L'analisi storica: giudicare o comprendere?

di Marc Bloch

(da Marc Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1969, pp. 123-127)

 

 

È famosa la formula del vecchio Ranke: lo storico non si propone null'altro che di descrivere le cose «come sono avvenute» (wie es eigentlich gewesen). L'aveva detto ancor prima Erodoto: «raccontare ciò che fu» (ton eonta). In altre parole, il dotto, lo storico, è invitato a eclissarsi di fronte ai fatti. Come molte massime, anche questa dové forse la sua fortuna alla sua ambiguità. Vi si può leggere, modestamente, un consiglio di probità: tale ne era, senza dubbio, il senso per Ranke. Ma anche un consiglio di passività. Di modo che, ecco, ad un tempo, sollevati due problemi: quello dell'imparzialità storica, e quello della storia come tentativo di riproduzione o come tentativo di analisi.

Ma esiste davvero un problema dell'imparzialità? Esso si presenta solo perché la parola è, a sua volta, equivoca.

Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Essi hanno una radice comune: l'onesta sottomissione alla verità. Lo studioso registra, anzi, meglio, provoca l'esperienza che forse capovolgerà le sue più care teorie. Il giudice, qualunque sia il voto segreto del suo cuore, interroga i testimoni senz'altra preoccupazione all'infuori di quella di conoscere i fatti, quali essi avvennero. È, in entrambi i casi, un obbligo di coscienza che non si discute.

Eppure, a un certo punto, le loro strade divergono. Quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha concluso il suo compito. Al giudice tocca ancora di dare la sua sentenza. Facendo tacere ogni simpatia personale, egli la pronuncia secondo la legge? Allora si reputerà imparziale. E, in effetti, lo sarà, almeno secondo la misura dei giudici. Ma non secondo quella dei dotti. Infatti non si può condannare o assolvere senza prendere partito per una tavola di valori che non deriva da nessuna scienza positiva. Che un uomo ne abbia ucciso un altro, è un fatto in sommo grado suscettibile di prova. Ma punire l'omicida presuppone che si consideri colpevole l'omicidio: il che, tutto considerato, non è che un'opinione sulla quale non tutte le civiltà si sono trovate d'accordo.

Per lungo tempo, si vide nello storico, una specie di giudice degli Inferi, incaricato di distribuire elogi o condanne agli eroi morti. Bisogna credere che quest'opinione risponda a un istinto fortemente radicato, perché tutti i professori che si son trovati a correggere lavori di studenti sanno quanto difficilmente i giovani si lascino dissuadere dal rappresentare, dall'alto dei loro scranni, la parte di Minosse o di Osiride. Vale più che mai la frase di Pascal: «Ciascuno crede di essere Dio, giudicando: "questo è buono o cattivo "». Si dimentica che un giudizio di valore non ha ragione di essere se non come preparazione di un'azione e ha senso soltanto in rapporto a un sistema volontariamente accettato, di punti di riferimento morali. Nella vita quotidiana, le esigenze del comportamento ci impongono questa etichettatura, di solito molto sommaria. Là dove non possiamo più nulla, dove gli ideali comunemente accettati differiscono profondamente dai nostri, essa non è che un impaccio. Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo, per separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai reprobi? Assolutizzando i criteri, puramente relativi, di un individuo, di un partito, di una generazione, che stupidaggine applicarne i dettami al modo con cui Silla governò Roma o Richelieu gli stati del re cristianissimo! Siccome poi niente è per sua natura più variabile di siffatte sentenze, soggette a tutti gli ondeggiamenti della coscienza collettiva o del capriccio personale, la storia, permettendo troppo spesso che «l'albo d'oro» avesse la meglio sul «registro d'esperimenti» si è guadagnata gratuitamente la fama di essere la più incerta delle discipline; alle vuote requisitorie succedono infatti altrettanto vane riabilitazioni. Robespierristi, antirobespierristi, noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci semplicemente, chi fu Robespierre.

