GLOBALIZZAZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE

APPUNTI DELLE LEZIONI TENUTE AGLI STUDENTI DELLE CLASSI TERZE DEL
LICEO SCIENTIFICO STATALE
LOUIS PASTEUR
NELL’AMBITO DELLA
XII SETTIMANA SCIENTIFICA E CULTURALE PATROCINATA DAL MUSIS
(anno scolastico 2001-2002)

AUTORE

DOTT.SSA PAOLA CAPOZZI

(testi delle lezioni)


*Globalizzazione
*Breve cronologia
*Il WTO
*Il Millenium Round ed il Movimento di Seattle
*Il M.A.I.
*Regole di mercato e salute: il caso della "carne agli ormoni"
*Il mondialismo
*Approfondimento: la questione dei farmaci
*Sviluppo sostenibile e crescita della popolazione mondiale: Il caso iraniano della politica di pianificazione familiare
*Natura sotto assedio: i problemi della biodoversità
*L'estinzione dei primati
*Il mercato del legno
*Gestire le ricchezze naturali
*Il minestrone biologico
*Invasioni imprevedibili
*Microbi da oltre confine
*A proposito di biopirateria
*Effetto serra e Protocollo di Kyoto
*Bibliografia
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LA GLOBALIZZAZIONE

Per cominciare un discorso sulla globalizzazione e sullo sviluppo sostenibile è necessario, prima di tutto, capire cosa si intende per "globalizzazione" e per "sviluppo sostenibile".
Succede spesso che le parole nascano prima delle definizioni, direttamente dall’esigenza di descrivere fenomeni dei quali siamo, nello stesso tempo, attori e testimoni più o meno consapevoli. Quindi, più che guardare ad una definizione di "globalizzazione", converrebbe far riferimento ai grandi cambiamenti, politici, sociali ed economici che hanno influenzato profondamente la realtà attuale e la storia del dopoguerra soffermandoci, in particolare, sugli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni. D’altra parte non può essere questa la sede di un tale approfondimento. Mi limiterò, pertanto, ad una serie di considerazioni generali (quindi, necessariamente riduttive), considerazioni che dovrebbero trovare una sponda nel programma di storia moderna e contemporanea del quinto anno ma che spesso, purtroppo, non arrivano nemmeno ad essere sfiorate.

In primo luogo è essenziale sottolineare che, fino ad oggi, il processo di globalizzazione si è concretizzato principalmente nell’ambito dell’economia; la globalizzazione economica ha l’obiettivo prioritario di promuovere la libera circolazione di merci e di denaro ma non implica necessariamente una globalizzazione politica.

Il processo di "globalizzazione" è in realtà molto conflittuale. Lo stesso termine può assumere significati diversi: globalizzazione ad indicare lo sviluppo delle grandi corporation e del loro operare senza confini, al di là di qualsiasi sovranità nazionale; globalizzazione ad indicare un processo di integrazione sociale e culturale, sostenuto dalle comunicazioni di massa e da internet; globalizzazione ad indicare una crescente permeabilità dei confini nazionali all’inquinamento, alle epidemie, agli spostamenti di popolazione, etc.

Lo stesso termine "globalizzazione" è fonte potenziale di malintesa valutazione di un fenomeno che si colloca, storicamente e spazialmente, nel mondo ricco ed industrializzato per poi coinvolgere anche, attraverso le sue oligarchie sovranazionali, i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo.

Per comprendere la globalizzazione dobbiamo prima di tutto "pensare globalmente". E’ necessario, cioè, uscire da un’ottica "occidentocentrica" e assumere il mondo, il "globo", come uno spazio naturale ed umano profondamente diversificato e poliedrico del quale la nostra società occupa una nicchia che ha pari dignità di tutte le altre.

La novità della globalizzazione non è solamente nell’estensione di un unico sistema economico all’intero globo (mondializzazione del mercato); la globalizzazione è anche una rivoluzione nell’ambito della produzione di beni che tende a delocarizzare geograficamente le sue singole fasi e a prediligere le aree che offrono le migliori condizioni ai fini della riduzione dei costi; in un’ottica, quindi, di ottimizzazione e massimizzazione del profitto.

Breve cronologia

Volendo tracciare una sintetica retrospettiva storica del fenomeno della globalizzazione, dobbiamo tornare almeno al 1971, anno in cui il Presidente americano Richard Nixon individua nella liberalizzazione dei movimenti di capitale il fattore decisivo per l’accelerazione del processo di globalizzazione economica.
Il 1971 segna anche la fine del così detto "sistema di Bretton Woods", nato nel luglio del 1944 per iniziativa di USA e Gran Bretagna e finalizzato alla costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Dagli incontri di Bretton Wood nacquero sia la Banca Mondiale (BM) che il Fondo Monetario Internazionale (FMI), istituzioni sovranazionali create per garantire, rispettivamente, la stabilità dei tassi di cambio tra le diverse valute e per sostenere la ricostruzione post-bellica e lo sviluppo dei paesi più arretrati.
La nascita della BM e del FMI rappresenta un punto di svolta, perché segna l’inizio del processo che tenderà a trasferire la sovranità, in termini di politica economica e monetaria, dalle singole nazioni ad istituzioni sovranazionali di fatto egemonizzate dagli USA e dalle altre nazioni industrializzate.

Nel corso degli incontri di Bretton Wood, USA, Gran Bretagna ed altri 44 paesi ratificarono anche il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade); questo accordo aveva il fine di favorire una riduzione progressiva delle esistenti tariffe doganali e di rendere equivalente il trattamento di tutti i paesi aderenti all’accordo. Ma, nel 1971, le istituzioni nate a Bretton Wood iniziano a trasformarsi in strumenti che, con sempre maggiore evidenza, hanno lo scopo di proteggere gli investimenti dei paesi occidentali nelle altre parti del mondo e, in seguito, gli interessi degli "investitori globali".

Nel gennaio del 1995, dopo otto anni di trattative portate avanti nel contesto del Uruguay Round e del Gatt, nasce l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC), cioè il WTO (World Trade Organization), cui aderiscono attualmente 135 paesi che, complessivamente, rappresentano più dell’85% del commercio globale.
L’OMC si concretizza come la più vasta e potente organizzazione internazionale con lo scopo di accelerare il processo di globalizzazione commerciale; secondo la definizione di M. Deaglio (1997), l’OMC in sostanza rappresenta "il primo vero elemento dell’economia globale di mercato".

Il WTO

Con la nascita del WTO la struttura del Gatt si trasforma radicalmente, a sancire il passaggio da una gestione bilaterale delle controversie sul commercio mondiale ad una gestione multilaterale garantita da una sede permanente di gestione dei conflitti e dotata di mezzi per giudicare ed intervenire sulle controversie tra singoli stati. Infatti, mentre il Gatt si configurava come un contratto tra Paesi che, tuttavia, mantenevano il diritto di veto o la possibilità di sottrarsi alle norme dell’accordo, il WTO è una vera e propria personalità legale: come nei casi dell’ONU o della Banca Mondiale, le regole del WTO hanno carattere assolutamente vincolante per i paesi aderenti all’accordo; il WTO è un organismo internazionale permanente, guidato da un Segretario e fornito di proprie Commissioni per la risoluzione delle vertenze tra Stati membri, i così detti Panels.
Ogni Commissione è costituita da esperti commerciali e le Commissioni si riuniscono per esaminare le imputazioni di violazione, da parte di uno Stato membro, delle norme sottoscritte con l’accordo. Le riunioni delle commissioni sono segrete e, pertanto, non è permesso né alla società civile, né ai suoi rappresentanti di parteciparvi in alcun modo. Se le commissioni decidono che le leggi promulgate da uno Stato aderente violano le norme dell’accordo, il WTO può intervenire direttamente sulle leggi in questione richiedendone l’abrogazione a fronte dell’applicazione automatica di sanzioni commerciali ed economiche qualora lo Stato in questione risultasse inadempiente.

Il possesso di questi strumenti legislativi dà al WTO, in particolare alle sue Commissioni commerciali, un potere esecutivo che si esercita sui singoli governi in termini fortemente autoritari. Uno degli impatti più dirompenti della creazione del Wto è quello sui rapporti tra imprese e stati e, in senso più generale, tra economia e politica: la regolamentazione sovranazionale di interi pacchetti di materie - come nei casi delle questioni relative agli investimenti d’impresa diretti all’estero (Trims) o di tutto ciò che regolamenta il rapporto tra proprietà intellettuale, brevetti e commercio (Trips) - ed il loro inserimento sotto la voce &"barriere non commerciali", impedisce di fatto ai singoli stati di esercitare una serie di prerogative sovrane e di diritti delle comunità: tali prerogative includono la possibilità di influire sulle modalità di intervento delle imprese multinazionali nei singoli territori nazionali, sullo sfruttamento di particolari risorse, sulle priorità da dare allo sviluppo produttivo di un paese, sulla libertà di usare le proprie risorse genetiche naturali trasformate e brevettate dalle multinazionali.

Il WTO stabilisce i tetti per gli standard ambientali, alimentari e di sicurezza al punto che quelli in vigore nei vari Paesi, qualora risultino più restrittivi degli standard fissati dall’Organizzazione, possono essere soggetti al giudizio delle Commissioni; mentre non è possibile che accada il contrario.

A fronte di un tale quadro, tra l’altro necessariamente parziale, si può senz’altro affermare che il trattato istitutivo del WTO ha dato "forma ad un governo dell’economia globale dominato dai giganti dell’imprenditoria, senza fornire una parallela normativa giuridica democratica che ne permetta il controllo" da parte della società civile attraverso le proprie istituzioni rappresentative.

L’affermarsi della globalizzazione economica ostacola anche i lenti processi in atto di globalizzazione politica, in particolare nell’ambito della faticosa ricerca di un equilibrio tra un Nord del mondo sempre più ricco e sviluppato e un Sud sempre più povero ed arretrato.
La fine di tali processi è sancita all’inizio degli anni ottanta, dalla cancellazione del tavolo di confronto in sede Onu-Unctad con i paesi del Gruppo dei 77 sui temi del "nuovo ordine economico internazionale".

