Silenzio




Silenzio.
Non posso parlare, dire, fiatare, lettera, testamento.
Silenzio.
E voglio gridare invece (son capricciosa, eh?). Manifestare il mio possesso e la mia appartenenza.

Mi costringo a tacere e detesto questa condizione almeno quanto amo la gemella. Quella dolce, imposta da un amante. Morbida di seta, elastica di gomma, o rigida come un morso di legno. E cattiva.
Amo il silenzio di un barile bonsai, non piu’ grosso di tre dita e marchiato da tacche confuse di canini e molari.
I miei canini. I suoi molari.

Niente, non fate caso a cio’ che scrivo: e’ tardi ed ho perso il conto dei margarita. Date per scontato che vaneggi o che viva contemporaneamente su due piani paralleli, ok?
Di conseguenza questo e’ un racconto stroboscopio, relativistico, multiuniversico o semplicemente strabico.
Bevo.

Per la cronaca siamo ad un cocktail in cui imperversa il silenzio di google, quello che ti vomita addosso milioni di occorrenze senza riuscire a risolvere i problemi. Il nulla prodotto da una tempesta di parole.

Siamo usciti all’aperto perche’, nonostante sia autunno inoltrato, nella villa fa un caldo da savana… Villa, in realta’ si tratta di un rustico con pretese palladiane affittato da una holding megalomane. Insomma, l’immobile fa molto parvenu’ ma il giardino e’ bello da mozzare il fiato e fresco come un sogno di mezz’estate.

Qui dovrei sentirmi a mio agio, eppure c’e’ qualcosa che m’indispone.
Gia’, cazzo, ho appena scoperto che le scarpe da sera con tacco assassino sturbano i maschi ma non sono adatte al tappeto erboso: sto trapanando il prato con una fila irregolare di carotaggi da macchina seminatrice e ad ogni passo mi sembra di sradicare il tallone dalla presa di un maniaco feticista. Forse dovrei camminare sulle punte come Cenerentola, o evitare di fraccare zampate come se indossassi ancora gli anfibi.
Amen.
Fosse per me e per l’alcool che mi circola in corpo, resterei scalza e zampetterei come Bambi sopra l’erbetta soffice e sotto questo cielo blu cobalto (che tra l’altro e’ graziosamente fonoassorbente).
Bevo.

A proposito di sogni, Lui dov’e’?
Li, eccolo laggiu’.
Vaffanculo come e’ bello.
Ok, ok, la nonna diceva che una signora non si esprime cosi’, ma come si esprime una signora?
“Numi, che fregno!”
Mmmm, mi sa di no…
Forse una signora non si esprime affatto e si tiene tutto dentro. Nel silenzio.
Spero di incontrarne una nella vita. Spero anche di fotografare un bigfoot. Se ci riesco (ad incontrare la signora, non il bigfoot), parola d’onore che glielo chiedo.

Comunque lui e’ veramente bello. Di fisico, di viso, dentro, tutto. Ha i capelli color miele di castagno che sembrano quelli di un fumetto e ha un profumo naturale che… cioe’, a volte mi domando come faccia a stare con me. D’accordo, non e’ che stia con me veramente. Non puo’. Non posso io. Si, insomma, e’ una specie di congiura giacobina. La domanda piu’ che altro e’ come minchia faccio io a piacergli.

Oh, non che sia un roito inguardabile, solo che… come spiegarlo? Se Brad Pitt perde la testa per voi (o Luca Zingaretti o Robbie Williams, il vostro top, questo voglio dire) non vi fa uno strano effetto?
Per calarvi nella parte voi maschietti potete metterci Angelina Jolie, Adriana Lima o qualche altro grazioso agglomerato di buchi da fottere (no, nemmeno cosi’ si esprime una signora).
Allora? Fatto?
Nel frattempo io bevo.

Ecco, adesso riuscite a capire l’effetto che mi fa?
Forse sono strana io. Ho smesso di credere alle favole quando e’ morto il nonno e mi son trasferita a Benai. Avevo sei anni e probabilmente era troppo presto per mandare a fare in culo biancanevi, principi azzurri, belle, bestie e fascinosi ereditieri. Mi deve essere rimasta una specie di discontinuita’ nella crescita emotiva: niente favole, niente sogni, niente passioni e mi son fatta travolgere come una vergine quando ogni desiderio, anche il piu’ segreto, si e’ avverato all’improvviso.