Inoltre, se il giudizio non facesse che seguire la spiegazione, il lettore sarebbe libero di saltare la pagina. Malauguratamente, a forza di giudicare, si finisce, quasi fatalmente, per perdere persino il gusto di spiegare. Siccome le passioni del passato mescolano i loro riflessi ai preconcetti del presente, la realtà umana non è p che un quadro in bianco e nero. Montaigne ci aveva già ammoniti: «Dal momento che il giudizio pende da un lato, non ci si p trattenere dal delineare e storcere la narrazione in quel verso». Dopotutto, per intendere una coscienza estranea, separata da noi dall'intervallo delle generazioni, occorre quasi spogliarsi del nostro Io. Per dirle il fatto suo, basta restare se stessi. Lo sforzo è certamente meno gravoso. Quanto più facile scrivere a favore o contro Lutero che scrutarne l'anima; credere a papa Gregorio VII piuttosto che all'imperatore Enrico IV, o ad Enrico IV piuttosto che a Gregorio VII, invece di tentare di dipanare le ragioni profonde d'uno dei maggiori drammi della civiltà occidentale! E prendiamo, fuori del piano individuale, la questione dei beni nazionali. Il governo rivoluzionario, rompendo con la legislazione anteriore, decise di venderli a lotti anzic metterli all'incanto. Indubbiamente, ciò significava compromettere gravemente gli interessi del Tesoro. Alcuni eruditi dei giorni nostri hanno protestato con veemenza contro quelli politica. Che uomini di coraggio se, alla Convenzione, avessero osato parlare con quel tono! Lontano dalla ghigliottina, questa violenza senza rischi diverte. Molto meglio cercare ciò che realmente volevano gli uomini del Novantatre. Anzitutto, desideravano favorire l'acquisto della terra da parte del popolo minuto delle campagne; all'equilibrio del bilancio, essi preferivano il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini poveri, garanzia della loro fedeltà al nuovo regime. Avevano torto o ragione? Che m'importa la tardiva decisione di uno storico a tale riguardo? Noi gli chiediamo soltanto di non lasciarsi ipnotizzare sulla propria scelta al punto di non riuscire più ad ammettere che un'altra sia stata un tempo possibile. La lezione dello sviluppo intellettuale dell'umanita è, nondimeno, chiarissima: le scienze si sono sempre mostrate tanto più feconde e, di conseguenza, tanto più utili alla stessa pratica, quanto più deliberatamente abbandonavano il vecchio antropocentrismo del bene e del male. Oggi si riderebbe di un chimico che mettesse da un lato i gas cattivi, come il cloro, e dall'altro i buoni, come l'ossigeno. Ma, se la chimica ai suoi primordi, avesse adottato questa classificazione, avrebbe rischiato fortemente di impantanarsi a tutto scapito della conoscenza dei corpi.

Badiamo però di non forzare troppo l'analogia. La nomenclatura di una scienza degli uomini avrà sempre i suoi aspetti peculiari. Quella delle scienze del mondo fisico esclude il finalismo. I termini «successo», o «insuccesso», «inaccortezza», o «abilità», potrebbero soltanto fungere, nel caso migliore, da metafore, sempre gravide di equivoci pericolosi. Al contrario, essi appartengono al vocabolario normale della storiografia, giacc la storia ha da fare con esseri capaci, per natura, di fini coscientemente perseguiti.

Si può ammettere che un capitano che dia battaglia, si sforzi di solito di vincerla. Se la perde a forze approssimativamente eguali, sarà perfettamente legittimo dire che ha manovrato male. Questo accidente gli era abituale? Non si uscirà dal più scrupoloso giudizio di fatto osservando che, senza dubbio, non era un buon stratega. Si consideri inoltre una misura di carattere monetario il cui scopo era, supponiamo, di favorire i debitori a spese dei creditori. Qualificarla come ottima o come deplorevole equivarrebbe al prendere posizione a favore di uno dei due gruppi, ci a dire, trasportare arbitrariamente, nel passato, un concetto affatto soggettivo del pubblico bene. Ma immaginiamo che, per caso, l'operazione destinata ad alleggerire l'onere dei debiti abbia portato in pratica ‑ è già accaduto ‑ ad un risultato opposto. «È falita», diciamo, senza che con ciò si faccia altro che constatare onestamente una realtà. L'atto mancato è uno degli elementi essenziali dell'evoluzione umana, nonc di ogni psicologia.

Non basta. Il nostro generale ha per caso volontariamente guidato i suoi uomini alla sconfitta? Non si esiterà ad affermare che ha tradito: perc cosi, di solito, viene definito alla buona un tale comportamento. La storia sarebbe di una delicatezza alquanto pedantesca se respingesse l'aiuto del semplice e diritto lessico dell'uomo comune. Resterà poi da vedere ciò che la morale comune del tempo o del gruppo pensava di un simile atto. Il tradimento può essere, a suo modo, una forma di conformismo: basti pensare ai «condottieri» della vecchia Italia. Una parola domina e illumina i nostri studi: «comprendere». Non diciamo che il buon storico, è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia. Persino nell'azione, noi giudichiamo troppo. È così comodo gridare: «Alla forca!» Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi ‑ straniero, avversario politico - passa, quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po' p di intelligenza delle anime; a maggior ragione per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire di questo difetto. È una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno.