Approsimato per difetto di Gina Lagorio


La voce di un uomo, Renzo, racconta la propria esistenza, il suo rapporto con gli altri, la storia, i valori, la propria vita, e come quel rapporto venga alterato dalla malattia e dal lungo avvento della morte. Ma "Approssimato per difetto" è anche un romanzo d'amore: quello che lo lega a Valeria, e che obbliga entrambi a un profondo confronto con se stessi

Quello che segue è il primo capitolo.



"Cos'hai?"
"Non so, mal di testa."
Se ci penso, ora che ne ho tutto il tempo, in questo buio tranquillo, credo che sia cominciato così. "Cos'hai?" "Non so, mal di testa." Valeria ha occhi acuti per cogliere in viso il bene e il male, del fisico e dello spirito; certo si allarmò e mi lesse in viso la malattia quel mattino, prima dei medici.
Una storia come tante altre, la mia. Ma ora so che è la sola che conti.
Come quando andavo a teatro; vedevo, ascoltavo, mi lasciavo prendere dalle parole e dai gesti, ma sotto, restavo io, e se dentro mi portavo un grumo di dolore o mi scoppiettava la gioia, la mia storia restava intatta, oltre quella effimera che mi distraeva.
Ora, a teatro, in una poltrona sempre uguale, ci sto ventiquattro ore su ventiquattro; la mia storia non si sviluppa più, è ferma, cristallizzata; talvolta la colgo in brani di discorso, dagli altri, in parole che la traducono in immagini, un po' sbiadite, perché per loro è già passato, io non mordo più la carne viva del presente. Sono gli altri ora a portarsi a spasso la loro storia e io di qui posso seguirla, se ne ho voglia, con quanto mi resta di fantasia, con deduzioni e analogie; il fatto è che quasi mai ne ho voglia. Immaginare, entrare negli altri, patire con loro: ci vuole curiosità, interesse, e poiché non è la mia storia, ma la loro, non so che farmene.
Io mi ripeto la mia, giorno per giorno, e me la vengo rivelando: forse la capisco intera e la possiedo solo ora.
La mia storia, di quando ero vivo.
Tra poche ore lei verrà, viene sempre verso le sette, quando l'infermiera che le dà il cambio di notte se ne va, si china su di me, io vorrei aprire gli occhi ma sono stanco e lei si allontana in punta di piedi credendomi addormentato.
A volte potrei sollevare le palpebre, ma me ne astengo per permetterle di "incamminare" - è il termine che lei usa - il ménage quotidiano. La sento parlare con la donna, di cibo e di commissioni, prima di andare a svegliare i bambini, poi a passi rapidi si avvia verso la camera di Claudio e Leo e io non sento più nulla, perché ha organizzato la vita in casa in modo che io sono sempre avvolto dal silenzio.
Fino a qualche tempo fa accompagnava i bambini a scuola: ora non più; dopo mezz'ora la sento di nuovo arrivare di corsa, come temesse sempre qualcosa; e questa volta quando si china su di me, sono pronto, le mie energie si concentrano sulle palpebre, lentamente le sollevo, la vedo, è il suo primo sorriso del giorno.
"Non avere fretta, cara, riposati," le dico, ma non mi sente e se mi sentisse, le farei quasi paura, non è più abituata alla mia voce.
I suoi passi sono più leggeri del solito da qualche giorno, senza ticchettio: ha le scarpe basse; le devono essere gonfiate le caviglie come ad ogni primavera: ricorre alle scarpe col tacco basso solo quando ha le gambe indolenzite. La sera, gli anni della nostra vita in comune, quando si lamentava, le prendevo le caviglie tra le mani e gliele massaggiavo, e lei lasciava fare, a occhi chiusi, come un gatto accarezzato. Dio, come l'amavo! E com'ero impotente a dirglielo, con quei piedi tra le mani che non baciavo per pudore, e perché non mi sgranasse in faccia quei suoi occhi sereni, incredibili, e non mi chiedesse meravigliata: "Cosa fai? Sei matto?"