Il Millenium Round ed il Movimento di Seattle

Il 30 novembre, a Seattle (USA), i ministri del commercio dei 135 paesi aderenti si erano dati appuntamento per la Terza Conferenza Ministeriale del WTO che doveva avere quale obiettivo il lancio di un nuovo Round negoziale, il così detto Millenium Round, finalizzato alla costruzione di un mercato globale basato sul primato della libertà di commercio: ovvero all’adozione di una serie di norme che, di fatto, avrebbero ulteriormente limitato la sovranità nazionale degli Stati membri nell’ottica di "promuovere" le regole del liberismo commerciale.

Tra gli accordi più discutibili che il Millenium Round aveva nella sua agenda c’erano quello sull’Agricoltura, sulla Spesa Pubblica e sulla Salute; quest’ultimo avrebbe di fatto obbligato i paesi membri a non proibire, per esempio, l’importazione di carne ormonata e di alimenti geneticamente modificati. In forte contrapposizione con accordi che li avrebbero ulteriormente penalizzati, anche aiutati dalle contemporanee manifestazioni del popolo di Seattle, i delegati dei Paesi in Via di Sviluppo (Africa, Caraibi ed America Latina) hanno abbandonato il tavolo delle trattative, disgustati dal modo in cui i Paesi più forti stavano gestendo la conferenza .

La Conferenza di Seattle voleva anche tentare il rilancio del M.A.I. (Multilateral Agreement on Investiments), considerato uno dei pilastri dell’economia mondiale.
Il M.A.I. è un accordo estremamente contestato, e non solo dal popolo di Seattle; lo stesso Parlamento Europeo, con una risoluzione adottata nel marzo 2000, chiedeva agli Stati membri dell’UE di respingerlo almeno nella sua formulazione attuale. Tra le altre cose, il M.A.I. abolisce ogni vincolo residuo all’azione delle multinazionali e prevede che un’impresa possa citare in giudizio quei governi la cui legislazione sia ritenuta troppo restrittiva o di ostacolo alla propria libertà di profitto.

Per dare un’idea di cosa questo significhi tutto questo, facciamo un esempio: immaginiamo che un parlamento promulghi delle leggi che vietino l’importazione di prodotti ritenuti pericolosi per la salute umana o per l’ambiente, o che salvaguardino in altri modi l’ambiente o, anche, che difendano i diritti dei lavoratori. Sotto il M.A.I., una qualsiasi multinazionale che operi in un regime legislativo nazionale e che veda in queste leggi una limitazione alle proprie attività economiche, finanziarie o commerciali, potrebbe fare ricorso contro questo o quell’altro paese citandolo in giudizio presso una corte del WTO e costringendolo, in caso di giudizio favorevole, ad abrogare queste leggi (pena l’entrata in vigore di pesanti sanzioni commerciali). La multinazionale, in questo modo, potrebbe avere il via libera per vendere eventuali prodotti nocivi, per insediare eventuali attività commerciali ad elevato impatto ambientale, per imporre condizioni di lavoro in palese violazione con i diritti nazionali dei lavoratori.

Regole di mercato e salute: il caso della "carne agli ormoni"

Se questo può sembrare incredibile, va sottolineato che qualcosa del genere, in realtà, si è già verificato.

Il primo gennaio 1989, l’Unione Europea proibì la somministrazione ai bovini di ormoni della crescita dopo aver rilevato che interferivano con il normale sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie degli individui in età preadolescenziale; il divieto riguardava sia il loro utilizzo a livello di produzione nazionale che la loro importazione da Paesi terzi, molti dei quali utilizzano ancora attualmente queste sostanze. Nel quadro degli accordi del WTO, Stati Uniti e Canada hanno potuto contestare formalmente il divieto imposto dalla UE sulle loro esportazioni di carne e prodotti derivati da animali trattati con ormoni, ottenendo che l’Europa andasse soggetta a sanzioni commerciali su una serie di prodotti, per un valore complessivo di 124 miliardi di dollari.

Intanto, il Comitato Scientifico della VI Commissione (Agricoltura), ha raccolto ulteriori prove della nocività degli ormoni promotori della crescita, in particolare relativamente a 6 di quelli utilizzati per la produzione di carne (17 beta estradiolo, progesterone, testosterone, zeramolo e due acetati), verificando il loro impatto sul sistema endocrino e sullo sviluppo, nonché sul sistema immunitario, nervoso e riproduttivo. In particolare il 17 beta estradiolo è stato identificato come agente cancerogeno completo, mentre altri sono stati identificati come induttori potenziali, più o meno potenti, del cancro. I gruppi più a rischio della popolazione sono i bambini e i ragazzi fino alla pubertà.
Sulla base di queste conclusioni, l’UE ha deciso di non modificare le norme che proibiscono l'importazione di carni ormonate dagli USA e dal Canada che hanno reagito contestando le conclusioni e chiedendo al WTO l’autorizzazione ad applicare pesanti misure di ritorsione commerciale relativamente ad un danno stimato in 202 milioni di dollari. Tra i prodotti italiani colpiti da questa forma di "embargo" c’è, per esempio, il tartufo; l’embargo sul Roquefort prodotto in Francia è stato tra i principali catalizzatori delle stesse manifestazioni di Seattle.

Le trattative per l’introduzione del M.A.I. sono partite in gran segreto nel 1995 e sono state scoperte e diffuse solo all’inizio del 1997.

Il mondialismo

Il processo di globalizzazione, di cui si sono considerate le tappe più generali, non può realizzarsi pienamente senza coinvolgere anche il piano politico e culturale. In questa sua accezione più ampia, la globalizzazione si identifica con il processo che è stato chiamato anche Mondialismo.

Il mondialismo è un indirizzo culturale, sociale e politico che ambisce alla creazione di un unico governo, o amministrazione, mondiale (il così detto Nuovo Ordine Mondiale), di un unico sistema di valori e, quindi, di un unico insieme di costumi e stili di vita, q uelli consumistici, funzionale al principio della crescita economica.

E’ un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso l’appiattimento delle differenze - etniche, culturali, religiose e politiche - tra diversi popoli della terra. E non è un caso che il principale "prodotto" esportato dagli USA nel mondo, dal dopoguerra ad oggi, sia stato il proprio modello culturale e sociale, il così detto american way of life.

Con la fine del bipolarismo e dei regimi comunisti dell’Unione Sovietica e dell’Europa sono venuti meno i residui ostacoli, politici ed ideologici, all’affermazione mondiale dell’economia di mercato. E il pensiero unico, universale e liberista, si è diffuso attraverso i mass media in ogni parte del globo, ma in modo più sistematico in Europa: i concetti di "libero mercato" e di "crescita economica" hanno assunto la forma di verità prioritarie rispetto ad ogni considerazione sulla necessità di anteporre ai loro obiettivi la tutela dei diritti umani e dell’ambiente.

E, a questo punto, è bene sottolineare che né la globalizzazione, né la mondializzazione appartengono alla "logica delle cose", che esse non sono affatto un processo inevitabile a cui ci si deve rassegnare come ad una irrevocabile realtà divina.

Sia la globalizzazione che il mondialismo sono il frutto dell’attività pratica e deliberata di uomini in carne ed ossa e di organizzazioni che hanno nomi e sedi legali.

Per quanto possa sembrare strano, certi processi hanno bisogno di un ambiente psicologico e culturale favorevole per potersi sviluppare; questo giustifica e rende immediatamente comprensibile la centralità del ruolo culturale assunto dai mass media nel corso degli ultimi decenni. Ed anche il dissolversi dei vincoli di solidarietà nazionale, degli aspetti caratteristici delle culture locali tradizionali, la perdita del sentimento di continuità generazionale e del senso di appartenenza ad una comunità e, quindi, della propria responsabilità individuale nel contesto delle relazioni sociali, possono essere interpretate come uno degli effetti dell’impatto che la globalizzazione ha avuto sulla nostra società.

APPROFONDIMENTO

http://www.msf.it/farmaci/problemi/omc.htm

Campagna Farmaci di Medici Senza Frontiere – MSF
Gli accordi TRIPS dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)

L’Organizzazione mondiale del Commercio (OMC), fondata nel 1995, regola il brevetto dei prodotti e dei processi di fabbricazione, per impedire il commercio di beni contraffatti.
L'accordo del 1996 sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale - TRIPS (Trade-Related Aspects off Intellectual Property Rights) – riguarda anche i farmaci: si vieta la produzione locale e si vincolano importazione, uso e vendita all’autorizzazione del titolare del brevetto.
Una parziale eccezione è garantita dall’articolo 30 che consente le importazioni parallele, per ragioni di salute pubblica e per periodi di tempo limitati: se un prodotto brevettato costa 100 dollari nel paese A e 80 nel paese B, A può importare da B senza chiedere il consenso del detentore del brevetto.
Gli accordi TRIPS non contengono clausole che garantiscono fondi per la ricerca farmaceutica tropicale e prezzi realistici per i farmaci salvavita.
I paesi industrializzati si sono adeguati immediatamente (1997) a tali norme, mentre ai Paesi in via di Sviluppo è stato concesso tempo fino al gennaio del 2000, e un periodo di transizione fino al 2005, che si allunga al 2008 per i 48 paesi più poveri.
Chi non rispetta le regole incorre in sanzioni commerciali.
L’accordo TRIPS ha diverse conseguenze:

  • il monopolio produce una crescita del costo dei farmaci, che a sua volta implica una disponibilità insufficiente nei paesi poveri;
  • i produttori locali che vorranno fabbricare e commercializzare beni brevettati sono costretti a pagare licenze costose;
  • le attività locali di ricerca e sviluppo di farmaci generici vengono disincentivate: il brevetto dura venti anni, e dopo la scadenza il mercato è nelle mani di chi lo ha a lungo occupato monopolisticamente;
  • la crescita industriale e tecnologica locale non viene sostenuta, poiché il titolare del brevetto non è tenuto a produrre i farmaci in loco.
Agli accordi TRIPS hanno fatto seguito prospettive di peggioramento ulteriore, chiamate TRIPS +, con l’obiettivo di

  • proteggere nuovi usi del farmaco;
  • estendere il periodo di vigenza del brevetto;
  • limitare l’uso governativo delle licenze;
  • rendere illegittime le licenze obbligatorie.

