LA GLOBALIZZAZIONE
Per cominciare un discorso sulla globalizzazione e sullo
sviluppo sostenibile è necessario, prima di tutto, capire cosa si intende
per "globalizzazione" e per "sviluppo sostenibile".
Succede spesso che le parole nascano prima delle definizioni, direttamente
dall’esigenza di descrivere fenomeni dei quali siamo, nello stesso tempo,
attori e testimoni più o meno consapevoli. Quindi, più che guardare ad
una definizione di "globalizzazione", converrebbe far
riferimento ai grandi cambiamenti, politici, sociali ed economici che
hanno influenzato profondamente la realtà attuale e la storia del
dopoguerra soffermandoci, in particolare, sugli eventi che hanno
caratterizzato gli ultimi vent’anni. D’altra parte non può essere
questa la sede di un tale approfondimento. Mi limiterò, pertanto, ad
una serie di considerazioni generali (quindi, necessariamente riduttive),
considerazioni che dovrebbero trovare una sponda nel programma di storia
moderna e contemporanea del quinto anno ma che spesso, purtroppo, non
arrivano nemmeno ad essere sfiorate.
In primo luogo è essenziale sottolineare che, fino ad oggi, il
processo di globalizzazione si è concretizzato principalmente nell’ambito
dell’economia; la globalizzazione economica ha l’obiettivo prioritario di
promuovere la libera circolazione di merci e di denaro ma non implica
necessariamente una globalizzazione politica.
Il processo di "globalizzazione" è in realtà molto conflittuale.
Lo stesso termine può assumere significati diversi: globalizzazione ad
indicare lo sviluppo delle grandi
corporation e del loro operare
senza confini, al di là di qualsiasi sovranità nazionale; globalizzazione
ad indicare un processo di integrazione sociale e culturale, sostenuto
dalle comunicazioni di massa e da internet; globalizzazione ad indicare
una crescente permeabilità dei confini nazionali all’inquinamento, alle
epidemie, agli spostamenti di popolazione, etc.
Lo stesso termine "globalizzazione" è fonte potenziale di
malintesa valutazione di un fenomeno che si colloca, storicamente e
spazialmente, nel mondo ricco ed industrializzato per poi coinvolgere
anche, attraverso le sue oligarchie sovranazionali, i paesi in via di
sviluppo e quelli del terzo mondo.
Per comprendere la globalizzazione dobbiamo prima di tutto "pensare
globalmente". E’ necessario, cioè, uscire da un’ottica
"occidentocentrica" e assumere il mondo, il "globo",
come uno spazio naturale ed umano profondamente diversificato e poliedrico
del quale la nostra società occupa una nicchia che ha pari dignità di
tutte le altre.
La novità della globalizzazione non è solamente nell’estensione di un
unico sistema economico all’intero globo (mondializzazione del mercato);
la globalizzazione è anche una rivoluzione nell’ambito della produzione
di beni che tende a delocarizzare geograficamente le sue singole fasi e
a prediligere le aree che offrono le migliori condizioni ai fini della
riduzione dei costi; in un’ottica, quindi, di ottimizzazione e
massimizzazione del profitto.
Breve cronologia
Volendo tracciare una sintetica retrospettiva storica del fenomeno della
globalizzazione, dobbiamo tornare almeno al 1971, anno in cui il
Presidente americano Richard Nixon individua nella
liberalizzazione
dei movimenti di capitale il fattore decisivo per l’accelerazione del
processo di globalizzazione economica.
Il 1971 segna anche la fine del così detto "
sistema di Bretton
Woods", nato nel luglio del 1944 per iniziativa di USA e Gran
Bretagna e finalizzato alla costruzione di un
nuovo ordine economico
internazionale. Dagli incontri di Bretton Wood nacquero sia la
Banca Mondiale (BM) che il
Fondo Monetario Internazionale
(FMI), istituzioni sovranazionali create per garantire, rispettivamente,
la stabilità dei tassi di cambio tra le diverse valute e per sostenere
la ricostruzione post-bellica e lo sviluppo dei paesi più arretrati.
La nascita della BM e del FMI rappresenta un punto di svolta, perché
segna l’inizio del processo che tenderà a trasferire la sovranità, in
termini di politica economica e monetaria, dalle singole nazioni ad
istituzioni sovranazionali di fatto egemonizzate dagli USA e dalle altre
nazioni industrializzate.
Nel corso degli incontri di Bretton Wood, USA, Gran Bretagna ed altri
44 paesi ratificarono anche il
GATT (General Agreement on Tariffs and
Trade); questo accordo aveva il fine di favorire una riduzione
progressiva delle esistenti tariffe doganali e di rendere equivalente
il trattamento di tutti i paesi aderenti all’accordo. Ma, nel 1971, le
istituzioni nate a Bretton Wood iniziano a trasformarsi in strumenti che,
con sempre maggiore evidenza, hanno lo scopo di proteggere gli
investimenti dei paesi occidentali nelle altre parti del mondo e, in
seguito, gli interessi degli "investitori globali".
Nel gennaio del 1995, dopo otto anni di trattative portate avanti nel
contesto del
Uruguay Round e del Gatt, nasce l’
Organizzazione
Mondiale per il Commercio (OMC), cioè il WTO
(World Trade Organization), cui aderiscono attualmente 135 paesi che,
complessivamente, rappresentano più dell’85% del commercio globale.
L’OMC si concretizza come la più vasta e potente organizzazione
internazionale con lo scopo di accelerare il processo di globalizzazione
commerciale; secondo la definizione di M. Deaglio (1997), l’OMC in
sostanza rappresenta "
il primo vero elemento dell’economia
globale di mercato".
Il WTO
Con la nascita del WTO la struttura del Gatt si trasforma radicalmente,
a sancire il passaggio da una gestione bilaterale delle controversie sul
commercio mondiale ad una gestione multilaterale garantita da una sede
permanente di gestione dei conflitti e dotata di mezzi per giudicare ed
intervenire sulle controversie tra singoli stati. Infatti, mentre il
Gatt si configurava come un contratto tra Paesi che, tuttavia,
mantenevano il diritto di veto o la possibilità di sottrarsi alle norme
dell’accordo, il WTO è una vera e propria
personalità legale:
come nei casi dell’ONU o della Banca Mondiale, le regole del WTO hanno
carattere assolutamente vincolante per i paesi aderenti all’accordo; il
WTO è un organismo internazionale permanente, guidato da un Segretario e
fornito di proprie
Commissioni per la risoluzione delle vertenze
tra Stati membri, i così detti
Panels.
Ogni Commissione è costituita da esperti commerciali e le Commissioni si
riuniscono per esaminare le imputazioni di violazione, da parte di uno
Stato membro, delle norme sottoscritte con l’accordo. Le riunioni delle
commissioni sono segrete e, pertanto, non è permesso né alla società
civile, né ai suoi rappresentanti di parteciparvi in alcun modo. Se le
commissioni decidono che le leggi promulgate da uno Stato aderente
violano le norme dell’accordo, il WTO può intervenire direttamente
sulle leggi in questione richiedendone l’abrogazione a fronte
dell’applicazione automatica di sanzioni commerciali ed economiche
qualora lo Stato in questione risultasse inadempiente.
Il possesso di questi strumenti legislativi dà al WTO, in particolare
alle sue Commissioni commerciali, un potere esecutivo che si esercita sui
singoli governi in termini fortemente autoritari.
Uno degli impatti più dirompenti della creazione del Wto è quello sui
rapporti tra imprese e stati e, in senso più generale, tra economia e
politica: la regolamentazione sovranazionale di interi pacchetti di
materie - come nei casi delle questioni relative agli investimenti
d’impresa diretti all’estero (Trims) o di tutto ciò che regolamenta il
rapporto tra proprietà intellettuale, brevetti e commercio (Trips)
- ed il loro inserimento sotto la voce &"barriere non
commerciali", impedisce di fatto ai singoli stati di esercitare una
serie di prerogative sovrane e di diritti delle comunità: tali
prerogative includono la possibilità di influire sulle modalità di
intervento delle imprese multinazionali nei singoli territori nazionali,
sullo sfruttamento di particolari risorse, sulle priorità da dare allo
sviluppo produttivo di un paese, sulla libertà di usare le proprie
risorse genetiche naturali trasformate e brevettate dalle multinazionali.
Il WTO stabilisce i tetti per gli standard ambientali, alimentari e di
sicurezza al punto che quelli in vigore nei vari Paesi, qualora risultino
più restrittivi degli standard fissati dall’Organizzazione, possono
essere soggetti al giudizio delle Commissioni; mentre non è possibile che
accada il contrario.
A fronte di un tale quadro, tra l’altro necessariamente parziale, si può
senz’altro affermare che il trattato istitutivo del WTO ha dato
"
forma ad un governo dell’economia globale dominato dai giganti
dell’imprenditoria, senza fornire una parallela normativa giuridica
democratica che ne permetta il controllo" da parte della società
civile attraverso le proprie istituzioni rappresentative.
L’affermarsi della globalizzazione economica ostacola anche i lenti
processi in atto di globalizzazione politica, in particolare nell’ambito
della faticosa ricerca di un equilibrio tra un Nord del mondo sempre più
ricco e sviluppato e un Sud sempre più povero ed arretrato.
La fine di tali processi è sancita all’inizio degli anni ottanta, dalla
cancellazione del tavolo di confronto in sede Onu-Unctad con i paesi del
Gruppo dei 77 sui temi del "nuovo ordine economico
internazionale".
Il Millenium Round
ed il Movimento di Seattle
Il 30 novembre, a Seattle (USA), i ministri del commercio dei 135
paesi aderenti si erano dati appuntamento per la Terza Conferenza
Ministeriale del WTO che doveva avere quale obiettivo il lancio di
un nuovo Round negoziale, il così detto Millenium Round,
finalizzato alla costruzione di un mercato globale basato sul primato
della libertà di commercio: ovvero all’adozione di una serie di norme
che, di fatto, avrebbero ulteriormente limitato la sovranità nazionale
degli Stati membri nell’ottica di "promuovere" le regole del
liberismo commerciale.
Tra gli accordi più discutibili che il
Millenium Round aveva
nella sua agenda c’erano quello sull’Agricoltura, sulla Spesa Pubblica
e sulla Salute; quest’ultimo avrebbe di fatto obbligato i paesi membri
a non proibire, per esempio, l’importazione di carne ormonata e di
alimenti geneticamente modificati. In forte contrapposizione con accordi
che li avrebbero ulteriormente penalizzati, anche aiutati dalle
contemporanee manifestazioni del
popolo di Seattle, i
delegati dei Paesi in Via di Sviluppo (Africa, Caraibi ed America Latina)
hanno abbandonato il tavolo delle trattative, disgustati dal modo in
cui i Paesi più forti stavano gestendo la conferenza .
La Conferenza di Seattle voleva anche tentare il rilancio del
M.A.I. (Multilateral Agreement on Investiments), considerato uno
dei pilastri dell’economia mondiale.
Il M.A.I. è un accordo estremamente contestato, e non
solo dal popolo di Seattle; lo stesso Parlamento Europeo, con una
risoluzione adottata nel marzo 2000, chiedeva agli Stati membri dell’UE
di respingerlo almeno nella sua formulazione attuale. Tra le altre cose,
il M.A.I. abolisce ogni vincolo residuo all’azione delle multinazionali
e prevede che un’impresa possa citare in giudizio quei governi la cui
legislazione sia ritenuta troppo restrittiva o di ostacolo alla propria
libertà di profitto.
Per dare un’idea di cosa questo significhi tutto questo, facciamo un
esempio: immaginiamo che un parlamento promulghi delle leggi che vietino
l’importazione di prodotti ritenuti pericolosi per la salute umana o
per l’ambiente, o che salvaguardino in altri modi l’ambiente o, anche,
che difendano i diritti dei lavoratori. Sotto il M.A.I., una qualsiasi
multinazionale che operi in un regime legislativo nazionale e che veda
in queste leggi una limitazione alle proprie attività economiche,
finanziarie o commerciali, potrebbe fare ricorso contro questo o
quell’altro paese citandolo in giudizio presso una corte del WTO e
costringendolo, in caso di giudizio favorevole, ad abrogare queste
leggi (pena l’entrata in vigore di pesanti sanzioni commerciali).
La multinazionale, in questo modo, potrebbe avere il via libera per
vendere eventuali prodotti nocivi, per insediare eventuali attività
commerciali ad elevato impatto ambientale, per imporre condizioni
di lavoro in palese violazione con i diritti nazionali dei lavoratori.
Regole di mercato e salute: il caso della "carne agli ormoni"
Se questo può sembrare incredibile, va sottolineato
che qualcosa del genere, in realtà, si è già verificato.
Il primo gennaio 1989, l’Unione Europea proibì la somministrazione ai
bovini
di ormoni della crescita dopo aver rilevato che
interferivano con il normale sviluppo delle caratteristiche sessuali
secondarie degli individui in età preadolescenziale; il divieto
riguardava sia il loro utilizzo a livello di produzione nazionale che
la loro importazione da Paesi terzi, molti dei quali utilizzano ancora
attualmente queste sostanze. Nel quadro degli accordi del WTO,
Stati Uniti e Canada hanno potuto contestare formalmente il divieto
imposto dalla UE sulle loro esportazioni di carne e prodotti derivati
da animali trattati con ormoni, ottenendo che l’Europa andasse soggetta
a sanzioni commerciali su una serie di prodotti, per un valore
complessivo di 124 miliardi di dollari.
Intanto, il Comitato Scientifico della VI Commissione (Agricoltura), ha
raccolto ulteriori prove della nocività degli ormoni promotori della
crescita, in particolare relativamente a 6 di quelli utilizzati per la
produzione di carne (17 beta estradiolo, progesterone, testosterone,
zeramolo e due acetati), verificando il loro impatto sul sistema
endocrino e sullo sviluppo, nonché sul sistema immunitario, nervoso e
riproduttivo. In particolare il 17 beta estradiolo è stato identificato
come agente cancerogeno completo, mentre altri sono stati identificati
come induttori potenziali, più o meno potenti, del cancro. I gruppi più
a rischio della popolazione sono i bambini e i ragazzi fino alla pubertà.
Sulla base di queste conclusioni, l’UE ha deciso di non modificare le
norme che proibiscono l'importazione di carni ormonate dagli USA e dal
Canada che hanno reagito contestando le conclusioni e chiedendo al WTO
l’autorizzazione ad applicare pesanti misure di ritorsione commerciale
relativamente ad un danno stimato in 202 milioni di dollari. Tra i
prodotti italiani colpiti da questa forma di "embargo" c’è,
per esempio, il tartufo; l’embargo sul Roquefort prodotto in Francia è
stato tra i principali catalizzatori delle stesse manifestazioni di
Seattle.
Le trattative per l’introduzione del M.A.I. sono partite in gran
segreto nel 1995 e sono state scoperte e diffuse solo all’inizio
del 1997.
Il mondialismo
Il processo di globalizzazione, di cui si sono considerate le tappe
più generali, non può realizzarsi pienamente senza coinvolgere anche il
piano politico e culturale. In questa sua accezione più ampia, la
globalizzazione si identifica con il processo che è stato chiamato
anche Mondialismo.
Il mondialismo è un indirizzo culturale, sociale e politico che ambisce
alla creazione di un unico governo, o amministrazione, mondiale
(il così detto
Nuovo Ordine Mondiale), di un unico sistema di
valori e, quindi, di un unico insieme di costumi e stili di vita, q
uelli consumistici, funzionale al principio della
crescita economica.
E’ un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso l’appiattimento
delle differenze - etniche, culturali, religiose e politiche - tra diversi
popoli della terra. E non è un caso che il principale "prodotto" esportato dagli USA nel mondo, dal dopoguerra ad oggi, sia stato il proprio modello culturale e sociale, il così detto
american way of life.
Con la fine del bipolarismo e dei regimi comunisti
dell’Unione Sovietica e dell’Europa sono venuti meno i residui ostacoli,
politici ed ideologici, all’affermazione mondiale dell’economia di mercato. E il pensiero unico, universale e liberista, si è diffuso attraverso i mass media in ogni parte del globo, ma in modo più sistematico in Europa: i concetti di "libero mercato" e di "crescita economica" hanno assunto la forma di verità prioritarie rispetto ad ogni considerazione sulla necessità di anteporre ai loro obiettivi la tutela dei diritti umani e dell’ambiente.
E, a questo punto, è bene sottolineare che né la
globalizzazione, né la mondializzazione appartengono alla "logica
delle cose", che esse non sono affatto un processo inevitabile a cui
ci si deve rassegnare come ad una irrevocabile realtà divina.
Sia la globalizzazione che il mondialismo sono il frutto dell’attività
pratica e deliberata di uomini in carne ed ossa e di organizzazioni che
hanno nomi e sedi legali.
Per quanto possa sembrare strano, certi processi
hanno bisogno di un ambiente psicologico e culturale favorevole per
potersi sviluppare; questo giustifica e rende immediatamente
comprensibile la centralità del ruolo culturale assunto dai mass
media nel corso degli ultimi decenni. Ed anche il dissolversi dei
vincoli di solidarietà nazionale, degli aspetti caratteristici
delle culture locali tradizionali, la perdita del sentimento di
continuità generazionale e del senso di appartenenza ad una
comunità e, quindi, della propria responsabilità individuale nel
contesto delle relazioni sociali, possono essere interpretate come
uno degli effetti dell’impatto che la globalizzazione ha avuto
sulla nostra società.
APPROFONDIMENTO
http://www.msf.it/farmaci/problemi/omc.htm
Campagna
Farmaci di Medici Senza Frontiere – MSF
Gli accordi TRIPS dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)
L’Organizzazione mondiale del Commercio (OMC), fondata nel
1995, regola il brevetto dei prodotti e dei processi di fabbricazione,
per impedire il commercio di beni contraffatti.
L'accordo del 1996 sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale
- TRIPS (Trade-Related Aspects off Intellectual Property Rights) –
riguarda anche i farmaci: si vieta la produzione locale e si vincolano
importazione, uso e vendita all’autorizzazione del titolare del
brevetto.
Una parziale eccezione è garantita dall’articolo 30 che consente le
importazioni parallele, per ragioni di salute pubblica e per
periodi di tempo limitati: se un prodotto brevettato costa 100 dollari
nel paese A e 80 nel paese B, A può importare da B senza chiedere il
consenso del detentore del brevetto.
Gli accordi TRIPS non contengono clausole che garantiscono fondi per la
ricerca farmaceutica tropicale e prezzi realistici per i farmaci
salvavita.
I paesi industrializzati si sono adeguati immediatamente (1997) a tali
norme, mentre ai Paesi in via di Sviluppo è stato concesso tempo fino
al gennaio del 2000, e un periodo di transizione fino al 2005,
che si allunga al 2008 per i 48 paesi più poveri.
Chi non rispetta le regole incorre in sanzioni commerciali.
L’accordo TRIPS ha diverse conseguenze:
- il monopolio produce una crescita del costo dei farmaci,
che a sua volta implica una disponibilità insufficiente nei paesi poveri;
- i produttori locali che vorranno fabbricare e commercializzare beni
brevettati sono costretti a pagare licenze costose;
- le attività locali di ricerca e sviluppo di farmaci generici
vengono disincentivate: il brevetto dura venti anni, e dopo la scadenza
il mercato è nelle mani di chi lo ha a lungo occupato monopolisticamente;
- la crescita industriale e tecnologica locale non viene
sostenuta, poiché il titolare del brevetto non è tenuto a produrre i
farmaci in loco.
Agli accordi TRIPS hanno fatto seguito prospettive di peggioramento
ulteriore, chiamate TRIPS +, con l’obiettivo di
- proteggere nuovi usi del farmaco;
- estendere il periodo di vigenza del brevetto;
- limitare l’uso governativo delle licenze;
- rendere illegittime le
licenze
obbligatorie
.
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Approfondimenti ulteriori
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SVILUPPO SOSTENIBILE E CRESCITA DELLA POPOLAZIONE MONDIALE:
IL CASO IRANIANO DELLA POLITICA DI PIANIFICAZIONE FAMIGLIARE
NEWS FROM EARTH POLICY INSTITUTE.
Eco-Economy Successes & Setbacks
Copyright 2001 Earth Policy Institute
For Immediate Release
December 28, 2001
IL TASSO SI NASCITE DELL'IRAN SI ABBASSA A TEMPO DA RECORD
Un successo che fornisce un modello per altri Paesi in Via di Sviluppo
di
Janet Larsen
(Traduzione a cura di P. Capozzi)
Il tasso di crescita della popolazione iraniana è sceso
costantemente dal 3,2% del 1986 ad appena l'1,2% del 2001. Nel ridurre il
proprio tasso di crescita all'1,2%, un tasso leggermente più elevato di
quello che si registra negli USA, l'Iran ha fatto di sè un modello per
altri paesi che vogliono accelerare la transizione verso famiglie più
ristrette.