L'azzurro dei suoi occhi. Ce l'ho fitto in mente, quasi più di quello del cielo: forse perché nessun cielo con la sua indifferenza mi ha fatto soffrire tanto. Era sempre così sicura, così chiara: nelle nostre ore più tenere, quando ancora credevo di giungere fin nel profondo di lei, avrei voluto gridarle: "Chiudi gli occhi!" Quella chiarità, a me smarrito, era insopportabile. Ma forse non era così, forse mi sono tormentato inutilmente, a chiedermi ogni giorno e ogni ora, anche quando le sue azioni erano uan conferma puntuale della sua dedizione, se quello che io provavo per lei trovava un eco non dettata dalla sua onestà, dall'ossequio ai doveri accettati per convincimenti religiosi o scrupoli morali. Sapere se ero amato, se capiva che al di là del matrimonio, della famiglia, dei bambini, era lei che io volevo. E che il resto non importava senza di lei.
Non ho avuto il coraggio di parlare: mi guardava, esponeva le cose, sue, nostre, era gentile, sollecita a ogni cosa che mi facesse piacere, ma sempre qualcosa mi impediva di dirle quello che mi premeva, di dirle tutto.
Qualche volta, nei nostri brevi viaggi, le vacanze che ci prendevamo, osavo chiederle: "Mi vuoi bene?"
E sempre la risposta era la stessa, sorridente e persino un po' ironica: "Ma certo! Son cose da chiedersi dopo dieci anni di matrimonio?"
Dieci, undici, quindici: e invece son da chiedersi, e da dirsi: se qualcosa mi tormenta ora, è proprio questo: non aver saputo cosa sono stato per lei, e non averglielo detto, che per me era tutto. Oh so bene che cosa mi direbbero gli altri, mio fratello, gli amici: nessuno ha mai avuto per me più cure e attenzioni, e in quest'ultimo anno è stato quasi insopportabile il peso che si è addossata. Nelle ore più dolorose, in quelle più squallide, di giorno e di notte, l'ho avuta vicina: e i suoi occhi non erano più chiari, né sicuri: occhi di pena che sorridono non appena si accorge che la guardo e che mi hanno detto, prima dei medici e delle cure e persino di ogni avvertimento fisico, l'ineluttabilità del male.
Anche per questo mi sono attaccato a lei, più ferocemente: perdere la vita è ancora perdere lei; il resto, sì, ci sono cose belle e importanti, che è triste pensare di lasciare: i bambini, la musica, le cose del mondo che non rivedrò; ma tutto posso pensare, e piangerne, dentro di me, ma con una certa amara dolcezza: mi sono abituato fin da piccolo a rimanere staccato dalle cose e dalle persone, a non dipenderne fino in fondo; ma lasciare lei, non voglio.
Mi dà da mangiare, da due mesi ormai, imboccandomi, e io mangio tutto, perché mi stia vicina ancora un poco - so che poi è il suo turno di mandar giù un boccone - e quando è andata via e arrivano a me dal tinello le voci dei bambini che le fanno festa, e anche qualche risata, si rilassa, povera anima, non resisto: il pensiero che sono escluso dalla sua vita e che presto, sempre, sarà così, mi sopraffa e io suono il campanello.
Arriva di corsa - l'affanno deve essere diventato un suo modo di essere, e mi addolora esserne la causa - mi chiede ansiosa cosa voglio, ma già l'apprensione si spegne nei suoi occhi: io sono qui, calmo, come mi ha lasciato, e di solito non rispondo, mi costa tanta fatica parlare! Le sorrido con gli occhi, allungo una mano: allora lei viene accanto a me e mi rimprovera, con dolcezza e a volte, quando è irritata o più stanca, volgendo la cosa in scherzo: "Vuoi che muoia di fame? Lasciami mangiare dieci minuti in pace," e io mi vergogno, ma non appena è sparita, di nuova l'angoscia mi prende ed è rara la volta che non disturbi il suo pasto almeno tre volte.
Chissà perché oggi mi ricordo la tristezza di questi ultimi pranzi, di queste ultime colazioni: stamani gli uomini che lavorano nel cantiere qui accanto parlavano di cibi. Dalla finestra aperta mi arrivano le loro voci e mi fanno compagnia.