Approfondimenti ulteriori

SVILUPPO SOSTENIBILE E CRESCITA DELLA POPOLAZIONE MONDIALE:

IL CASO IRANIANO DELLA POLITICA DI PIANIFICAZIONE FAMIGLIARE

NEWS FROM EARTH POLICY INSTITUTE.

Eco-Economy Successes & Setbacks
Copyright 2001 Earth Policy Institute
For Immediate Release
December 28, 2001


IL TASSO SI NASCITE DELL'IRAN SI ABBASSA A TEMPO DA RECORD
Un successo che fornisce un modello per altri Paesi in Via di Sviluppo

di Janet Larsen

(Traduzione a cura di P. Capozzi)

Il tasso di crescita della popolazione iraniana è sceso costantemente dal 3,2% del 1986 ad appena l'1,2% del 2001. Nel ridurre il proprio tasso di crescita all'1,2%, un tasso leggermente più elevato di quello che si registra negli USA, l'Iran ha fatto di sè un modello per altri paesi che vogliono accelerare la transizione verso famiglie più ristrette.
Storicamente la pianificazione famigliare in Iran ha avuto i suoi alti e bassi. La prima politica di pianificazione familiare della nazione, introdotta nel 1967 sotto Shah Reza Pahlavi, aveva lo scopo di accelerare la crescita economica, di migliorare lo stato delle donne, attraverso la riforma delle leggi sul divorzio, e di accostare la pianificazione famigliare ad un diritto umano.
Sfortunatamente questa promettente iniziativa venne fermata nel 1979, con l'inizio della Rivoluzione islamica, durata una decina d'anni e guidata dallo Shiite Muslim, il leader spirituale Ayatollah Khomeini. Nel corso di questo periodo, i programmi di pianificazione famigliare furono interpretati alla luce di una indebita influenza occidentale e smantellati. Nel corso della guerra Iran-Iraq (1980-1988) una popolazione numerosa fu vista come vantaggio comparativo e Khomeini spinse alla procreazione col fine di creare le nuove fila di "soldati per l'Islam" e con l'intento di "un esercito di 20 milioni".
Questa decisa scelta a favore delle nascite portò il tasso di crescita ben oltre il 3%. I dati dell'ONU illustrano il raddoppiamento della popolazione iraniana da 27 milioni del 1968 ai 55 milioni del 1988 (Vd figura http://www.earth-policy.org/Success/SS1_data.htm.)

Nel corso della ricostruzione post bellica, nei tardi anni 80, l'economia ristagnava. Gravi carenze occupazionali pesavano sulle città sovrappopolate ed inquinate. La rapida crescita della popolazione iraniana, alla fine, comincia ad essere vista come un ostacolo allo sviluppo. Ricettivo verso i problemi nazionali, l'Ayatollah Khomeini riapre il dialogo sul soggetto del controllo delle nascite. Dal dicembre 1989, l'Iran ha rivisto il suo programma di pianificazione familiare. I principali scopi sono di incoraggiare le donne ad aspettare tre-quattro anni tra una gravidanza e l'altra, di scoraggiare i parti delle donne più giovani di 18 anni o più anziane di 35 e di limitare la dimensione familiare ad un massimo di tre bambini.
A maggio del 1993, il governo iraniano ha fatto passare una legge di pianificazione familiare nazionale che incoraggia le coppie ad avere meno figli attraverso la restrizione, ad un numero massimo di tre figli, dei benefici dovuti alla maternità . Essa, inoltre, fa appello ai ministri dell'educazione, della cultura e dell'educazione superiore, della salute e dell'educazione medica, a raccogliere informazioni sulla popolazione, sulla pianificazione familiare e sulla tutela della salute dell'infanzia. E' stato commissionato al ministro dell'Islamic Culture and Guidance di far sì che i media diffondessero consapevolezza sulle questioni relative alla popolazione e sui programmi di pianificazione familiare mentre è stata data la responsabilità di diffondere tali informazioni all'Islamic Republic of Iran Broadcasting . Il denaro risparmiato grazie alla riduzione di maternità è stato destinato a fondi per il finanziamento di programmi educativi.
Tra il 1986 e il 2001, la fertilità totale (cioè il numero medio di bambini messi al mondo da una donna nel corso della sua vita media), è caduto da sette a meno di tre. L'ONU stima che, entro il 2010, la fertilità totale scenderà a due, valore che rappresenta la fertilità al livello di sostituzione (nascite = morti)
Il solido appoggio del governo ha facilitato la transizione demografica iraniana. Sotto l'attuale presidente, Mohammad Khatami, il governo copre l'80% dei costi per la pianificazione famigliare. Una rete generalizzata per la salute, formata da strutture di cura mobili e 15.000 "case di salute", fornisce pianificazione familiare e servizi per la salute ai quattro quinti della popolazione rurale dell'Iran. La quasi totalità di questi centri per la cura della salute è stata costitutuita dopo il 1990. Dato che la pianificazione familiare è integrata con la cura della salute di base, intorno ai moderni contraccettivi è stata vinta quasi ogni resistenza.
I capi religiosi sono stati coinvolti nella crociata a favore delle famiglie di piccole dimensioni citandole, nei loro sermoni settimanali, tra le responsabilità sociali. Hanno inoltre fatto circolare fatwas, editti religiosi vincolanti come sentenze giudiziarie, che permettono ed incoraggiano l'uso di ogni tipo di strumento contraccettivo, inclusa la sterilizzazione permanente degli uomini o delle donne - un primato nel mondo musulmano. Il controllo delle nascite, inclusa la fornitura di preservativi, pillole anticoncezionali e sterilizzazione, è gratuito. Uno dei poteri della promozione della pianificazione familiare in Iran, è il coinvolgimento degli uomini. L'Iran è l'unico paese al mondo che obbliga sia gli uomini che le donne a frequentare un corso sulla moderna contraccezione, senza il quale la coppia non piò ottenere la licenza di matrimonio. Ed è l'unico paese nella regione con un'industria di preservativi autorizzata dal governo. Nei quattro anni passati, circa 220.000 uomini iraniani hanno fatto una vasectomia. Anche se le vasectomie rappresentano appena il 3% della contraccezione, comparate con la sterilizzazione femminile che pesa per il 28%, gli uomini stanno cominciando ad assumersi, in ogni caso, una responsabilità maggiore nell'ambito della pianificazione familiare.
L'aumento dell'alfabetizzazione e delle infrastrutture di comunicazione nazionale sta facilitando i progressi della pianificazione familiare. Il tasso di alfabetizzazione dei maschi adulti è aumentato dal 48% del 1970 all'84% del 2000, quasi raddoppiando in 30 anni. L'alfabetizzazione femminile è aumentata anche più rapidamente, passando da meno del 25% a più del
70%. Allo stesso tempo, la scolarizzazione è passata dal 60 al 90%. E, dal 1996, nel 70% delle case di campagna e nel 93% degli appartamenti urbani è presente un televisore che permette alle informazioni relative alla pianificazione familiare di diffondere ampiamente attraverso i media.
Per l’essere uno tra i 17 paesi che stanno già facendo fronte ad una assoluta scarsità d'acqua, la decisione dell'Iran di frenare la propria rapida crescita demografica ha aiutato ad alleviare gli effetti della carenza d'acqua esacerbata dalle gravi siccità degli ultimi tre anni: una popolazione stimata di 37 milioni di persone, più della metà della popolazione totale, non ha acqua a sufficienza. La scarsità d'acqua per l'irrigazione ha spinto l'Iran ad aumentare le proprie importazioni di grano a 6,5 milioni di tonnellate nel 2001, ben al di sopra delle 5,8 milioni di tonnellate del Giappone che rappresenta, per tradizione, il maggiore importatore mondiale. La produzione totale di sementi è caduta rapidamente tra il 1998 e il 2000, da 17 milioni di
tonnellate a 10 milioni di tonnellate, soprattutto a causa della siccità.
L'area di raccolto delle sementi è rapidamente diminuita a partire dal 1993, limitando rapidamente la produzione pro capite.
La diminuzione della terra arabile pro capite e delle forniture d'acqua, rinforza la necessità di una stabilizzazione della popolazione attraverso programmi ponderati di pianificazione familiare. Se la popolazione iraniana avesse mantenuto il tasso di crescita del 1986, del 3,2%, sarebbe raddoppiata entro il 2008, raggiungendo i 100 milioni invece dei programmati 78 milioni.
Dato che quasi il 40% della popolazione iraniana è al di sotto dei 15 anni, l'impulso alla crescita della popolazione è ancora forte e tale crescita, nell'immediato futuro, sarà inevitabile. Per mantenere bassi i tassi, l'Iran ha bisogno di enfatizzare continuamente il valore sociale delle famiglie di piccole dimensioni.

Tra le chiavi della transizione della fertilità in Iran, ci sono l'accesso universale alla cura della salute ed alla pianificazione familiare, un drammatico aumento dell'alfabetizzazione femminile, consultori contraccettivi prematrimoniale obbligatori per le coppie, partecipazione maschile ai programmi di pianificazione familiare e forte appoggio da parte dei leaders religiosi. Se le politiche per la popolazione e le infrastrutture per il sostegno della salute sono caratteristiche uniche dell'Iran, la sua scarsità di terra e di acqua non lo sono affatto. Molti paesi in Via di Sviluppo con popolazioni in rapida crescita possono trarre profitto dalla capacità dell'Iran nel promuovere la stabilità della popolazione.