Storicamente la pianificazione famigliare in Iran ha avuto i suoi alti e
bassi. La prima politica di pianificazione familiare della nazione,
introdotta nel 1967 sotto Shah Reza Pahlavi, aveva lo scopo di accelerare
la crescita economica, di migliorare lo stato delle donne, attraverso la
riforma delle leggi sul divorzio, e di accostare la pianificazione
famigliare ad un diritto umano.
Sfortunatamente questa promettente iniziativa venne fermata nel 1979,
con l'inizio della Rivoluzione islamica, durata una decina d'anni e
guidata dallo Shiite Muslim, il leader spirituale Ayatollah Khomeini.
Nel corso di questo periodo, i programmi di pianificazione famigliare
furono interpretati alla luce di una indebita influenza occidentale e
smantellati. Nel corso della guerra Iran-Iraq (1980-1988) una
popolazione numerosa fu vista come vantaggio comparativo e Khomeini
spinse alla procreazione col fine di creare le nuove fila di "soldati
per l'Islam" e con l'intento di "un esercito di 20 milioni".
Questa decisa scelta a favore delle nascite portò il tasso di crescita
ben oltre il 3%. I dati dell'ONU illustrano il raddoppiamento della
popolazione iraniana da 27 milioni del 1968 ai 55 milioni del 1988
(Vd figura
http://www.earth-policy.org/Success/SS1_data.htm.)
Nel corso della ricostruzione post bellica, nei tardi
anni 80, l'economia ristagnava. Gravi carenze occupazionali pesavano
sulle città sovrappopolate ed inquinate. La rapida crescita della
popolazione iraniana, alla fine, comincia ad essere vista come un
ostacolo allo sviluppo. Ricettivo verso i problemi nazionali,
l'Ayatollah Khomeini riapre il dialogo sul soggetto del controllo delle
nascite. Dal dicembre 1989, l'Iran ha rivisto il suo programma di
pianificazione familiare. I principali scopi sono di incoraggiare
le donne ad aspettare tre-quattro anni tra una gravidanza e l'altra,
di scoraggiare i parti delle donne più giovani di 18 anni o più anziane
di 35 e di limitare la dimensione familiare ad un massimo di tre
bambini.
A maggio del 1993, il governo iraniano ha fatto passare una legge di
pianificazione familiare nazionale che incoraggia le coppie ad avere
meno figli attraverso la restrizione, ad un numero massimo di tre figli,
dei benefici dovuti alla maternità . Essa, inoltre, fa appello ai ministri
dell'educazione, della cultura e dell'educazione superiore, della salute
e dell'educazione medica, a raccogliere informazioni sulla popolazione,
sulla pianificazione familiare e sulla tutela della salute dell'infanzia.
E' stato commissionato al ministro dell'Islamic Culture and Guidance di
far sì che i media diffondessero consapevolezza sulle questioni relative
alla popolazione e sui programmi di pianificazione familiare mentre è
stata data la responsabilità di diffondere tali informazioni all'Islamic
Republic of Iran Broadcasting . Il denaro risparmiato grazie alla
riduzione di maternità è stato destinato a fondi per il finanziamento
di programmi educativi.
Tra il 1986 e il 2001, la fertilità totale (cioè il numero medio di
bambini messi al mondo da una donna nel corso della sua vita media), è
caduto da sette a meno di tre. L'ONU stima che, entro il 2010, la
fertilità totale scenderà a due, valore che rappresenta la fertilità
al livello di sostituzione (nascite = morti)
Il solido appoggio del governo ha facilitato la transizione demografica
iraniana. Sotto l'attuale presidente, Mohammad Khatami, il governo copre
l'80% dei costi per la pianificazione famigliare. Una rete generalizzata
per la salute, formata da strutture di cura mobili e 15.000 "case di
salute", fornisce pianificazione familiare e servizi per la salute ai
quattro quinti della popolazione rurale dell'Iran. La quasi totalità di
questi centri per la cura della salute è stata costitutuita dopo il 1990.
Dato che la pianificazione familiare è integrata con la cura della salute
di base, intorno ai moderni contraccettivi è stata vinta quasi ogni
resistenza.
I capi religiosi sono stati coinvolti nella crociata a favore delle
famiglie di piccole dimensioni citandole, nei loro sermoni settimanali,
tra le responsabilità sociali. Hanno inoltre fatto circolare fatwas,
editti religiosi vincolanti come sentenze giudiziarie, che permettono
ed incoraggiano l'uso di ogni tipo di strumento contraccettivo, inclusa
la sterilizzazione permanente degli uomini o delle donne - un primato
nel mondo musulmano. Il controllo delle nascite, inclusa la fornitura di
preservativi, pillole anticoncezionali e sterilizzazione, è gratuito.
Uno dei poteri della promozione della pianificazione familiare in Iran,
è il coinvolgimento degli uomini. L'Iran è l'unico paese al mondo che
obbliga sia gli uomini che le donne a frequentare un corso sulla moderna
contraccezione, senza il quale la coppia non piò ottenere la licenza di
matrimonio. Ed è l'unico paese nella regione con un'industria di
preservativi autorizzata dal governo. Nei quattro anni passati, circa
220.000 uomini iraniani hanno fatto una vasectomia. Anche se le
vasectomie rappresentano appena il 3% della contraccezione, comparate
con la sterilizzazione femminile che pesa per il 28%, gli uomini stanno
cominciando ad assumersi, in ogni caso, una responsabilità maggiore
nell'ambito della pianificazione familiare.
L'aumento dell'alfabetizzazione e delle infrastrutture di comunicazione
nazionale sta facilitando i progressi della pianificazione familiare. Il
tasso di alfabetizzazione dei maschi adulti è aumentato dal 48% del 1970
all'84% del 2000, quasi raddoppiando in 30 anni. L'alfabetizzazione
femminile è aumentata anche più rapidamente, passando da meno del 25% a
più del
70%. Allo stesso tempo, la scolarizzazione è passata dal 60 al 90%. E,
dal 1996, nel 70% delle case di campagna e nel 93% degli appartamenti
urbani è presente un televisore che permette alle informazioni relative
alla pianificazione familiare di diffondere ampiamente attraverso i
media.
Per l’essere uno tra i 17 paesi che stanno già facendo fronte ad una
assoluta scarsità d'acqua, la decisione dell'Iran di frenare la propria
rapida crescita demografica ha aiutato ad alleviare gli effetti della
carenza d'acqua esacerbata dalle gravi siccità degli ultimi tre anni:
una popolazione stimata di 37 milioni di persone, più della metà della
popolazione totale, non ha acqua a sufficienza. La scarsità d'acqua per
l'irrigazione ha spinto l'Iran ad aumentare le proprie importazioni di
grano a 6,5 milioni di tonnellate nel 2001, ben al di sopra delle 5,8
milioni di tonnellate del Giappone che rappresenta, per tradizione, il
maggiore importatore mondiale. La produzione totale di sementi è caduta
rapidamente tra il 1998 e il 2000, da 17 milioni di
tonnellate a 10 milioni di tonnellate, soprattutto a causa della siccità.
L'area di raccolto delle sementi è rapidamente diminuita a partire dal
1993, limitando rapidamente la produzione pro capite.
La diminuzione della terra arabile pro capite e delle forniture d'acqua,
rinforza la necessità di una stabilizzazione della popolazione attraverso
programmi ponderati di pianificazione familiare. Se la popolazione
iraniana avesse mantenuto il tasso di crescita del 1986, del 3,2%,
sarebbe raddoppiata entro il 2008, raggiungendo i 100 milioni invece
dei programmati 78 milioni.
Dato che quasi il 40% della popolazione iraniana è al di sotto dei 15
anni, l'impulso alla crescita della popolazione è ancora forte e tale
crescita, nell'immediato futuro, sarà inevitabile. Per mantenere bassi
i tassi, l'Iran ha bisogno di enfatizzare continuamente il valore sociale
delle famiglie di piccole dimensioni.
Tra le chiavi della transizione della fertilità in
Iran, ci sono l'accesso universale alla cura della salute ed alla
pianificazione familiare, un drammatico aumento dell'alfabetizzazione
femminile, consultori contraccettivi prematrimoniale obbligatori per le
coppie, partecipazione maschile ai programmi di pianificazione familiare
e forte appoggio da parte dei leaders religiosi. Se le politiche per la
popolazione e le infrastrutture per il sostegno della salute sono
caratteristiche uniche dell'Iran, la sua scarsità di terra e di acqua
non lo sono affatto. Molti paesi in Via di Sviluppo con popolazioni in
rapida crescita possono trarre profitto dalla capacità dell'Iran nel
promuovere la stabilità della popolazione.
Additional data and information sources at
http://www.earth-policy.org
NATURA SOTTO ASSEDIO
Se l’economia vanta record senza precedenti, la perdita di specie
viventi degli ultimi decenni raggiunge livelli paragonabili all’estinzione
di massa del Cretaceo (65 milioni di anni fa: estinzione dei dinosauri).
La globalizzazione è un potente motore di un’erosione biologica senza
precedenti, ma le nuove regole dell’economia globale poco si curano di
quanto sta avvenendo.
Eppure gli esseri umani continuano a dipendere essenzialmente dal
mondo naturale dei cui servizi non ha mai tenuto conto in modo
opportuno. Nel 1997 un gruppo di esperti provò ad attribuire un
valore economico ad una serie di funzioni svolte dai principali
ecosistemi: gli autori giunsero a stimare il valore di queste
"prestazioni naturali" in 33.000 miliardi di dollari l’anno,
una cifra quasi equivalente al PIL annuale mondiale.
A dispetto di questo, gli ecosistemi degenerano ad un ritmo inaudito.
Un modo semplice per valutare tali perdite è quello di stimare la
velocità con cui si estinguono specie viventi: i biologi avvertono
che un quinto delle specie animali e vegetali è destinato a sparire nei
prossimi 30 anni. Un altro modo per valutare il degrado è di stimare
la velocità di trasformazione degli ecosistemi naturali in aree destinate
ad uso umano (coltivazioni, pascoli, insediamenti umani, infrastrutture
etc): paesi come l’Argentina, l’Australia, il Messico, l’India, il
Sud Africa e la Spagna, hanno già convertito in questo modo più della
metà del proprio territorio.
