Specchio specchio delle mie brame...




Alta, imponente e mora, specchio.
In legno di quercia e con intarsi bicolori che si abbracciano in una danza intricata, che sembrano volteggiare al ritmo di una ballata irlandese, di un garbuglio serpentino tutto curve e ghirigori.
Il tuo intreccio è interrotto qua e la da lamelle palmate e cuoriformi, bionde di tiglio o di mogano bruno: sono foglie d’edera, simbolo di un legame intimo ed eterno. Il nostro.

Mi superi di una spanna, specchio, e poggi su zampe posticce dall’aspetto felino.
Con esse ti aggrappi al terreno, ti ergi spavalda come una sfinge dal volto ovale ma, soprattutto, con esse difendi il tuo tesoro più prezioso: un mondo che è una stanza, una realtà che spesso è solo un volto o un corpo. Perché in fondo la tua ragione d’essere è tutta li, nella quarta dimensione simmetrica ed evanescente che per noi umani nulla è più di un’immagine riflessa.

I tuoi artigli lisci e bruni mi hanno sempre affascinata, specchio.
Sono spuri, figli della tronfia arroganza di un impero scomparso, e mal si adattano alla delicatezza delle decorazioni arboree. Sono pesanti laddove tu sei lieve e quasi eterea, ti conferiscono un’aura aggressiva quando tu saresti mite ed immobile e, al contempo, fanno di te un ibrido tra i regni animale e vegetale.
Spaccata in due. Ecco come sei, specchio mio, esattamente come io sono divisa, nel mondo degli uomini, tra diverse culture e modi di pensare.

Dacché mi ricordo tu ci sei sempre stata, specchio. Prima eri nella stanza della nonna, poi, quando ci trasferimmo a Benai, ti hanno messa nella mia cameretta, laggiù nell’angolo a sud-ovest, vicino alla finestra che lottava ogni giorno con la bouganville.
Da quel punto, la mattina vedevi le prime luci e, mannaggia a te, me le sparavi in faccia.
Si può dire che ci svegliassimo insieme e che il tuo fosse il primo volto umano che mi trovavo di fronte… beh, non male, dai. Poteva andarmi peggio, basti pensare al sisma emotivo che doveva provare ogni giorno Mariah, quell’orribile e squallida papera arrogante.

Quante storie ti ho raccontato, specchio, quanti sogni: cento speranze, mille monologhi ed infinite recite pre-interrogazione (nelle quali – si sa – la gestualità allocutoria conta quanto i contenuti).
Non dimenticherò mai, inoltre, che sopportasti le mie ansie struggenti alla comparsa dei primi brufoli adolescenziali. Anzi, che fosti proprio tu a rivelarli, a mettermi in guardia da quel nemico osceno e repellente. Fu grazie ai tuoi silenti consigli che manovrai con chirurgica perizia le unghie giustiziere.
Grazie, compagna.

Poi ci son state altre cose, specchio: tu hai vissuto tutti i miei cambiamenti, più complice di una amica, più vicina della mamma. È stato davanti a te, per esempio, che il busto piatto di una bambina magra e vivace si è gonfiato piano per poi sbocciare all’improvviso, e nella tua espressione c’era un mix di orgogliosa sorpresa ed imbarazzata confusione. Sembrava che il fiorire delle mie tette ti avesse colta impreparata. Quasi ti aspettassi che, essendo io un maschiaccio, sarei rimasta piatta a vita come un’asse da stiro o, peggio, avrei sviluppato un decolté ispido di setole di cinghiale.

Sono arcisicura che la mia espressione era diversa, al limite poteva essere interrogativa, tié, ma non certo incredula: me l’aspettavo, è una metamorfosi fisiologica. Sapevo che prima o poi sarebbe successo e anche se i maschi mi guardavano come se venissi da Plutone io… merda, che fastidio! E quanto mi sentivo impedita e sbilanciata! Roba da non credere… ok, ero incredula, e non fare quella faccetta li quando ti do ragione: mi dai terribilmente sui nervi.

Che dire, quello è un momento magico per ogni donna, ma è anche critico. Ci si arrovella sul significato delle cose, sulla ragione di tutti quei cambiamenti, e si cercano risposte ai più tortuosi puttanemi della vita, mentre la propria visione di se abbandona l’isola di Peter Pan per affacciarsi sul mondo dei grandi.