Additional data and information sources at http://www.earth-policy.org

NATURA SOTTO ASSEDIO

Se l’economia vanta record senza precedenti, la perdita di specie viventi degli ultimi decenni raggiunge livelli paragonabili all’estinzione di massa del Cretaceo (65 milioni di anni fa: estinzione dei dinosauri).
La globalizzazione è un potente motore di un’erosione biologica senza precedenti, ma le nuove regole dell’economia globale poco si curano di quanto sta avvenendo.
Eppure gli esseri umani continuano a dipendere essenzialmente dal mondo naturale dei cui servizi non ha mai tenuto conto in modo opportuno. Nel 1997 un gruppo di esperti provò ad attribuire un valore economico ad una serie di funzioni svolte dai principali ecosistemi: gli autori giunsero a stimare il valore di queste "prestazioni naturali" in 33.000 miliardi di dollari l’anno, una cifra quasi equivalente al PIL annuale mondiale.
A dispetto di questo, gli ecosistemi degenerano ad un ritmo inaudito. Un modo semplice per valutare tali perdite è quello di stimare la velocità con cui si estinguono specie viventi: i biologi avvertono che un quinto delle specie animali e vegetali è destinato a sparire nei prossimi 30 anni. Un altro modo per valutare il degrado è di stimare la velocità di trasformazione degli ecosistemi naturali in aree destinate ad uso umano (coltivazioni, pascoli, insediamenti umani, infrastrutture etc): paesi come l’Argentina, l’Australia, il Messico, l’India, il Sud Africa e la Spagna, hanno già convertito in questo modo più della metà del proprio territorio.
In Occasione della Conferenza di Rio (1992) 175 paesi (con l’astensione degli USA) si sono impegnati a fermare il depauperamento delle risorse naturali firmando la Convenzione sulla Biodiversità. Tra le altre cose, i paesi s’impegnano a salvaguardare la biodiversità, ad istituire aree protette, a ripristinare gli habitat deteriorati e a distribuire equamente i benefici derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche.
Purtroppo, a differenza delle ben definite regole del WTO, nella CBD ci sono ben poche indicazioni concrete su come attuare tali obiettivi e nessun meccanismo di controllo che garantisca la realizzazione degli obiettivi e che sancisca pene per chi infrange gli obblighi della convenzione.

I NOSTRI PIU’ STRETTI PARENTI STANNO SPARENDO

NEWS dallo EARTH POLICY INSTITUTE
Eco-Economy Update 2002-3 For Immediate Release
March 5, 2002

http://www.earth-policy.org/Updates/Update7.htm

di
Janet Larsen
traduzione a cura di;
P. Capozzi

Dopo più di un secolo in cui non sono note estinzioni a carico dei primati, gli scienziati hanno recentemente confermato l'estinzione di una sottospecie di scimmia dell'Africa Occidentale. La perdita di questa scimmia, conosciuta col nome di colobus rosso di Miss Waldron, può essere un presagio delle future perdite dei nostri più vicini parenti evolutivi.
Delle di circa 240 specie di primati conosciuti, 19 sono drammaticamente in pericolo, cioè un numero maggiore delle 13 contate nel 1996. Questa classificazione si riferisce a specie che hanno sofferto riduzioni estreme e rapide a carico delle loro popolazioni o del proprio habitat. Il numero di individui rimasti va da meno di poche centinaia a, al massimo, a poche migliaia. Se le loro popolazioni continuano a restringersi seguendo i ritmi recenti, alcune specie non sopravviveranno a questa decade.
Stando alla Lista Rossa 2000 IUCN delle Specie in Pericolo redatta dalla World Conservation Union tra queste specie sono incluse 8 scimmie originarie delle foreste pluviali Atlantiche del Brasile, area in cui è andato perduto il 97% dell'area forestale, 2 primati e scimmie dell'Indonesia, 3 scimmie del Viet Nam, 1 del Kenya e 1 del Peru, e 3 specie di lemure originarie del Madagascar. Al livello di pericolo, il secondo grado di rischio nella classifica dello IUCN, ci sono 46 specie di primati, rispetto alle 29 del 1996. Queste specie hanno una probabilità di estinzione molto elevata, alcune nell'arco dei prossimi 20 anni. Ulteriori 51 specie, sono catalogate come vulnerabili. Questi primati hanno popolazioni leggermente più numerose ma potrebbero comunque estinguersi nel corso di questo secolo. Nel complesso le specie estremamente a rischio, a rischio e vulnerabili assommano a 116, ovvero rappresentano quasi la metà delle circa 240 specie di primate che popolano il pianeta.
(See table http://www.earthpolicy.org/Updates/Update7.htm)
Sul finire dell'ultima Era Glaciale, 10.000 anni fa, il numero di babbuini era almeno il doppio di quello degli esseri umani. Se tutte le popolazioni di primati non-umani fossero conteggiate insieme, includendo le grandi popolazioni di alcune specie più piccole, esse sovrasterebbero la popolazione umana. Ma adesso qualcosa è cambiato. Lo sviluppo dell'agricoltura a determinato una rapida crescita della popolazione umana e, circa 2000 anni fa, gli uomini, che ammontavano a 300.000, divennero il gruppo più numeroso tra i primati. Dal 1930, la popolazione umana di 2 miliardi di persone ha, probabilmente, superato numericamente tutti gli altri primati sommati insieme.
Oggi, che siamo 6,1 miliardi in aumento, stiamo mettendo a rischio la sopravvivenza di molti dei nostri cugini primati, inclusi i nostri più vicini parenti ancora in vita, gli scimpanzè ed i babbuini, che condividono con noi il 98% del proprio genoma. Anche le altre scimmie sono abbastanza vicine a noi, non solo geneticamente ma anche nei comportamenti osservati. E con i 300.000 bambini che nascono ogni giorno, un numero che supera quello relativo alle popolazioni delle grandi scimmie antropomorfe, questa vicinanza evolutiva potrebbe non essere sufficiente ad impedirci la distruzione dei nostri parenti prossimi.
Mentre gli uomini oggi abitano quasi ogni angolo del pianeta, la maggior parte degli altri primati mostrano un forte endemismo, cioè sono limitati ad una zona particolare. Almeno i tre quarti di tutti i primati vive in appena 4 paesi: Brasile, Repubblica Democratica del Congo (precedente Zaire), Indonesia e Madagascar. In ciascuno di questi paesi, la copertura forestale sta diminuendo e, dato che le perdite relative all'habitat sono un rischio per il 90% delle specie in pericolo, la loro concentrazione in un numero così ristretto di paesi aumenta la loro vulnerabilità. In Indonesia, molte foreste e habitat selvatici hanno sofferto a causa dei tagli alimentati dalla corruzione e dall'instabilità politica. Nel corso dello scorso decennio i tassi di deforestazione sono raddoppiati raggiungendo quasi 2 milioni di ettari all'anno.
Con il raddoppio dei tassi di deforestazione il numero di orangutan è diminuito della metà.
Entro il 2005 il paese perderà tutte le foreste che si trovano nelle parti basse di Sumatra portando all'estinzione, tra le altre specie, dell'Orangunan di Sumatra a rischio critico. L'Orangunan del Borneo, dopo aver sofferto per i tagli, la caccia e i catastrofici incendi del 1997, è probabilmente destinato a scomparire entro il 2010, se i trend attuali si mantengono costanti. Uno dei nostri più vicini parenti, il bonobo, è endemico del Congo, un paese tormentato dalla guerra civile e dall'occupazione da parte di eserciti stranieri e gruppi ribelli. Insieme a molti altri primati che abitano questa regione, il bonobo a riproduzione lenta ha visto un proprio rapido declino: nel 1980 la sua popolazione contava circa 100.000 individui, oggi non ne conta più di 10.000.
Anche se la guerra civile ha generato milioni di rifugiati e può aver aumentato la domanda di carne originata da animali selvatici, il pur lento sviluppo economico del Congo avrebbe potuto rallentare il taglio delle foreste che, complessivamente, in questo paese, rappresentano la metà del patrimonio forestale tropicale rimasto nel continente. Se ritornasse la stabilità politica, il taglio degli alberi potrebbe aumentare di diverse volte nei prossimi anni, accelerando ciò che potrebbe essere la prima grande estinzione di scimmie antropomorfe.
Le popolazioni di Gorilla hanno raggiunto livelli pericolosamente bassi, soprattutto a causa della caccia che alimenta il commercio illegale di carne. Esistono ancora meno di 325 gorilla di montagna e si trovano tutti in sottopopolazioni che vivono tra il Rwanda, il Congo e l'Uganda. Il più raro, il Cross River Gorilla, conta appena 150-200 individui dispersi tra diverse subpopolazioni viventi nella regione di confine tra il Cameroon e la Nigeria. In alcune zone dell'Africa Occidentale e Centrale, la caccia è un pericolo maggiore della perdita di habitat. Il mercato della carne, rappresentato principalmente da antilopi di foresta, maiali e primati, ha un valore superiore a 1 miliardo di dollari all'anno. Nelle aree in cui la confusione sociale ha subissato le attività economiche tradizionali e in cui il reddito medio annuo della famiglia è inferiore a 100 dollari, la tentazione di poter guadagnare da 300 a 1000 dollari all'anno facendo il cacciatore è stata per molti troppo forte. Le compagnie di taglio e, in misura minore, quelle minerarie, sono penetrate nelle foreste con i loro insediamenti che aumentano la domanda di cacciagione mentre le strade facilitano la caccia. Comunque a caccia intensa non è proficua sul lungo periodo, perchè le popolazioni selvatiche, soprattutto quelle dei grandi primati a lento tasso riproduttivo, vengono rapidamente decimate. Più di 1 milione di tonnellate di cacciagione vengono consumate ogni anno in Congo, quasi 6 volte di più di quanta la foresta ne produce in modo sostenibile.
La caccia a fini commerciali ha svuotato foreste che erano piene di animali. Anche se le comunità rurali hanno a lungo basato la propria sussistenza sulla cacciagione e su altri prodotti di origine forestale, ottenendo dalla cacciagione più del 60% del loro fabbisogno proteico, la maggior parte della cacciagione viene attualmente consumata nelle città. Quasi la metà delle 30 milioni di persone che vivono nelle regioni forestali dell'Africa Centrale, sono residenti urbani che vengono alimentati con cacciagione proveniente da popolazioni selvatiche sull'orlo del collasso. Mentre le città crescono e la caccia aumenta, si stima che questa possa eliminare tutta la popolazione vivente di scimmie africane in meno di 20 anni.
Per prevenire che gli altri primati si estinguano in ciò che viene considerata il sesto evento principale di estinzione di massa nella storia evolutiva del pianeta, sono necessarie risorse per impedire il taglio e la caccia illegale. Il taglio illegale ha distrutto vaste fette dell'habitat originario dei primati, La maggior parte della cacciagione viene da aree protette e il commercio internazionale di primati è già stato reso illegale dalla Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie a Rischio (Convention on International Trade in Endangered Species). Ma, quando la messa in atto delle leggi è carente, le pratiche illegali sono destinate a continuare.
Grandi blocchi di aree biologicamente ricche possono essere convertiti in nuovi parchi che tengano conto dei bisogni della vita selvatiche e di quelli delle popolazioni umane. L'ecoturismo può essere usato per sostenere la conservazione dei primati e i cacciatori possono trovare nel lavoro di protezione dei parchi un'utile alternativa alla loro attività, una volta che abbiano realizzato che gli animali vivi possono avere un valore maggiore di quelli morti.