In Occasione della Conferenza di Rio (1992) 175 paesi
(con l’astensione degli USA) si sono impegnati a fermare il depauperamento
delle risorse naturali firmando la Convenzione sulla Biodiversità.
Tra le altre cose, i paesi s’impegnano a salvaguardare la biodiversità,
ad istituire aree protette, a ripristinare gli habitat deteriorati e a
distribuire equamente i benefici derivanti dallo sfruttamento delle
risorse genetiche.
Purtroppo, a differenza delle ben definite regole del WTO, nella CBD ci
sono ben poche indicazioni concrete su come attuare tali obiettivi e
nessun meccanismo di controllo che garantisca la realizzazione degli
obiettivi e che sancisca pene per chi infrange gli obblighi della
convenzione.
NEWS dallo EARTH POLICY INSTITUTE
Eco-Economy Update 2002-3 For Immediate Release
March 5, 2002
http://www.earth-policy.org/Updates/Update7.htm
di
Janet Larsen
traduzione a cura di;
P. Capozzi
Dopo più di un secolo in cui non sono note estinzioni a carico dei
primati, gli scienziati hanno recentemente confermato l'estinzione di
una sottospecie di scimmia dell'Africa Occidentale. La perdita di questa
scimmia, conosciuta col nome di colobus rosso di Miss Waldron, può essere
un presagio delle future perdite dei nostri più vicini parenti evolutivi.
Delle di circa 240 specie di primati conosciuti, 19 sono drammaticamente
in pericolo, cioè un numero maggiore delle 13 contate nel 1996. Questa
classificazione si riferisce a specie che hanno sofferto riduzioni estreme
e rapide a carico delle loro popolazioni o del proprio habitat.
Il numero di individui rimasti va da meno di poche centinaia a, al
massimo, a poche migliaia. Se le loro popolazioni continuano a
restringersi seguendo i ritmi recenti, alcune specie non sopravviveranno
a questa decade.
Stando alla Lista Rossa 2000 IUCN delle Specie in Pericolo redatta dalla
World Conservation Union tra queste specie sono incluse 8 scimmie
originarie delle foreste pluviali Atlantiche del Brasile,
area in cui è andato perduto il 97% dell'area forestale, 2 primati e
scimmie dell'Indonesia, 3 scimmie del Viet Nam, 1 del Kenya e 1 del
Peru, e 3 specie di lemure originarie del Madagascar. Al livello di
pericolo, il secondo grado di rischio nella classifica dello IUCN,
ci sono 46 specie di primati, rispetto alle 29 del 1996. Queste specie
hanno una probabilità di estinzione molto elevata, alcune nell'arco
dei prossimi 20 anni. Ulteriori 51 specie, sono catalogate
come vulnerabili. Questi primati hanno popolazioni leggermente più
numerose ma potrebbero comunque estinguersi nel corso di questo secolo.
Nel complesso le specie estremamente a rischio, a rischio e vulnerabili
assommano a 116, ovvero rappresentano quasi la metà delle circa 240
specie di primate che popolano il pianeta.
(See table
http://www.earthpolicy.org/Updates/Update7.htm)
Sul finire dell'ultima Era Glaciale, 10.000 anni fa, il numero di
babbuini era almeno il doppio di quello degli esseri umani. Se tutte
le popolazioni di primati non-umani fossero conteggiate insieme,
includendo le grandi popolazioni di alcune specie più piccole,
esse sovrasterebbero la popolazione umana. Ma adesso qualcosa è
cambiato. Lo sviluppo dell'agricoltura a determinato una rapida
crescita della popolazione umana e, circa 2000 anni fa, gli uomini,
che ammontavano a 300.000, divennero il gruppo più numeroso tra i
primati. Dal 1930, la popolazione umana di 2 miliardi di persone
ha, probabilmente, superato numericamente tutti gli altri primati
sommati insieme.
Oggi, che siamo 6,1 miliardi in aumento, stiamo mettendo a rischio
la sopravvivenza di molti dei nostri cugini primati, inclusi i nostri
più vicini parenti ancora in vita, gli scimpanzè ed i babbuini, che
condividono con noi il 98% del proprio genoma. Anche le altre scimmie
sono abbastanza vicine a noi, non solo geneticamente ma anche nei
comportamenti osservati. E con i 300.000 bambini che nascono ogni
giorno, un numero che supera quello relativo alle
popolazioni delle grandi scimmie antropomorfe, questa vicinanza evolutiva
potrebbe non essere sufficiente ad impedirci la distruzione dei nostri
parenti prossimi.
Mentre gli uomini oggi abitano quasi ogni angolo del pianeta, la maggior
parte degli altri primati mostrano un forte endemismo, cioè sono
limitati ad una zona particolare. Almeno i tre quarti di tutti i primati
vive in appena 4 paesi: Brasile, Repubblica Democratica del Congo
(precedente Zaire), Indonesia e Madagascar. In ciascuno di questi paesi,
la copertura forestale sta diminuendo e, dato che le perdite relative
all'habitat sono un rischio per il 90% delle specie in pericolo, la
loro concentrazione in un numero così ristretto di paesi aumenta la
loro vulnerabilità. In Indonesia, molte foreste e habitat selvatici
hanno sofferto a causa dei tagli alimentati dalla corruzione e
dall'instabilità politica. Nel corso dello scorso decennio i tassi
di deforestazione sono raddoppiati raggiungendo quasi 2 milioni di
ettari all'anno.