Insomma, mamma non c’era, Immy ed Alexja eran troppo piccoli e papà non conta un cazzo per certe cose… c’eri solo tu, specchio, e in quel frangente mi fosti più vicina di quanto si possa immaginare: fu osservandoti attentamente che compresi il significato profondo del principio di Lavoisier, l’assurdità del creazionismo e l’onnivalente concetto del divenire.

Rispetto a mio fratello fosti molto più discreta e decisamente meno criptica.
Ms si, dai, che te l’ho già raccontata!
Mi riferisco a quella volta all'Amotz Bar, quella volta che Immy, tutto ad un tratto, se ne usci con una strana osservazione: disse che la saliva che aveva lasciato sul suo bicchiere di cocacola sembrava "una sborrata". Una frase enigmatica, sulla quale mi scervellai accanitamente per un intero fine settimana, anche se sul momento, naturalmente, annuii con l'aria di chi ha capito tutto.
Già, perché ti assicuro che è piuttosto difficile osservare una materia ignota che galleggia in cima ad un bicchiere di coca e da questa minima informazione dedurre il miracolo della vita.

Ma lasciamo perdere quel selvatico di mio fratello e torniamo a noi. Pensa che secondo molti (tra cui perfino il saggio rabbi) gli oggetti non possono avere un’anima… Quanti mostri insensibili esistono a questo mondo, vero? Gente dalla mente piccola e confinata in dogmi miserabili. Farcita di stronzate, per dirla con chiarezza.
Si, perché tu un’anima ce l’hai, io lo so. Ricordo come mi guardasti quella volta, ricordo il tuo unico, enorme occhio d’argento ceruleo e la tua pupilla verticale di gatto, una pupilla color caramello chiaro, perché si era sul finir dell’estate ed io mi abbronzo facilmente.

Dovevo avere sui quindici anni o giù di li, perché portavo ancora i capelli corti, tagliati netti alla base del collo e scalati via via sulla fronte, tanto che da lontano c’era chi mi scambiava per un maschio.
Errore tragico, perché mi indispettiva un sacco essere confusa con uno di quei grossolani e rozzi primati. Una volta fui persino costretta a massacrare di mazzate un amichetto, difendendo così l’onore della mia fragile e virginea femminilità.
Oggi saprei farlo soffrire almeno il triplo, e sfiorandolo appena con un battito di ciglia.
Si cresce.
Si migliora.

Ricordo quanto ti piaceva sbirciare la mia mano che perlustrava incerta il seno giovane e duro, lo soppesava pensierosa, ne esplorava la bombatura e risaliva sulla cupola scura del capezzolo.
Oh, ti piaceva guardare, vecchia porcella, e toccare, con quella tua carezza liscia e fredda che fa rabbrividire e contrae i muscoletti sottocutanei in un lieve tremito lussurioso.
E ti eccitavi.
Non mentire: ti eccitavi, ti veniva la pelle d’oca e volevi che facessi di più, sempre di più. Tant’è vero che quando abbassavo il capo per guardarmi il ventre e inevitabilmente la frangia mi ricadeva sugli occhi, la tua pupilla di gatto, riprendendo il movimento, sembrava strizzarmi l’occhiolino.
“Coraggio” ammiccava “vedrai che ti piace. Su” mi blandiva “guarda come faccio io”.
Specchio, specchio… sei una vecchia troia, sai?
Ed io ero giovane ed ingenua.

Così la mia mano destra (o forse era la tua sinistra) scese serpeggiando tra i seni, si smarrì all’altezza dell’ombelico e riprese il suo cammino esplorativo verso sud, arrampicandosi sulla pelle tesa, scivolando sulle pareti lisce e facendosi imprigionare nella morsa cannibale delle cosce.
La lotta fu impari, ma la posta in gioco era alta e nessun pioniere degno di questo nome si scoraggia di fronte alle prime avversità. Così i nostri batterono la zona palmo a palmo, si persero tra le fronzute umidità del delta ma non mollarono, ben consci che “fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

No, non erano le zattere di Kit Carson alla ricerca delle sorgenti del Mississippi, erano le tue dita lanciate alla scoperta di quell’elisir di cui tanto avevo sentito parlare. Quella droga ambita, nota come “sballo da endorfine” o più propriamente orgasmo (parola difficile, che tendevo a confondere con un noiosissimo hobby giapponese, tutto fiori ed ochette di carta).

