ALESSANDRO BARICCO 
da "Castelli di Rabbia" 
 
 
 
 
Ives Klein, ANT 63, 1961 
 
 
Alessandro Baricco è nato a Torino nel 1958. Ha pubblicato romanzi di grande successo, tradotti in tutto il mondo (Castelli di Rabbia, Oceano Mare, Seta, City), il monologo Novecento (da cui Tornatore ha tratto il film "La leggenda del pianista sull'oceano"), saggi di critica musicale e due raccolte di articoli. Di recente, Baricco ha proposto dal vivo alcuni brani di City assieme al celebre duo francese di musica elettronica Air (Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel), da poco uscito anche su CD. Quello che qui proponiamo è un brano tratto da Castelli di Rabbia, la singolare storia della follia di Peckish, uno dei personaggi che popolano il libro. Abbiamo deciso di accostarlo a quadri di Ives Klein, trovando interessante l'affinità tra la passione per la monocromia del pittore Nizza con le particolari sinfonie composte dal personaggio creato dalla penna di Baricco.
 
 
Ives Klein, ANT 79 Hiroshima, 1961 
 
 
     Un uomo, come un pendolo, che corre instancabile avanti e indietro dalla casa alla strada. 
Sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito, corre avanti e indietro dalla casa alla strada. 
Nella notte, sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito, esce di corsa dalla sua casa, si ferma in mezzo alla strada, poi torna precipitosamente dentro casa, e di nuovo corre fuori, e di nuovo si scaracolla in casa, e sembra che non la smetterà mai. 
Nella notte, sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito e fradicio, esce di corsa dalla sua casa, si ferma in mezzo alla strada, insegue qualcosa nell'aria e nell'acqua tutt'intorno, poi torna precipitosamente dentro casa, e di nuovo corre fuori, e di nuovo si scaracolla in casa, e sembra che non la smetterà mai, come se fosse stregato dai rintocchi della campana che in quel momento violano il buio e si sciolgono nell'aria liquida dell'infinito acquazzone. 
 
Undici rintocchi. 
Uno sull'altro. 
Lo stesso suono, per undici volte. 
Ogni rintocco come se fosse l'unico. 
Undici onde di suono. 
E in mezzo un tempo innumerabile. 
Undici. 
Uno dopo l'altro. 
Sassi di bronzo nell'acqua della notte. 
Undici suoni impermeabili gettati nel marcio dellanotte. 
Erano undici rintocchi, schioccati nel diluvio dallacampana che vigilava la notte. 
Fu il primo - già il primo - a prendere a tradimento l'anima di Pekish, e a bruciarla. 
 
Pekisch stava lì a vedere il diluvio, di là dal vetro.Ma più propriamente lo ascoltava. Per lui, tutto quello era innanzitutto una sterminata sequenza di suoni. Come spesso gli succedeva quando il mondo si esibiva in sinfonie particolarmente complesse, assisteva con ipnotica attenzione, l'anima divorata da un sottile, febbricitante nervosismo. Suonava alla grande, il diluvio, e lui ascoltava. Nella sua stanza, in fondo al corridoio della casa della vedova Abegg, a piedi nudi, camiciona da notte di lana grezza, il volto a un palmo dal vetro, immobile. Il sonno si era allontanato da lui. Erano soli, meravigliosamente soli, lui e il diluvio. Ma, nella notte, la campana di Quinnipak spiccò il suo primo rintocco. 
Pekisch lo sentì partire, dribblare i mille suoni che colavano dal cielo, perforare la notte, lambirgli la mente e sparire lontano. Sentì come se qualcosa l'avesse colpito di striscio. Una ferita. Cessò di respirare e istintivamente si mise in attesa del secondo rintocco. Lo sentì partire,dribblare i mille suoni che colavano dal cielo, perforare la notte, bucargli la mente, e sparire lontano. Nel preciso istante in cui tornò il silenzio capì di averne la certezza più assoluta: quella nota non esisteva. Spalancò la porta della stanza, fece di corsa il corridoio e a piedi nudi sbucò per strada. Lo sentì, mentre correva, il terzo rintocco, e poi improvvisa la muraglia d'acqua che lo affogava dal cielo, ma non smise di correre fino a che non fu in mezzo alla strada. Allora si fermò, i piedi nel fango,alzò lo sguardo verso il campanile di Quinnipak, chiuse gli occhi, affogati in un pianto che non era il loro, e aspettò che arrivasse.
 