Capire meglio noi stessi, la nostra biologia, la nostra psicologia e sociologia, dipende in parte dal capire meglio i nostri più vicini parenti viventi. Se li distruggiamo, potremmo non arrivare mai a intuire veramente chi siamo.

Additional data and information sources at http://www.earth-policy.org

IL MERCATO DEL LEGNO

Nelle foreste abita più della metà di tutte le specie della terra. Le foreste inoltre, svolgono importanti funzioni nell’assestamento idrogeologico dei territori, nella regolazione del clima globale. Eppure sono andate perdute quasi la metà delle foreste che, un tempo, coprivano la Terra e, ogni anno, se ne vanno circa 14 milioni di ettari di foresta tropicale: un’area che è tre volte più grande del Costa Rica.
Il commercio del legname non è l’unica causa del declino delle foreste. Ad esso si associa il disboscamento per scopi agricoli e di allevamento, il prelievo di legname per usi domestici e come combustibile. L’attrazione verso la partecipazione ai mercati internazionali, fa si che molti paesi ricchi di risorse forestali esportino quantità di legno molto superiori a quelle utilizzate internamente. Questo è il caso di Camerun, Canada, Gabon e Papua Nuova Guinea. Ma anche di Indonesia e Malysia la cui esportazione complessiva, tra il 1975 e il 1998, è passata da 233.000 a 12 milioni di metri cubi di legno destinato al mercato del compensato.
Lo sfruttamento commerciale rappresenta il principale pericolo per le foreste più ricche di risorse biologiche, soprattutto quelle vergini dell’Alaska, del Canada, della Russia, del Bacino Amazzonico e della Guyana. Il commercio mondiale di prodotti forestali, tra il 1961 e il 1998 è più che triplicato. I paesi industrializzati fanno la parte del leone, coprendo circa l’80% del valore complessivo delle esportazioni e delle importazioni ma, negli ultimi anni, il Brasile, l’Indonesia e la Malaysia sono entrati nella top-ten dei paesi esportatori di legno contribuendo, da soli, a quasi il 40% della contrazione del patrimonio forestale mondiale (36% nella prima metà degli anni ’90).
A questi dati vanno associati quelli, ignoti, del traffico illegale che copre una quota altrettanto grande.
Da diversi anni, le grandi aziende europee, americane, giapponesi dell’Indonesia e della Malaysia hanno comprato i diritti di abbattimento su grandi superficie di foresta primaria in Africa, Asia, Nord e Sud America, spesso a pressi decisamente inferiori al loro valore c ommerciale, per non parlare di quello ecologico. Alcune di queste aziende vantano primati nell’elenco dei disastri ambientali e di corruzione, che non lasciano presagire niente di buono.

GESTIRE LE RICCHEZZE NATURALI

La tragica relazione tra globalizzazione e perdita di biodiversità non è necessariamente irreversibile. Un approccio particolarmente promettente è quello che punta a sfruttare il potere dei consumatori favorendo un cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della questione ambientale. Negli ultimi anni le iniziative finalizzate a rendere più sostenibile l’industria del legname, ad esempio attraverso programmi di certificazione e di eco-labeling, sono notevolmente aumentate e, benchè il legname certificato rappresenti ancora oggi una piccola quota della produzione totale, la richiesta sta crescendo così come le aree che chiedono e ottengono la certificazione.
Un’altra strategia che salvaguardia la foresta e le popolazioni che la abitano, è la promozione del commercio di prodotti forestali non lignei, come il rattan (steli di palma utilizzati per fabbricare mobili e oggetti in vimini), caucciù e spezie.
Il turismo controllato è uno strumento utile per convogliare denaro nella conservazione degli ecosistemi, ma la sua notevole crescita ha creato problemi di gestione e, spesso, ha convogliato le risorse locali nelle tasche di investitori stranieri.

IL MINESTRONE BIOLOGICO

La rapida crescita della circolazione di persone e merci in tutto il mondo ha offerto mezzi di trasporto efficienti anche a migliaia di specie animali e vegetali che, adesso, stanno mettendo radici fuori dai loro territori originari. Questa esplosione del trasferimento di organismi e microbi è un fattore di rischio per la biodiversità del pianeta e per la nostra salute.
Il processo attraverso cui una specie esterna colonizza un ambiente diverso da quello in cui vive normalmente, è detto bioinvasione. Le specie esotiche mettono a rischio circa il 20% dei vertebrati e, negli USA, questa minaccia arriva al 50%.
Le specie acquatiche si diffondono soprattutto grazie all’acqua di zavorra delle navi che operano su rotte internazionali: queste portano a spasso per il mondo circa 10.000 specie esotiche al giorno specie che, quando vengono scaricate, possono fare danno tremendi. Nella prima metà degli anni ’80, per esempio, una massiccia emissione di meduse atlantiche nel Mar Nero, contribuì al crollo dell’industria della pesca. La recente introduzione di un mollusco bivalve (Dreissena polimorfa), probabilmente proveniente dal Mar Caspio, nei Grandi Laghi americani ha pesantemente perturbato i delicati ecosistemi consumando una enorme quantità di alghe che sono alla base della catena alimentare. Come se non bastasse, si moltiplica rapidamente arrivando ad intasare le tubature dell’acqua e ad incrostare imbarcazioni ed infrastrutture. Questo piccolo mollusco, dall’apparenza innocua, è destinato a provocare perdite per un totale di 3,1 miliardi di dollari.
Gli ecosistemi terrestri non sono meno in pericolo. Un moscerino bianco resistente agli antiparassitari (Ephoron leukon) è comparso in California all’inizio degli anno ’90 provocando danni all’agricoltura per decine di miliardi di dollari. Quindi si è spostato in Sud America provocando la diffusione di virus patogeni e l’abbandono forzato di più di un milione di ettari di terreni. La salcerella (Lythrum salicaria) è stata introdotta in Nord America accidentalmente verso la metà del XVIII secolo. Oggi ha occupato 600.000 ettari di superficie nelle zone umide soppiantando la vegetazione nativa che offriva cibo e riparo alla fauna locale.
Affrontare il problema delle specie esotiche richiede rigorosi accordi internazionali che, però, tendono ad entrare in conflitto con le regole commerciali del WTO. Un esempio è la controversia tra il governo cinese e gli USA, dovuta al fatto che la Cina accusava gli USA di creare ingiuste barriere commerciali imponendo il veto all’importazione di merci su pallet di legno cinese non trattato. Il provvedimento era stato preso perché ci si era accorti che le pallet erano responsabili dell’introduzione di un insetto fitofago particolarmente aggressivo che metteva a repentaglio le foreste di latifoglie degli USA. Recentemente anche l’UE ha posto il veto su questi materiali mentre la Cina ha fatto altrettanto con le pallet giapponesi avendo individuato al loro interno alcune larve di tarme.

INVASIONI IMPREVEDIBILI


da: ECOLOGY
di: Andrew M. Sugden
traduzione a cura di:
P. Capozzi Quando gli europei si stabilirono in Nuova Zelanda alla fine del XVIII secolo, portarono con loro animali da pascolo, principalmente capre e pecore, dando inizio ad un esperimento di lungo periodo sugli effetti dell'introduzione di specie di vita aliene sull'ecologia delle foreste native.
Wardle et al. (autori di questa pubblicazione di cui vi invio una sintesi) hanno esaminato come gli animali da pascolo introdotti abbiano influenzato la biodiversità e i processi dell'ecosistema.
Comparando la zona della foresta pascolata da questi animali. Hanno rilevato che ci sono stati effetti negativi consistenti su particolari elementi della comunità forestale, soprattutto a carico delle popolazioni di piante locali e dei piccoli animali residenti Nello stesso tempo, si è individuato un mosaico di effetti di vario tipo: sulla biodiversità del suolo e sulle dinamiche dei nutrienti del suolo che risultano diversamente colpite a seconda delle locazioni.
Questa imprevedibilità sottolinea l'importanza di prevenire lo stabilirsi di specie aliene.

[Fonte: Ecol. Monogr. 71, 587 (2001)].