Non mi stancherò mai di ringraziare le tue dita per il loro zelo. Per avermi resa partecipe di ciò che, grazie alla più disinteressata abnegazione, riuscirono a scoprire: un nuovo continente fatto di uadi e dune irregolari, un mondo delicato e sensibile, caratterizzato da un clima caldo-umido, ma non afoso… accogliente, direi, molto ospitale, soprattutto da quando decisi di applicare una rigida ed inflessibile politica di disboscamento finalizzata ad ottimizzare gli interscambi culturali.

Ma questo avvenne qualche anno dopo, quando Cristoforo Colombo (che poi si chiamava Faud ed era cristiano-maronita) era già sbarcato sulle spiagge di San Salvador e come prima cosa aveva baciato il punto d’approdo, slappando salivoso di qua e di la, tra lo stupore allibito di mozzi e marinai che sbirciavano invidiosi dal vecchio poster della camera da letto.

Il fatto è che a te non bastava mai, non ti saziava bere le mie emozioni, suggerle dalle espressioni del viso. Tu volevi vedere dentro di me, eri curiosa di sapere com’ero fatta e me lo facesti capire con chiarezza, allargandoti le labbra con le dita, sfiorandoti piano quel bottoncino rosa scuro, brullo e liscio. Duro e umido. Grilletto, lo chiamano, per via della sua sensibilità esplosiva, ma dev’essere una denominazione recente, posteriore alla scoperta della polvere da sparo. Anche detonatore, spoletta o carica d’innesco sarebbero stati parimenti poetici ed indicati… dannato qualunquismo lessicale.

Nel frattempo mi circuivi: “Guarda come è facile” diceva il tuo sguardo “senti come è bello” mormorava il tuo viso.
E mugolavi. Lo facevi eccome: sarò cretina, ma non sono mica sorda!
Guardasti la porta che avevo di schiena, per accertarti che la mia sbadataggine non si fosse scordata di girare la chiave. Rassicurata, iniziasti ad ansimare piano piano, un po’ anche per il sollievo.
Si ansimavi, delle due ero io quella che stava zitta.

Da quel giorno io e te cessammo di essere amiche per diventare qualcosa di più: amanti. Tu eri perfetta: sapevi essere una donna ma eri anche un uomo, intuivi sempre ciò che volevo e non ti negavi mai, perché sei peggio di me. Sei una vera, sordida, maiala ninfomane, mentre io sono solo curiosa. Terribilmente curiosa.
Perciò ti ho usata: ho rifatto con te tutto ciò che provavo coi miei ragazzi, trattandoti con dolcezza o rudemente, a seconda del capriccio, fottendoti o facendomi fottere da te. E tu ci sei stata. Sempre. Zitta e disponibile, intraprendente o tentatrice.

A volte ti ho fatto un po’ male, ma non mi pento di nulla, sai?
Perché a guidarmi era l’interesse scientifico (non quello che pensi tu, zozza) e forse perché le tue smorfie avevano un che di eccitante.
Mi spiace solo di non esser riuscita a cogliere appieno le altre tue espressioni. Quelle che sono così difficili da studiare perché, proprio nel momento clou, la vista inspiegabilmente si appanna, il cuore galoppa veloce come uno spirito delle praterie e tutte le condizioni al contorno cospirano per distrarmi dall’osservazione rigorosa del fenomeno. Misteri della ricerca.

Come dici? Qual è stata la volta migliore? Mmmm, domanda difficilotta, eh.
Dunque, se proprio devo scegliere, quel giorno di primavera, quando avevo vent’anni. Quella sera in cui eravamo sole in casa, io non riuscivo a dormire perché pensavo a Motti e sotto le lenzuola mi toccavo.
Ma farlo da sole è così insipido… anche il cuscino alla lunga non da tutta ‘sta soddisfazione. Quando è ancora fresco fresco ha il suo perché, ma poi si scalda, si sporca ed è troppo arrendevole, mi sa addirittura da ambiguo. Perciò l’ho piantato li, sono venuta a disturbarti e ci siamo amate.
Ti ho toccato un seno, l’ho assaporato col palmo della mano e tu mi sei sprofondata dentro con due dita. Hai giocato, mi hai pizzicata, mi hai accarezzata così fantasticamente bene, così splendidamente, indescrivibilmente mmmmm che per la prima volta sono venuta come un uomo.
Fu un sortilegio inatteso ed intenso, che mi colse impreparata ed appiccicata a te. Stretta stretta al fresco vitreo, alieno e sensuale, della tua essenza. E ti ho bagnata di piacere.

Non potevo lasciarti così, per igiene e per decenza, per golosa curiosità.
Allora mi sono inginocchiata e ti ho leccata lieve, dal basso verso l’alto, raccogliendo con la punta della lingua quelle goccioline lattiginose che ti rigavano il volto come lacrime di gioia. E così facendo ho intrecciato la mia lingua con la tua, ho schiacciato le mie labbra calde e tumide contro le tue gelide e sottili. E in un alito appannato e opaco, confusa nell’aspetto e nei pensieri, ti ho baciata amandoti e maledicendo la tua prigione di cristallo.

Ho ricordato tutto questo per sottolineare quanto ti abbia voluto bene, specchio mio. Ti ho sempre considerata un’amica, una confidente, una gemella incestuosa e ho sempre riposto in te la massima fiducia, cieca ed integralista, come quella di un bombarolo kamikaze.
È per questo che stamane mi hai presa in contropiede: col tuo aiuto stavo aggiustando i capelli a mia sorella, lei era splendida, come sempre, ma nel tuo sguardo argentato era anche più bella di me e tu… tu le hai sorriso maliziosa.
Cioè, specchio, in un certo senso tu le hai fatto la corte!

Ok, ok, lo ammetto, son gelosa di te, e allora?
Mi sembra naturale, sei la mia unica amante donna, il mio partner più longevo ed anche uno dei più passionali. Pensa che con te non ho mai avuto nemmeno la più piccola inibizione. Stupefacente, no?
Sono calmissima, stai tranquilla.
No, non ti serbo rancore.
Ho piena padronanza di me, ti dico, e potrei risolvere un cubo di Rubik con i piedi.
Spiegami solo una cosa, con serenità e onestamente… perché mi hai tradita, lurida bastarda?

Mi hai snobbata, squadrandomi con un’espressione stanca e annoiata. Anche ora, guardati: cosa sono quelle rughette vicino agli occhi, quei capelli stopposi che sembrano un mazzolino di passamaneria penzolante sulle spalle? Perché la tua pelle non ha la fragranza di una ventenne?
Allora, bat zonah [figlia di troia], come me le spieghi ‘ste cose?
E non abbassare lo sguardo, non pensare di impietosirmi o di commuovermi: parla o com’evvero Iddio ti stronco!
Anzi, sai che faccio?
Ti ribalto sottosopra e ti metto in castigo contro il muro.
Ecco fatto, ed è inutile che ti lamenti, frigni e cigoli.
E sta ferma, con quelle inutili e ridicole zampe di leone: loro e gli intarsi sono rimasti quelli di una volta, ma tu, il tuo occhio e il tuo cuore, siete cambiati.
Prima mi adulavi ora mi sfotti, prima eri bella ora sei una strega!
Sei tu che hai usato me quando ero giovane e sprovveduta, al contrario di ciò che credevo.
At hakhì metumtemet [Sei un pezzo di merda], specchio.
Via, non ti voglio più vedere.
Mai più. Traditrice e ingrata.

Però, guardandoti così di spalle… lo sai che hai un po’ di muffa sul culo?
Fammi vedere più da vicino…
Eggià, è proprio muffa. Verdina. E hai anche delle macchioline qua e la, sembra psoriasi.
Dio mio, sei decrepita, specchio!
Ora prendo un po’ di cera per mobili e vedo di rimetterti in sesto… e va bene, ti giro e controllo che non ci siano problemi anche davanti. Tanto so come andrà a finire.
Che faremo la pace e stasera, quando arriverà lui, tu sarai li, col tuo occhio spalancato.
La mia compagna di merende.


Nadja Jacur

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