EMIDIO CLEMENTI 
Da "Il tempo di prima" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Emidio Clementi è nato nel 1967 e vive a Bologna. Ha pubblicato alcune raccolte di racconti e romanzi (Gara di resistenza per Gamberetti nel 1997, Il tempo di prima - da cui sono tratte queste pagine - per DeriveApprodi nel 2000, e Le notti del Pratello per Fazi Editore nel 2001); è stato cantante e chitarrista del gruppo Massimo Volume, con il quale ha pubblicato quattro dischi: Stanze, Lungo i Bordi, Da Qui e Club Privè.
 
 
Senza parlare ci spogliammo e ci infilammo sotto le lenzuola. Edoardo si voltò dall'altro lato e spense la luce dall'interruttore sopra al letto. La penombra nascose pietosamente lo squallore della mobilia ma lasciò intatto l'odore di pulito che proveniva dalle lenzuola. Dalla finestra giungeva il rumore lontano della strada. Restai per un po' ad ascoltarlo e lentamente mi lasciai avvolgere da un dolce torpore. Poi sentii Edoardo rigirarsi. Trattenne il fiato per qualche secondo. La sua voce giunse inaspettata. 
– Quando sono nato mio padre era nell'esercito. Non credo di avertene mai parlato. Ha continuato a lavorarci fino a quando avevo dieci anni. Non ho mai capito perché ha lasciato quel posto. 
Aspettai che continuasse. 
– Non hai mai provalo a chiederlo a tua madre? - gli chiesi alla fine, spazientito dal suo silenzio. 
– No, può sembrarti strano – riprese lui – ma provo ancora oggi imbarazzo a farle domande che riguardano quel periodo terribile della nostra vita familiare. Durante tutti questi anni, tra me e me, ho fatto mille supposizioni su cosa potesse essere successo. Ma non sono mai arrivato a capo di niente.Sai, a mio padre piacevano le donne. Forse s'è scopato quella sbagliata, la moglie di un superiore.Vallo a sapere... Ma non è di questo che volevo parlarti. Mi ascolti o stai già dormendo?  Quello che voglio raccontarti è successo quando ancora avevo sette, otto anni e ogni tanto insieme a tutta una banda di ragazzini con cui giocavo nel quartiere andavamo a cogliere le radici di liquirizia in una zona fuori Buenos Aires, un posto che era stato bonificato nei primi anni '50 e poi lasciato lì, mezzo abbandonato. Finito di mangiare, dopo la scuola, partivamo in bicicletta cantando in coro le canzoni che la domenica sentivamo allo stadio. Mi ricordo mia madre che come sentiva quelle urla usciva fuori dalla finestra e cominciava a gridarmi di tornare indietro. Lo ricordo come se fosse adesso. Io abbandonavo il manubrio della bicicletta e per non sentirla mi tappavo le orecchie con le mani.  
Lo vidi nella penombra che si tirava su. 
- Un pomeriggio di quelli, mentre con le mani sporche di terra scavavamo intorno alle piantine di liquirizia, credo che fossero i primi di gennaio, faceva caldo, sai da noi le stagioni sono tutte rovesciate rispetto a qui. Be', ti stavo dicendo, mentre scavavamo alla ricerca di queste radici, sentiamo dei guaiti arrivare da un capanno per gli attrezzi lì vicino. C'era una casa di campagna poco distante da dove eravamo. Alziamo la testa, ci guardiamo tra di noi e poi in tre o quattro decidiamo di andare in perlustrazione e ci dirigiamo verso il capanno. Probabilmente ci venne in mente di essere in una missione di guerra, il posto si prestava a quel tipo di gioco. Comunque senza farci vedere dai proprietari entriamo dentro. Pensavamo che fosse abbandonato: era pieno di ragnatele, cagate di topo, roba arrugginita. Cominciamo a frugare dappertutto: spostiamo attrezzi da lavoro, taniche, assi di legno. Niente. Non riuscivamo a capire da dove arrivassero quei lamenti. Alla fine Felipe, uno di noi, si arrampica sopra un tino lasciato lì a marcire e sul fondo scopre una cucciolata di cani. Potevano avere qualche settimana. Non lo so, non saprei dirtelo. Erano tutti neri, grandi come delle palle da tennis. Li tiriamo fuori uno a uno. Erano sette in tutto. lo recupero da terra un grosso coperchio di latta e ce li sistemo sopra. Siamo usciti fuori senza farci vedere e invece di rivelare la nostra scoperta agli altri ci siamo divisi i cani tra di noi. Quel giorno lasciammo perdere le radici di liquirizia e ci precipitammo a casa. 
 