MICROBI DA OLTRE CONFINE


La globalizzazione del commercio è anche una globalizzazione delle malattie. L’OMS calcola che quasi un quarto delle patologie mondiali va messa in relazione con il degrado e lo scadimento delle condizioni ambientali. La contaminazione dell’acqua è responsabile del 90% delle infezioni associate a diarrea (per esempio il colera o il tifo) che uccidono ogni anno 3 milioni di persone. E il 90% dei decessi per malaria (1,5-2,7 milioni/anno) sono da attribuirsi a gravi problemi ambientali come la colonizzazione delle foreste pluviali e la realizzazione di estesi sistemi irrigui. Recentemente, un’analisi condotta dalla Cornell University, arriva alla conclusione che sono riconducibili al declino ambientale il 40% dei decessi che si verificano ogni anno.
Quando globalizzazione e degrado ecologico agiscono in modo combinato, gli effetti possono essere davvero tragici. Un esempio è dato dall’escalation dell’epidemia di AIDS che, a tutto il 1999, aveva contagiato 50 milioni di persone uccidendone più di 16 milioni. Il continente africano, con un quarto della popolazione infettata, risulta oggi il più colpito. L’epidemia emerse nei primi anni ’80, più o meno contemporaneamente in Africa, in Nord America e nei Caraibi. L’ipotesi più probabile è che il virus abbia avuto origine nelle popolazioni di scimpanzè delle foreste pluviali dell’Africa Occidentale e che sia stato trasferito alla specie umana fin dagli anni 40. Secondo l’ipotesi avanzata da Jaap Goudsmit dell’Università di Amsterdam, il virus sarebbe stato indotto a trasferirsi all’uomo dalla diminuzione dei sui ospiti originari. D’altra parte le differenze genetiche tra la forma dei primati (SIV) e la variante umana (HIV) sono molto piccole. Dato che per gli scimpanzè il virus non è letale, lo studio dei primati infetti è di enorme importanza per la ricerca sull’AIDS. Ma i primati africani stanno diminuendo rapidamente e molti rischiano di estinguersi in brevissimo tempo, forse prima che ci abbiano potuto aiutare a trovare una soluzione.
Un altro problema è quello di capire come abbia fatto il virus dell’HIV ad uscire dalla propria condizione originaria di infezione isolata per diffondersi in tutto il mondo. Ogni ipotesi porta alla massiccia penetrazione umana nelle foreste dell’Africa occidentale, un fenomeno in rapida espansione che potrebbe far sì che altre pericolose infezioni prendano la strada seguita dal’AIDS.
Nel corso degli ultimo 20 anni sono stati identificati oltre 30 nuovi agenti infettivi della popolazione umana, tra cui i virus dell’AIDS, dell’ebola, l’Hantavirus, quelli dell’epatite C ed E.
Secondo l’OMS "i mutamenti ecologici hanno contribuito in un modo o nell’altro alla comparsa di molte (se non tutte)" le nuove malattie. Spesso il problema è collegato a processi di deforestazione e di riconversione agricola di terreni che alterano gli equilibri a lungo mantenuti tra microrganismi e specie ospiti. O a condizioni di povertà e comportamenti umani che possono creare siti di riproduzione ideali per gli insetti che veicolano parassiti patigeni.
Un altro problema è la ricomparsa di microrganismi in zone dalle quali sembravano ormai debellati. Il colera è ritornato in America Latina dipo che, per quasi un secolo, prima del 1991, non si erano più verificate malattie: nel 1991 la malattia ricomparve e colpì, in Perù, 322.000 persone uccidendone 2900. I prodotti alimentari provenienti dal Perù furono banditi dal mercato e il Perù, già poverissimo, perse circa 1/5 delle esportazioni. Dal Perù, il colera si diffuse contaminando le riserve idriche di tutti gli stati del continente colpendo complessivamente più di 1 milione di persone e provocando 11.000 decessi. Tra le ipotesi fatte per spiegare la recrudiscenza della malattia, c’è quella il vibrione sia stato introdotto con le acque di zavorra di una nave giunta dall’Asia Meridionale, ma l’importanza delle scarse condizioni igieniche che si accompagnano alla povertà non è certo da sottovalutare nei termini della diffusione della malattia. Un’altra ipotesi si rifà al riscaldamento climatico e, in particolare, al riscaldamento delle acque oceaniche prodotto dal Nino, che avrebbe indotto una esplosione del plancton che può facilmente ospitare il microrganismo. In realtà non sono pochi gli scienziati preoccupati dei possibili effetti del cambiamento climatico sulla diffusione e sull’ecologia dei microrganismi patogeni.
Il cambiamento climatico sembra essere la principale causa che spinge verso nord malattie come il Dengue e la malaria.

A PROPOSITO DI BIOPIRATERIA

Questa storia, purtroppo una delle tante, comincia nel 1995: quando, cioe', l'Universita' del Wisconsin isola, dalla bacca di una patata che cresce nel Gabon, la brazzeina, una proteina ulrazuccherina. La suddetta universita', quindi, deposita quattro brevetti e concede le licenze per lo sfruttamento della molecola a varie societa' biotecnologiche che cercano di introdurre il gene della brazzeina nei legumi e nella frutta. Il successo di questa operazione (frutta e legumi dolcissimi e ipocalorici) potrebbe fruttare enormi profitti. Ma certamente non per i contadini del Gabon, che da generazioni selezionano, migliorano e coltivano questa pianta.
La biopirateria, ovvero il deposito di brevetti su piante coltivate o utilizzate nei paesi del Sud da parte di industrie o universita' del Nord, ovviamente senza il consenso delle parti "saccheggiate" e senza contropartite per i Paesi d'origine delle varieta' coinvolte, e' diventata ormai una norma.
Lo sviluppo delle biotecnologie ha attratto l'attenzione delle imprese americane, Canadesi, Australiane, Europee e Giapponesi, sulle risorse genetiche; i paesi del Sud, per secoli campo di sfruttamento di quelle risorse "canoniche" tanto necessarie al benessere dell'opulento Occidente (materie prime, carburanti fossili etc), sono oggi diventate oggetto di saccheggio genetico. Perchè, se gran parte delle risorse genetiche sono concentrate nel Sud povero e affamato, le tecnologie, le sequenze genomiche ed i brevetti finiscono con l'essere di proprietà esclusiva del Nord, ricco ed opulento.
Per mettere un freno alla biopirateria, l'OUA (Commissione di Ricerca Tecnica e Scientifica dell'Organizzazone dell'Unita' Africana) ha redatto un disegno di legge su "la protezione dei diritti delle comunita' locali, degli agricoltori e dei produttori e sulle regole di accesso alle risorse biologiche".
Con questo disegno si cerca di avviare un "appropriato sistema di accesso alle risorse biologiche , alle conoscenze e tecnologie delle comunità, previo consenso informato preliminare da parte dello stato e delle comunità locali interessate" predisponendo, inoltre, " meccanismi che garantiscano una ripartizione giusta ed equilibrata" dei profitti derivati dall'uso commerciale delle risorse.
Il fondamento giuridico del provvedimento poggia sulla Convenzione sulla diversita' biologica (Cdb), adottata nel 1992 al Summit della Terra di Rio.
Nella Convenzione:
1) si riconosce agli stati il diritto di sovranità sulle proprie risorse biologiche e genetiche (prima considerate patrimonio comune dell'umanità) e si stipula che l'accesso a queste risorse debba dipendere dal consenso degli stati sovrani;
2) si impone ai firmatari di proteggere e sostenere i diritti di comunità, agricoltori e popoli autoctoni nei confronti delle proprie risorse biologiche e del loro patrimonio conoscitivo;
3) si richiede un'equa ripartizione dei profitti derivanti dallo sfruttamento commerciale delle risorse biologiche e dei saperi delle comunità locali.
Il modello di legge dell'OUA prevede che "l'accesso alle risorse biologiche e/o alle conoscenze o tecnologie delle comunità locali in ogni parte del paese, dovrà essere sottoposto ad una richiesta, al fine di ottenere il preliminare consenso informato e un'autorizzazione scritta" concessa "dall'autorità nazionale competente" previo consenso delle comunità locali interessate.
Nel testo e' previsto che "l'autorità nazionale competente" fissi l'ammontare dei canoni dovuti dal selezionatore che abbia ottenuto una varietà a partire da una delle risorse biologiche del paese; le royality, calcolate in base all'ammontare delle vendite, andranno in un fondo per il finanziamento di progetti elaborati dalle comunità locali, finalizzati allo sviluppo, alla conservazione e all'uso duraturo delle risorse genetiche agricole.
Oltre a regolamentare l'accesso alle risorse biologiche, la legislazione dell'Oua definisce un "sistema di protezione" dei diritti di proprietà intellettuale per i selezionatori di nuove varietà vegetali.
Questa parte fa riferimento alle esigenze dell'Accordo sugli Aspetti dei diritti di proprietà intellettuale inerenti al commercio (Adpic) [Gatt/Trip- Trade Related Intellectual Property]. Questo testo (1994, Marrakech) obbliga i paesi membri dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a dotarsi di un sistema che protegga questi diritti. In particolare l'art. 27.1 dispone che "si potrà ottenere un brevetto per ogni invenzione di prodotto o di processo". L'Omc, pero', da' agli Stati anche la possibilità "di escludere dalla brevettabilità vegetali e animali diversi dai microrganismi", ma esige che gli stessi paesi prevedano "la protezione delle varietà vegetali attraverso brevetti o un efficace sistema sui generis (cioè adattato alle situazioni particolari), oppure con una combinazione di entrambi i "mezzi".
Il sistema "sui generis" definito dall'Oua e' molto meno esclusivo di quello dei brevetti; al contrario di quest'ultimo, riconosce all'agricoltore il diritto a conservare parte del raccolto per poterlo ripiantare l'anno successivo senza dover pagare canoni (privilegio del coltivatore). La varietà selezionata può anche essere utilizzata gratuitamente dai ricercatori che vogliano crearne una nuova (esenzione per la ricerca).
Il sistema sui generis proposto dall'Oua si adatta alla situazione africana più di quanto non facciano altri sistemi, come il "diritto di ottenzione vegetale dell'Upov" [Unione per la protezione delle ottenzioni vegetali] cui aderiscono principalmente gli agricoltori dei paesi industrializzati.
Resta da vedere se questo "sistema sui generis" sarà riconosciuto dall'Omc. I paesi africani non si accontentano più della "possibilità" di escludere animali e vegetali dalla brevettabilità (art. 27.3b del del Trade Related Intellectual Property), ma chiedono che l'Omc "proibisca" di brevettare il vivente. Essi chiedono che "l'accordo precisi che ogni legge sui generis possa contenere disposizioni tendenti a proteggere le innovazioni delle comunità autoctone e delle comunità agricole locali dei paesi in via di sviluppo preservando le pratiche agricole tradizionali, compreso il diritto di conservare e scambiare i semi e di vendere i raccolti".