Comunque a ben guardarmi oggi non sono affatto male. Calzo scarpe sensuali: appena due strisce, tacco e laccetti da schiava che si avvitano come edera risalendo i polpacci. Il vestito? E’ un tailleur che mi sta da schianto, sotto ho la biancheria di raso che abbiamo comprato insieme e sotto ancora, a contatto con la pelle, avverto il contatto freddo con la placca metallica delle dogtags.
Ecco neanche loro sono da signora, no, con quella sottile catenella da cesso che mi stringe il collo come il guinzaglio di un cane… non lo sono, ma alludono. Hanno un significato e lui lo sa. Questo e’ l’importante.

Beh, prima mi son guardata allo specchio. Ho deciso che forse sembro una prostituta, ma di certo faccio la mia porca figura.
Pero’ voglio qualcosa di piu’.
Desidero farlo impazzire, stuprargli i sensi e i sogni. Per lui voglio diventare una necessita’ primaria, ne ho un bisogno feroce. Percio’ tra qualche margarita potrebbe pungermi vaghezza di sputtanare 350 euro. Do un strappo a questa gonnellina casta e lascio che la coscia faccia capolino.
Un po’ da troia, dite?
E allora?
Il mondo e’ delle troie, me l’ha insegnato la segretaria del capo.
Bevo.
Sto vaneggiando.
Non mi contraddite, che quando sono alticcia resto lucidissima ma divento intrattabile. Sto vaneggiando e sono anche sprofondata di tre centimetri col tacco. Per mantenere la verticalita’ sto piegata in avanti come una sciatrice che guarda a monte. Mi sento piu’ inamovibile di un monolito di Stonehenge.
Recupero dignita’ e statura schiodandomi dal terreno e voila’ che i nostri sguardi si incrociano.

Dio cosa mi sta dicendo.
In silenzio, muto, con un sorriso che ti porta via e quegli occhi che gridano.
I suoi piu’ dei miei, perche’ li ha di un colore impossibile, quel rottinculo. Un nocciola chiaro che sbanda sull’ocra, sul giallo e poi nell’oro. Bastardo, lo odio!
Vorrei rispondere sulla stessa frequenza e mi concentro come Uri Geller, lo storzellatore cucchiaini.

Ora, immaginate due occhi verde mare, fissi come quelli di una lince sulla preda. Immaginateli spalancati. Immaginate un penoso tentativo di renderli acuti, brillanti, sagaci ma senza strizzare le palpebre come Clint Eastwood mentre ciuccia stecchini. Ecco, l’effetto ricorda quello di un bue che si e’ appena preso una tranvata di maglio in piena fronte: c’est moi.
Ma come diavolo faccio a piacergli?
Non bevo.
Il bicchiere e’ asciutto, il margarita e’ amaro.

Fluttuo verso di lui con la naturalezza d’una assetata ad un party.
Zampetto sulle punte e lungo il percorso attiro nel mio campo gravitazionale Martina, che sfruttero’ ignobilmente per improvvisare una conversazione di copertura
“Maddai, Martina, ti ha veramente chiesto cosa desideravi per regalo? [Five meters] Cosi’, sfacciatamente, senza pudore? [Four] Grossolano… Sapessi quanto detesto gli uomini materiali e privi del piu’ elementare romanticismo [Two!], anche tu scommetto, vero?” [Zero, Contact! Oh, dear Huston, it’s one small step for a woman, one giant leap for me].

Voila’, indietreggio enfatizzando partecipazione emotiva e, sbadatamente, la mia schiena incontra il suo petto. E’ tutto meticolosamente calcolato, tranne l’inchiodata che gli mollo sull’alluce. Ora lo sento. Anche lui mi sente.
Percepisco che dopo il rantolo di dolore si lascia andare. Lascia che le mie spalle dominino ogni cosa. Lui e’ mio. Il mio uomo, il mio amante, il fratello del corpo e dell’anima che mi e’ sempre mancato. Mio, vaffanculo. Emme.i.o. Anche nel silenzio rumoroso di un dialogo idiota. Anche se nessuno sa e nessuno potra’ mai sapere. Anche se e’ un segreto bastardo che mi uccide piano piano.
Lui e’ mio ed e’ solo con lui che vivo.

Ripeto il concetto come un mantra, urlandolo senza un suono e lui, che e’ l’unico a sentirlo, in risposta respira a fondo, lentamente.
Inspirando mi accarezza la schiena strusciandoci il petto nel piu’ discreto degli abbracci. Perche’ nulla appare, ma per me e’ come essere piegata su una poltrona, aperta, sudata, stuprata. Per me e’ come se lui mi passasse la lingua sulla pelle nuda della schiena, ripagandomi con un bacio ruvido per quanto sono stata docile e brava.

“Davvero, Martina, certe attenzioni sono il calcestruzzo su cui si basano le fondamenta di una coppia. Cioe’, fattelo dire da un’amica sincera, devi affrontalo con fermezza e…” ma che cazzo sto dicendole? Non ne ho la piu’ pallida idea e non potrebbe fregarmene di meno. Come di Martina, d’altronde. E’ maskirowka, camoufflage. Le parlo come si fa ai cavalli e ai bambini. La cullo nei suoni senza che ad essi siano connessi reali significati.

L’ho imparato dalla lirica, sapete?
Si, dai, a teatro chi ha mai capito che cazzo gorgheggia il soprano? Lei vocalizza, enfatizza liquide, gutturali e vibrati. Emozione e suono senza badar troppo alle finezze semantiche.
Come quando si scopa.
E’ un inganno? A volte si e a volte no, ma Martina e’ cosi’ felice che un essere umano la caghi in modo apparentemente disinteressato. Perche’ svangargle un mito? In ufficio sono l’unica che non le richieda corrispettivi biologici in cambio della propria amicizia: svolgo un ruolo importante nella sua vita. Tutte le ochette velina-ma-non-posso dovrebbero avere un’amica come me per contratto sindacale.
E allora continuiamo. Parole, parole, parole con la lingua.
Silenzio.
Mentre e’ il corpo ad esprimersi in una conversazione nascosta.

“Per esempio, Mart…” una mano mi sfora la bocca. E’ liscia come quella di un bambino. E grande e costellata da calli duri alla base di ogni dito. Come boiamondo fa? Ad avere mani morbide e callose, da geisha e tremendamente maschili insieme.

La mano si sposta sulle guance. Le deforma accarezzandole per meno di un secondo. Si chiude a conchiglia sulla mia voce. La tappa. La soffoca. La stupra.
“Mfgtignaaa” insisto, perche’ non mi si doma facilmente.
E tutti ridono.

Anch’io rido. Lo faccio con gli occhi e contemporaneamente gli mordo piano la pelle del medio. Pianissimo, non piano. E’ un morso di suzione, e’ un link ad un pompino con tanto di lingua che lenisce succube.
Per la platea mugolo, esprimo indignazione come un’attivista di Greenpeace volgarmente snobbata dalle forze dell’ordine. Per lui, invece, accenno ad una piccola ribellione. Lo faccio perche’ mi stringa e mi domi, per sentirmi sua.
Sappiamo bene che tutto finira’ per integrarsi nello show ufficiale. Nulla di sconveniente, nulla di proibito. Mi liberera’ tra due o tre secondi al massimo. Tanto voi che ne sapere che e’ cosi’ che scopiamo? Che si strappa la cinta e mi lega le cosce. Strette. Nel cuoio. Che mi blocca le braccia dietro la schiena. Che mi benda e mi costringe a camminare, a strisciare. Cieca e prigioniera. Che mi piega con la voce e che io lo prego, no, lo supplico, lo imploro di usarmi o almeno di farmi sentire sulle natiche e sul seno i morsi di una sferza improvvisata.
Che ne sapete che mi bagno fino alle ginocchia e quasi piango quando finalmente si degna di me. E allora mi rovescia su un tappeto o m’impone di prostrarmi. E mi apre con le mani, e mi incula, e mi sbatte, e mi sfonda.
Che ne sapete che prima di venirmi dentro mi ruba la voce, mi violenta il cervello e mi lascia un senso, uno solo. Il tatto. Per sfiorargli il ventre duro con le dita legate, ma soprattutto per sentirlo li, nel culo, distintamente, le spinte, le contrazioni e infine il suo seme, che mi invade tutta. Arresa.
Che ne sapete di cio’ che la sua mano mi sta dicendo ora, qui, davanti a voi, in perfetto silenzio?
Niente.
E allora guardatemi, guardatemi tutti. Guardateci.
Voglio che i vostri occhi ascoltino un grido che durera’ appena un istante.
E poi sara’ gioco, battute, inganni. Per voi.
E attesa. Per noi.


Nadja Jacur

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