Edoardo si passò una mano tra i capelli e sospirò. 
- A casa non dissi niente. Conoscevo mio padre. All'epoca non era ancora caduto in disgrazia e in famiglia era lui che dettava legge. Di mia madre non mi fidavo. Sapevo che prima o poi avrebbe potuto spifferare tutto. Di nascosto, misi i due cuccioli nell'armadio di camera mia sopra un cuscino e chiusi le ante a chiave. Ma la sera, quando già ero a letto mio padre entrò in camera. Non mi ricordo cosa volesse. Ero cosi terrorizzato all'idea che potesse scoprire i cani che non lo ascoltai nemmeno. E successe proprio quello che temevo. Le nostre voci svegliarono i cuccioli. Cominciarono a piangere. Lui non mi chiese niente. Andò diretto verso l'armadio, lo aprì, vide cosa c'era dentro e mi disse di restare fermo lì, di aspettarlo. Tornò dopo qualche minuto con gli stivali della divisa. Non riuscii a fermarlo. Prese uno per volta i due cagnolini e gli fracassò la testa con il tacco. Poi mi mandò a prendere una busta di plastica e mi ordinò di ficcarceli dentro e di pulire il pavimento dal sangue. Merda, Enrico: avrei dovuto ucciderlo. Ho pensato spesso a questo, quando sono cresciuto. Ma non ero ancora abbastanza grande e forte per farlo. 
Si girò su un fianco. Il bianco dei suoi occhi era tutto quello che riuscivo a scorgere di lui. 
– Ma non è neanche vero questo. Ti giuro, Enrico, in realtà non sono nemmeno sicuro di averlo odiato quella sera. E' questo che mi spaventa di più. Ma dopo quell'episodio ho preso a odiare i cani,questa e stata la mia condanna. E' qualcosa più forte di me e me la porto dietro da quella sera. 
– Mi sembra che non avevi una grossa scelta. 
– Anch'io a volte la penso così. Ma forse è solo un modo per farmene una ragione. E' come se il mio odio nei suoi confronti avesse avuto bisogno di un terreno in cui crescere e lui non mi avesse mai lasciato questo spazio. Non avrei saputo come ferirlo. O forse avevo solo paura di farlo. 
 
Per un po' nessuno dei due disse più niente. Poi Edoardo riprese a parlare. 
– Era un modo per chiederti scusa per quello che è successo oggi pomeriggio allo stabilimento – disse. 
– Non pensarci – feci. 
– Erano carine le ragazze, mi piacevano e credo che ci trovassero divertenti o almeno buffi... Il juke-box, la storia del busto al museo di Salonicco. Credi che ci sarebbero state? Comunque se c'è qualcosa di cui mi pento è stato di non aver massacrato quei bastardi seduti al tavolo dietro al nostro. Bisognava fargli sputare i denti a quei cani rognosi, altro che... 
– Se ti ho allontanalo è perché avevo valutalo la situazione. Non so come ci avrebbero conciato. Erano in quattro. 
– Che cazzo dici? So come si mena in inferiorità numerica. 
– Non avevo dubbi... 
– Non ci credi? Basta puntare il più incazzato e stenderlo un attimo prima che lui colpisca te, un centesimo di secondo prima. Bisogna stare attenti ai tempi, è fondamentale. Non affrettarsi. Aspettarlo. Lo colpisci qui, appena sotto il mento. Lui e già partito con questo pugno goffo, portato male, senza slancio e tu gli molli il tuo cartone secco, preciso, terapeutico. 
 
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