Uno, il più grosso, certamente, la sua voce è corpulenta e massiccia, ieri sera ha fatto una mangiata di stoccafisso.
Se ora potessi chiacchierare con lei e raccontarglielo, chissà come rideremmo! Perché piace a tutti e due, anzi piaceva, a lei non so più, ascoltare la gente, specie quando parla in dialetto e le parole sono tirate giù, senza metafore: a volte mi irritava sentirle ripetere espressioni del tutto inopportune per la gente a cui le rivolgeva o il luogo in cui venivano proferite, ma lei si ribellava: "Tu che dici di voler arrivare in fondo alle cose! Ma se ti preme tanto la forma! E poi se si scandalizzano, tanto meglio, a me non me ne importa niente del 'savoir faire' che loro hanno e io no: sono noiosi da morire; così, almeno, si svegliano."
Logica femminile, mi accusava per difendersi, e accusava gli altri: ed era inutile dirle che il voler arrivare in fondo non riguardava i rapporti di convenienza, le relazioni sociali; io restavo il conformista, con ipocrite pretese di sincerità e lei, sdegnosa, s'isolava in un silenzio imbronciato. Erano i momenti che mi facevano più paura. Allora desideravo esser diverso, anche fuori, saper portare camicie ruvide con la naturale eleganza con cui le indossano i pittori che talora frequentavamo, mi guardavo allo specchio, così tirato a lucido, non un capello fuori posto, il nodo alla cravatta perfetto, le mie grisaglie a un petto o i miei doppiopetto fumo di Londra inappuntabili e mi trovavo, guardandomi con gli occhi con cui pensavo dovesse vedermi lei in quel momento, noioso e detestabile, con la mia aria di uomo d'ordine.
Se aveva voglia di punzecchiarmi, al mattino quando mi baciava sfiorandomi appena, e spesso io le afferravo la vita che due maternità non hanno ridotto meno sottile, Valeria mi salutava così "Salve, Wall Street! E buoni affari!"
Ho sentito la sua voce: è al telefono… più niente, se l'è portato in studio, per non disturbarmi: quella voce era d'impazienza, fa sempre così quando qualcuno ritarda, un fornitore, come adesso, suppongo, o qualcosa non le riesce subito, infilare l'ago o accendere una sigaretta, e tra le sue esclamazioni, ce ne sono di troppo pittoresche per andar bene in società.
Risento il suo passo rapido e leggero avvicinarsi: si ferma sulla soglia, ritorna indietro: mi arriva la sua voce, un sussurro alla donna: "Riposa, ne approfitto per una scappata in banca: mi raccomando, si affacci ogni quarto d'ora." E' nel bagno, si starà truccando, il solito cigolio dell'armadio che si apre, che abito indosserà? Vorrei chiamarla, mi provo, la gola non obbedisce, Cristo Cristo, la tua passione non è niente in confronto alla mia, perché non capisce che la sto chiamando, questo silenzio è pieno delle mie grida, se solo le sue orecchie di persona sana fossero un po' meno normali, questo è lo scatto della porta di casa, non è venuta a salutarmi prima di uscire, chissà che liberazione per lei lasciare questi muri, ma no, torna indietro, si è pentita, la porta si richiude, non capisco…
"Non esco, non me la sento, in banca manderò mio cognato," è lei che parla alla donna.
Ora le sue gambe sono meno rapide nel corridoio, è di nuovo qui, sulla soglia, mi arriva il suo respiro un po' rauco. Non posso voltare la testa a guardarla, ma sento che piange, piano piano, come si è abituata a fare in quest'anno.
Non riesci ad allontanarti da me, allora è vero, mi ami! Glielo grido e pare avermi udito, perché muove un passo nella stanza, resta un attimo accanto a me. Poi le lacrime deve asciugargliele sul viso il vento di primavera, perché se n'è andata, sento che apre il balcone nella stanza vicina e mi pare di vederla: un respiro lungo, liberatore, un deciso raddrizzare le spalle; ancora nella casa risuonano i suoi passi rapidi e fermi.