EFFETTO SERRA E PROTOCOLLO DI KYOTO


*Introduzione
*La risposta internazionale al Cambiamento Climatico:
L'emergere della consapevolezza
La Convenzione sui Cambiamenti Climatici
Il Protocollo Di Kyoto
Piano d'Azione di Buenos Aires e Accordi di Bonn
Tabella riassuntiva


Introduzione

Il clima mondiale ha sempre avuto variazioni naturali ma, attualmente, la grande maggioranza degli scienziati concordano nel ritenere l’attuale tendenza al riscaldamento globale un effetto dell’aumento nella concentrazione dei gas serra atmosferici, aumento che dipende dalla crescita economica e demografica verificatasi nel corso degli ultimi due secoli e che sta determinando variazioni che si sovrappongono a quelle naturali.
Il terzo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), rilasciato nel 2001, conferma ulteriormente questa ipotesi e, aggiornando i risultati del precedente rapporto sui cambiamenti climatici (1995), conferma che il clima cambierà più rapidamente di quanto avessero fatto supporre i dati precedenti: secondo le proiezioni dell’IPCC, infatti, l’aumento della temperatura globale alla fine del secolo sarà compreso tra 1,4 e 5,8 C: si tratta del più alto tasso di cambiamento registrato dalla fine dell’ultima era glaciale. A fronte dell’aumento delle temperature medie, il livello dei mari potrebbe aumentare tra 9 e 88 cm entro il 2100, la distribuzione delle precipitazioni andrà incontro a modificazioni con relative conseguenze sul clima di molte regioni che, in generale, tenderà a diventare più variabile. Assisteremo ad un aumento sensibile nella frequenza di manifestazioni climatiche a carattere estremo, ma non siamo ancora in grado di valutare l’effetto dei cambiamenti su fenomeni di larga scala ( per esempio la possibilità che si verifichino inversioni a carico delle principali correnti oceaniche o improvvisi collassi delle calotte glaciali principali).
Il clima è un sistema molto complesso e gli scienziati incontrano grosse difficoltà nello studiarlo, nel comprenderlo e nel prevederne il comportamento; tuttavia sono ormai pochi quelli che sottovalutano i rischi connessi con tale cambiamento. Ammesso che possano esserci aree avvantaggiate dal cambiamento climatico, nella maggior parte delle regioni esso avrà impatti drammaticamente negativi sulla salute umana, sulla sicurezza alimentare, sulle attività economiche, sulle risorse idriche e sulle infrastrutture fisiche. In molte regioni l’agricoltura potrebbe risentirne fino alla distruzione e in molte altre si andrebba incontro ad una diffusione di malattie tropicali da tempo sconfitte o completamente sconosciute.
La disponibilità d’acqua, che già rappresenta un grosso problema per molte popolazioni della Terra, diminuirebbe ulteriormente; l’incremento del livello dei mari e la conseguente inondazione di ampie fasce costiere, porterebbe allo spostamento di centinaia di milioni di persone verso le aree più interne.
Infine, anche se nessuno potrà evitarlo, gli effetti del cambiamento climatico sulle popolazioni più povere e più vulnerabili saranno più drammatici che altrove.

La risposta internazionale al Cambiamento climatico

L’emergere della consapevolezza

Con l’aumento dei dati scientifici sul legame esistente tra attività umane e riscaldamento globale, e in seguito all’aumento dell’interesse e delle preoccupazioni della società civile nei confronti dell’argomento, verso la metà degli ani ‘80 il cambiamento climatico viene inserito nell’agenda politica internazionale. Riconoscendo l’importanza e la necessità di informare ed aggiornare i politici sull’argomento, nel 1988 la World Meterological Organization (WMO) e l’UN Environment Programme (UNEP) promuovono la nascita di una commissione scientifica per la raccolta dati sul cambiamento climatico, l’International Panel on Climate Change (IPCC: http://www.ipcc.ch/). Lo stesso anno l’argomento viene affrontato, per la prima volta, in seno all’Assemblea Generale dell’ONU che adotta la prima risoluzione sulla "Protezione del clima globale per le generazioni umane presenti e future" (risoluzione 43/53).
Il primo rapporto di valutazione sul cambiamento climatico, viene presentato dall’IPCC nel 1990 l’IPCC: il rapporto conferma l’esistenza di un problema globale chiamato "cambiamento climatico" e lancia un appello per la creazione di un trattato globale in grado di affrontare il problema. L’appello viene rinnovato nella Dichiarazione Ministeriale della Seconda Conferenza Mondiale sul Clima, tenutasi a Ginevra tra Ottobre e Novembre dello stesso anno; l’assemblea Generale dell’ONU risponde nel Dicembre del 1990, attraverso la risoluzione 45/212, aprendo ufficialmente i negoziati su una bozza di convenzione sul cambiamento climatico e stabilendo una Commissione Intergovernativa (INC) destinata a condurre i negoziati.

La Convenzione dui Cambiamenti Climatici

L’INC si riunisce per la prima volta nel febbraio 1991 e dopo appena 15 mesi, il 9 maggio 1992, adotta la United Nations Framework Convention on Climate Change che viene aperta alle sottoscrizioni il 4 giugno 1992 in concomitanza con la Conferenza dell’ONU su Ambiente e Sviluppo (UNCED), il così detto Summit della Terra di Rio de Janeiro. La Convemzione sul Cambiamento Climatico entra in vigore nel marzo del 1994.
Attualmente sono "Parti alla Convenzione" 186 paesi più l’Unione Europea. Per divenire Parte un paese deve ratificare, accettare, approvare o accedere alla Convenzione che si riunisce regolarmente una volta all’anno alla Conferenza delle Parti (COP); la COP ha lo scopo di fare il punto sulla messa in opera della Convenzione da parte dei singoli stati aderenti e sui nuovi dati dell’IPCC relativi al cambiamento climatico.
L’obiettivo finale della Convenzione è la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche di gas serra; in sostanza, la quantità di gas serra emessi nell’atmosfera dalle attività umane non dovrebbero eccedere certi limiti di sicurezza che non sono quantificati ma che dovrebbero essere fissati in modo tale da permettere il naturale adattamento degli ecosistemi al cambiamento climatico in atto, assicurando che non venga messa a rischio la produzione alimentare e permettendo allo sviluppo economico di procedere in modo sostenibile. Per raggiungere questo obiettivo, tutti i paesi hanno l’indicazione generale di controllare il Cambiamento Climatico, di adattarsi ai suoi effetti e di riportare le azioni fatte ai fini di rendere la Convenzione operativa.
La Convenzione divide i paesi in due gruppi: quelli indicati nell’Allegato I (Annex I Parties) e quelli che non vi vengono indicati (non-Annex I Parties)

Annex I Parties
Sono i paesi industrializzati (Vd tavola sotto), che hanno contribuito e continuano a contribuire alla maggior parte delle emissioni. Essi includono sia i paesi che, nel 1992, erano membri della Organization for Economic Cooperation and Development (OECD), sia quelli dalla così dette "economie in transizione" (EITs) cioè della Federazione Russa e dell’Europa Centrale ed Orientale. Questo gruppo ha emissioni pro capite di gran lunga più elevate di quelle della maggior parte dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) ed ha anche maggiori mezzi per far fronte al cambiamento climatico. Per il "principio di equità" e di "responsabilità comuni ma differenziate", sancito dalla Convenzione, a questi paesi viene richiesto di guidare la modifica dei trends di emissione a lungo termine e di adottare politiche e misure, non legalmente vincolate, finalizzate a riportare entro il 2000 le proprie emissioni di gas serra ai livelli del 1990.
La Convenzione è più flessibile nei confronti degli EITs che, nel 1990, avevano livelli di emissione molto più bassi del normale a causa della crisi sopravvenuta in seguito del cambiamento del sistema economico.
Le Parti dell’Allegato I devono presentare regolari rapporti (National Communications) che descrivano le politiche e le misure da esse messe in atto al fine di affrontare il problema (il termine fissato per la presentazione della III relazione nazionale è fissato al 30 novembre 2001); esse devono, inoltre, presentare una relazione annuale che includa i raffronti tra le emissioni del 1990 e quelle dell’anno trascorso: ciò significa che nel 2002 le Parti dovranno presentare un rapporto di raffronto tra le emissioni del 2000 e quelle del 1990.
Tali rapporti vengono quindi valutati da commissioni di esperti.
Gli ex appartenenti all’OECD (indicati anche nell’Allegato II: Vd tavola sotto), hanno l’obbligo di fornire risorse finanziarie addizionali ai paesi in via di sviluppo, per aiutarli a far fronte al cambiamento climatico e di facilitare il trasferimento di tecnologie amiche del clima dai paesi più avanzati a quelli più arretrati.

Non-Annex I Parties

In questo gruppo sono inclusi principalmente i paesi in via di sviluppo soggetti ad obblighi meno stretti degli altri. Per esempio, la presentazione delle Comunicazioni Nazionali da parte di questi paesi è stata posticipata rispetto a quella prevista per i paesi dell’Allegato I (attualmente più di 50 paesi in via di sviluppo hanno presentato l’anno presentata per la prima volta). Nel 1999, inoltre, è stato creato un Consultative Group of Experts (CGE) che ha il compito di aiutare i paesi di questo gruppo a rendere operativi gli strumenti per la stesura di queste Comunicazioni

Il Protocollo di Kyoto

Per mettere a punto dei meccanismi atti a garantire il rispetto degli impegni presi alla ratifica della Convenzione, le Parti si incontrarono per la prima volta a Berlino nel 1995 (Conference of the Parties: COP 1) dove, in una delibera nota come Berlin Mandate, risultarono d’accordo sulla inadeguatezza degli obblighi fissati alla Convenzione per il gruppo dell’Allegato I. Dopo due anni e mezzo di intensi negoziati, la COP si riunisce a Kyoto per la sua terza Conferenza (COP 3) e, l’11 Dicembre del 1997, adotta il Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo obbliga le Parti dell’Allegato I a rispettare target individuali legalmente vincolanti al fine di limitare o ridurre le proprie emissioni di gas serra. Il Protocollo obbliga le Parti ratificanti a riportare, entro il 2000, le emissioni globali di gas serra ai livelli del 1990 e a ridurle ulteriormente del 5% tra il 2008 e il 2012.
Le quote di riduzione individuale per il gruppo dei paesi industrializzati (fissate nell’Allegato B del Protocollo) vanno dal –8% dell’UE e di altri paesi, al + 10% dell’Islanda (l’UE può ridistribuire la sua quota su tutti i suoi stati membri).
I target coprono le emissioni dei sei principali gas serra:
Il Protocollo introduce anche il concetto di sinks, cioè di s erbatoi per l’Anidride Carbonica; in linea di principio, sono classificabili in questa categoria tutte i processi naturali e le attività umane che promuovono la rimozione di gas serra dall’atmosfera. Tra le attività naturali "serbatoio", al primo posto c’è la fotosintesi che trasforma in biomassa l’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Tutte le variazioni a carico delle emissioni, comprese quelle dovute alla rimozione operata dai sinks, vengono calcolate come un tutto unico indipendentemente dalle cause che le hanno prodotte.
Il Protocollo introduce tre meccanismi innovativi noti come:

  1. implementazione congiunta;
  2. commercio delle emissioni;
  3. sviluppo pulito
Questi meccanismi hanno lo scopo di aiutare le Parti dell’Allegato I a ridurre i costi necessari al raggiungimento dei propri target, in particolare attraverso la compravendita di "quote" di gas serra da quei paesi che hanno già raggiunto e superato i propri target di emissione o che hanno margini d’incremento rispetto agli altri (commercio delle emissioni). Il meccanismo di sviluppo pulito dovrebbe aiutare i PVS nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile, promuovendo gli investimenti eco compatibili dei governi e delle industrie dei paesi sviluppati nelle aree non industrializzate.
Nel 2005 le Parti dell’Allegato I devono aver dimostrato di aver fatto sensibili progressi verso il raggiungimento degli obiettivi cui sono obbligati dal Protocollo I e saranno avviati negoziati sui target per il secondo periodo.
I negoziati per il Protocollo di Kyoto, comunque, avevano lasciato aperta la definizione di moltissimi aspetti di primaria importanza ai fini di un concreto raggiungimento dei suoi obiettivi, aspetti che avrebbero dovuto essere affrontati nel corso dei negoziati successivi.
In particolare non vengono definiti i dettagli operativi relativi al sistema di valutazione del rispetto degli obblighi assunti dai singoli paesi e i provvedimenti da prendersi nei casi di mancato rispetto di tali obblighi (responsabilità penale). Inoltre non viene specificato quali categorie debbano essere associate alle attivià "sink" coperte dal Protocollo. Mancano ancora le linee guida per l’elaborazione dei rapporti annuali presentati dalle Parti e per la loro revisione da parte delle autorità preposte; infine non è affatto chiaro come debba essere trattato il problema della maggiore vulnerabilità dei PVS: alcuni si sentono più vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico, mentre altri si sentono più a rischio relativamente alle sue ripercussioni economiche o alle misure di risposta.

Il Piano d’Azione di Buenos Aires e gli Accordi di Bonn

Nel corso della COP 4, tenutasi a Buenos Aires nel Novembre 98, le Parti hanno adottato il così detto Buenos Aires Plan of Action con lo scopo di mettere appunto un programma di lavoro per risolvere le questioni non definite del Protocollo e di avvantaggiarsi sui problemi operativi fissati dalla Convenzione, tra cui quelli relativi all’assistenza finanziaria ed al trasferimento tecnologico ai PVS. Il termine per i negoziati previsti dal Piano d’Azione erano fissati alla data in cui si sarebbe riunita la COP6 (Aia, novembre 2000) ma, a tale sessione, le parti non sono riuscita a trovare un accordo (Vd capitolo specifico). Esse hanno così deciso di continuare i negoziati convocando COP 6bis (Bonn, luglio 2001), durante la quale, con gli Accordi di Bonn sono giunte ad un accordo sui punti chiave presentati dal Piano d’Azione di Buenos Aires. In particolare sui seguenti:

  1. assistenza finanziaria: con l’accordo di costituire tre nuovi fondi: un fondo speciale di cambiamento climatico e un fondo stabilito dalla Convenzione per i paesi meno sviluppati, un fondo di adeguamento al Protocollo di Kyoto gestito dalla Global Environment Facility che rappresenta l’entità operativa del meccanismo finanziario della Convenzione;
  2. trasferimento tecnologico: con l’accordo di mettere appunto un nuovo Gruppo di Esperti sul Trasferimento Tecnologico;
  3. impatti avversi e misure di risposta dei paesi in via di sviluppo al cambiamento climatico: che include un accordo di assistenza finanziaria indirizzato agli impatti avversi e un obbligo per le Parti dell’Allegati I di riportare gli sforzi fatti per minimizzare tali impatti;
  4. meccanismi del Protocollo di Kyoto: che include un accordo su:
  1. eleggibilità di progetti soggetti ad implementazione congiunta e al CDM;
  2. come rendere operativo l’obbligo imposto dal Protocollo a chè l’uso dei tre meccanismi (implementazione congiunta, commercio delle emissioni e sviluppo pulito) sia supplementare all’azione interna delle singole Parti;
  3. misure per prevenire una vendita eccessiva di quote di emissione attraverso il meccanismo di commercializzazione delle quote e
  4. la composizione del tavolo esecutivo del CDM;
  1. uso del suolo, cambiamenti nell’uso del suolo e forestazione: che include un accordo per espandere la lista delle attività eleggibili a sink e;
  2. rispetto degli obblighi: con il raggiungimento di un accordo sulla struttura istituzionale che soprassiede al rispetto degli obblighi al Protocollo ed alle conseguenze per le Parti che non raggiungono i propri obiettivi
Il Protocollo di Kyoto è stato aperto alle adesioni tra marzo ‘98 e marzo ‘99; in questo periodo è stato firmato da 84 paesi ma, per diventare operativo, esso deve essere ora ratificato (o adottato, o approvato o accettato) da almeno 55 Parti alla Convenzione, incluse quelle dell’Allegato I che contribuiscono alle emissioni totali per il 55%.

Nel Luglio 2001, il Protocollo risultava ratificato da una quarantina di paesi tutti appartenenti alla fascia dei PVS. Delle Parti elencate nell’Allegato I (paesi industrializzati) ha aderito solo la Romania: tutte le altre si sono riservate di farlo entro il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, che si terrà a Joannesburg nel settembre il 2002. Sarà il decimo anniversario dall’adozione e dalla firma della Convenzione.
Intanto la COP 7 che si è riunita a Marrakesh nel novembre 2001, doveva definire le questioni rilevanti ancora aperte ed adottare formalmente il Piano d’Azione di Buenos Aires.

Tabella riassuntiva dei fatti

Data

Evento

1988

Il WMO e l’UNEP fondano l’IPCC.

L’Assemblea Generale dell’ONU affronta per la prima volta il problema del Cambiamento Climatico.

1990

Pubblicazione del Primo Rapporto di Valutazione dell’ IPCC. Appello per il lancio di un round negoziale su un Accordo per il Cambiamento Clamatico.

Ulteriore appello al lancio di negoziati nel corso della Seconda Conferenza sul Clima Mondiale

L’Assemblea Generale dell’ONU apre i negoziati su una disegno di Convenzione sui Clambiamenti Climatici e crea una Commissione Intergovernativa per i Negoziati (INC) deputata a condurli

Febbraio 1991

Primo incontro dell’INC.

9 Maggio 1992

Nel corso della quarta sessione dell’INC, viene adottata a New York la UN Framework Convention on Climate Change

4 Giugno 1992

La Concenzione è aperta alle adesioni nel corso del Summit della Terra di Rio de Janeiro (Brasile) .

21 Marzo 1994

Entrata in vigore della Convenzione.

7 Aprile 1995

La Prima Conferenza delle Parti (COP 1), a Berlino, lancia un nuovo round negoziale "per la creazione di un Protocollo o di un altro strumento legale".

11-15 Dec 1995

L’IPCC approva il suo Secondo rapporto di Valutazione. I suoi risultati sottolineano la neccessità di un’azione politica forte.

19 July 1996

La COP 2, a Geneva, prende nota della Dichiarazione Ministeriale di Ginvra che rappresenta un’ulteriore spinta al processo di negoziato

11 Dec 1997

La COP 3, nel corso del suo incontro a Kyoto, adotta il Protocollo di Kyoto alla UN Framework Convention on Climate Change.

16 March 1998

Il Protocollo di Kyoto viene aperto per le firme al quartiergenerale dell’ONU a New York. Nel corso di un anno viene firmato da 84 paesi.

14 Nov 1998

La COP 4, nel corso del suo incontro a Buenos Aires, adotta il "Buenos Aires Plan of Action" mettendo a punto un programma di lavoro sui dettagli operativi del Protocollo e sulla messa in vigore della Convenzione. Alla COP 6 viene fissato un termine per l’adozione di molte importanti decisioni.

13 ­ 24 Nov 2000

La COP 6 si riunisce a The Hague, ma non riesce a raggiungere un accordo sul pacchetto di decisioni relative al Buenos Aires Plan of Action.

16 ­ 27 July 2001

La COP 6 parte II si riunisce nuovamente a Bonn. Le Parti adottano gli "Accordi di Bonn", e ottengono il consenso sui punti chiave del Buenos Aires Plan of Action. Completano anche i lavori su una serie di decisioni dettagliate, ma alcuni punti rimangono in sospeso.

29 Oct ­ 9 Nov 2001

La COP 7, che si tiene a Marrakesh è volta a finalizzare le decisioni in sospeso della COP 6 parte II, e ad adottare formalmente tutte le decisioni relative al Buenos Aires Plan of Action.

2 ­ 19 Sept. 2002

Sunnit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile

200?

Entrata in vigore del Protocollo di Kyoto?

2005

Le Parti dell’Allegato I devono avere fatto "progressi dimostrabili" nel raggiungimento dei propri impegni soggetti al Protocollo.

Lancio dei dialoghi per gli impegni del round post-2012.

2008-12

Primo periodo di impegni soggetti al Protocollo di Kyoto.

2013-17?

Secondo periodo di impegni?

BIBLIOGRAFIA

  1. D.H. Meadows, D.L. Meadows. Beyond the Limits: global collapse or a sustenable future. Earthscan Publications, 1995.
  2. L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’98. Edizioni Ambiente
  3. L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’99. Edizioni Ambiente
  4. L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’00. Edizioni Ambiente
  5. L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’01. Edizioni Ambiente
  6. H. French. Ambiente e Globalizzazione. Le contraddizioni tra neoliberismo e sostenibilità. Edizioni Ambiente, 2000
  7. G. Moriani. Ecologia Domestica: una guida pratica per il consumatore intelligente. Muzzio Ambiente, 1997

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