ancora in questi termini. Sì perché io… io scopro di non essere arrabbiata né impaurita, adesso. Non mi manca la determinazione e non mi sento neppure meno pugnace, però… sono disgustata, ecco. Disgustata nell’anima.
«Dicono di ripiegare » grida Annah sovrastando il caos.
Annuisco e do due pacche sulla spalla di Irina. Non occorre altro.
Eseguiamo.
Hanno trasferito Leah in un ospedale specializzato di Haifa, vicino alla sua famiglia, e a tre giorni dall’incidente (definizione profilattica e ufficiale) vado a trovarla assieme alle ragazze dei due equipaggi.
Intercettiamo Leah nel corridoio mentre un’infermiera l’aiuta a muoversi senza sbattere contro cose o persone. Osservandola, elaboro che è impressionante come il corpo non abbia riportato nemmeno la più piccola lesione, mentre la testa, il volto e le mani sono avvolti da giganteschi cotton fioc di bende. «Ehilà » saluto e in un attimo circondiamo la compagna, l’abbracciamo, la tocchiamo perché lei non ci può vedere.
Gli occhi lucidi si sprecano e articolare una frase adatta alla circostanza è una sfida tra noi stesse e gli stracci bagnati che ci strozzano la gola dall’interno. Mi sento quasi in dovere di fare la prima mossa, ma fortunatamente Annah mi previene «Co-come stai?»
«Una meraviglia, “Ence”» interviene Yael «Guardala, finalmente può indossare una merda di vestaglia celeste coi personaggi del “Re Leone” senza provare il minimo imbarazzo» Pietrifico osservando la precisa descrizione dell’indumento indossato da Leah, una delle ragazze di falafel sussulta. “Ecco fatto” penso “una bella zuffa in corsia, e finiamo la settimana in bellezza”. Ma per fortuna Leah ridacchia sotto le bende e il clima si rilassa notevolmente.
Restiamo in ospedale fino a sera, quanto basta per realizzare che Leah non ha preso veramente coscienza di quanto le è successo e delle inevitabili conseguenze. Spero di essere lontana mille miglia quando le leveranno le bende. Che tragica vigliacca che hai partorito, mamma.
Sono di nuovo alla base, distesa sul letto. Tra le mani stringo un dispaccio che notifica l’arrivo di un nuovo capocarro per l’indomani. Si chiama Sofia Modena e dev’essere anche lei di origine italiana.
Chiudo gli occhi, l’acqua scroscia nella doccia e in controcanto la voce di Yael intona November Rain dei Guns N' Roses. Vivo in uno strano torpore, apatico, e sarà per via della doccia, sarà per il testo della canzone, ma riesco a pensare solamente a una cosa. Che San Valentino è passato e su di noi i giorni continuano a piovere indifferenti.
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