Ives Klein, RE 20 Requiem, 1960 
 
 
Il quarto rintocco. 
Ci mise un paio di secondi a sentirlo tutto, dal primo spillo di suono all'ultimo refolo: poi scattò precipitosamente verso casa. Correva gridando una nota sotto il putiferio dell'acquazzone, contro il frastuono di quel putiferio. Non mollò la nota aprendo la porta di casa, e neppure correndo per il corridoio, sbiascicando fango dappertutto e acqua giù dai vestiti, e dai capelli e dall'anima,non la mollò fino a che non arrivò nella sua stanza davanti al suo fortepiano, Pleyel 1808, legno chiaro venato da curve come nuvole, si sedette e incominciò a cercare tra i tasti. Cercava la nota, ovviamente. Si bemolle e poi la e poi si bemolle e poi do e poi do e poi si bemolle.Cercava la nota, nascosta tra tasti bianchi e neri. Dalla mano colava l'acqua del grande acquazzone, partita dall'ultimo dei cieli per lacrimare infine su un tasto d'avorio e scendere a scomparire nella fessura tra un do e un re - meraviglioso destino. Non la trovò. Smise di gridarla. Smise di toccare i tasti. Sentì un rintocco arrivargli, chissà quale. Si alzò di scatto, ripartì di corsa per il corridoio, saltò in strada, nemmeno si fermò questa volta, correva addosso all'acqua e incontro a quel suono che la campana regolarmente gli sparò attraverso un muro d'acqua - l'imperturbabilità senza scampo di una campana - e lui ricominciò a gridare quella nota che non esisteva e virando la sua corsa dentro il fiume in piena dell'acquazzone tornò difilato dentro casa, scivolò nel fango del corridoio fino al Pleyel del 1808, legno chiaro venato da curve come nuvole, e ritmicamente urlando quella nota che non esisteva ritmicamente si mise a percuotere i tasti uno dopo l'altro, per estorcergli quello che proprio non avevano e cioè la nota che non esisteva.
 
Ives Klein, Trappola blu per linee, 1957 
 
 
 
Gridava e martellava, si bemolle e poi do e poi si bemolle e poi si bemolle e poi si bemolle, e gridava martellando i tasti con incredulo furore, o chissà magari era meravigliato entusiasmo -d'altronde erano lacrime o gocce di pioggia quelle che gli si squagliavano sul volto? Quando ripartì di corsa lungo il corridoio c'erano ormai sul pavimento abbastanza acqua e fango per farlo arrivare scivolando alla porta,e oltre a quella, scivolando, nella strada, dove di nuovo,ma con il respiro che gli ritmava un tempo tutto particolare, come un orologio impazzito chiuso nella cassa di quella pendola immane che era Quinnipak e il suo campanile, di nuovo alzò lo sguardo nel nulla della notte perché si impigliasse in lui più possibile di quella bolla di suono che regolarmente gli arrivò, giù dal campanile, attraverso i mille specchi dell'acquazzone fino alle orecchie, così che lui la prese, e come uno che portasse un sorso di acqua nel cavo della mano, riscappò verso casa,a dissetare chissà chi, a dissetare se stesso, e questo avrebbe fatto, ma arrivato a metà del corridoio si scoprì la mano svuotata, e cioè la mente vuota e silenziosa - fu un momento - fu forse anche l'intuizione di ciò che stava per succedere - fatto sta che si fermò, nel bei mezzo del corridoio, inchiodò la sua corsa artigliandosi ai murie ai mobili, per poi voltarsi, come richiamato da unapaura improvvisa, e risputarsi fuori dalla casa, oltre la porta fino in mezzo alla strada dove con i piedi persi in una pozza enorme di acqua torbida, si lasciò cadere in ginocchio e stringendosi la testa tra le mani chiuse gli occhi e pensò "adesso, proprio adesso" e mormorò "oppure mai più". 
Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia. 
Sepolto da un mare di suoni liquidi e notturni aspettava una rotonda nota di bronzo. 
Un piccolo meccanismo scattò nel cuore dell'orologio del campanile di Quinnipak. 
La lancetta più lunga si spostò avanti di un minuto. 
In mezzo a un mare di suoni liquidi e notturni scivolò fino a Pekisch una rotonda bolla di silenzio. Sfiorandolo si     ruppe, macchiando di silenzio il gran frastuono dell'infinito temporale. 
 
 
Alessandro Baricco, "Castelli di rabbia", (C) 1991 Rizzoli Ed.
 
 
Je l'entend partir. 
Perforer la nuit. 
Dribbler les milliers de sons 
Qui dégrignolent du ciel. 
Viennent me lécher la 
cervelle 
Et disparaitre loin... 
Blessure. 
 
(Ulan Bator, "Pekish Organ", dall'album "Végétale")