Con il raddoppio dei tassi di deforestazione il numero di orangutan
è diminuito della metà.
Entro il 2005 il paese perderà tutte le foreste che si trovano nelle
parti basse di Sumatra portando all'estinzione, tra le altre specie,
dell'Orangunan di Sumatra a rischio critico. L'Orangunan del Borneo,
dopo aver sofferto per i tagli, la caccia e i catastrofici incendi del
1997, è probabilmente destinato a scomparire entro il 2010, se i trend
attuali si mantengono costanti. Uno dei nostri più vicini parenti, il
bonobo, è endemico del Congo, un paese tormentato dalla guerra civile e
dall'occupazione da parte di eserciti stranieri e gruppi ribelli.
Insieme a molti altri primati che abitano questa regione, il bonobo a
riproduzione lenta ha visto un proprio rapido declino: nel 1980 la
sua popolazione contava circa 100.000 individui, oggi non ne conta più
di 10.000.
Anche se la guerra civile ha generato milioni di rifugiati e può aver
aumentato la domanda di carne originata da animali selvatici, il pur
lento sviluppo economico del Congo avrebbe potuto rallentare il taglio
delle foreste che, complessivamente, in questo paese, rappresentano la
metà del patrimonio forestale tropicale rimasto nel continente.
Se ritornasse la stabilità politica, il taglio degli alberi potrebbe
aumentare di diverse volte nei prossimi anni, accelerando ciò che
potrebbe essere la prima grande estinzione di scimmie antropomorfe.
Le popolazioni di Gorilla hanno raggiunto livelli pericolosamente bassi,
soprattutto a causa della caccia che alimenta il commercio illegale di
carne. Esistono ancora meno di 325 gorilla di montagna e si trovano tutti
in sottopopolazioni che vivono tra il Rwanda, il Congo e l'Uganda. Il
più raro, il Cross River Gorilla, conta appena 150-200 individui dispersi
tra diverse subpopolazioni viventi nella regione di confine tra il
Cameroon e la Nigeria. In alcune zone dell'Africa Occidentale e Centrale,
la caccia è un pericolo maggiore della perdita di habitat. Il mercato
della carne, rappresentato principalmente da antilopi di foresta, maiali
e primati, ha un valore superiore a 1 miliardo di dollari all'anno.
Nelle aree in cui la confusione sociale ha subissato le attività
economiche tradizionali e in cui il reddito medio annuo della famiglia è
inferiore a 100 dollari, la tentazione di poter guadagnare da 300 a 1000
dollari all'anno facendo il cacciatore è stata per molti troppo forte.
Le compagnie di taglio e, in misura minore, quelle minerarie, sono
penetrate nelle foreste con i loro insediamenti che aumentano la
domanda di cacciagione mentre le strade facilitano la caccia. Comunque
a caccia intensa non è proficua sul lungo periodo, perchè le popolazioni
selvatiche, soprattutto quelle dei grandi primati a lento tasso
riproduttivo, vengono rapidamente decimate. Più di 1 milione di
tonnellate di cacciagione vengono consumate ogni anno in Congo,
quasi 6 volte di più di quanta la foresta ne produce in modo
sostenibile.
La caccia a fini commerciali ha svuotato foreste che erano piene di
animali. Anche se le comunità rurali hanno a lungo basato la propria
sussistenza sulla cacciagione e su altri prodotti di origine forestale,
ottenendo dalla cacciagione più del 60% del loro fabbisogno proteico,
la maggior parte della cacciagione viene attualmente consumata nelle
città. Quasi la metà delle 30 milioni di persone che vivono nelle regioni
forestali dell'Africa Centrale, sono residenti urbani che vengono
alimentati con cacciagione proveniente da popolazioni selvatiche
sull'orlo del collasso. Mentre le città crescono e la caccia aumenta,
si stima che questa possa eliminare tutta la popolazione vivente di
scimmie africane in meno di 20 anni.
Per prevenire che gli altri primati si estinguano in ciò che viene
considerata il sesto evento principale di estinzione di massa nella
storia evolutiva del pianeta, sono necessarie risorse per impedire il
taglio e la caccia illegale. Il taglio illegale ha distrutto vaste
fette dell'habitat originario dei primati, La maggior parte della
cacciagione viene da aree protette e il commercio internazionale di
primati è già stato reso illegale dalla Convenzione sul Commercio
Internazionale delle Specie a Rischio (Convention on International
Trade in Endangered Species). Ma, quando la messa in atto delle leggi
è carente, le pratiche illegali sono destinate a continuare.
Grandi blocchi di aree biologicamente ricche possono essere convertiti
in nuovi parchi che tengano conto dei bisogni della vita selvatiche e
di quelli delle popolazioni umane. L'ecoturismo può essere usato per
sostenere la conservazione dei primati e i cacciatori possono trovare
nel lavoro di protezione dei parchi un'utile alternativa alla loro
attività, una volta che abbiano realizzato che gli animali vivi possono
avere un valore maggiore di quelli morti.
Capire meglio noi stessi, la nostra biologia, la nostra psicologia e
sociologia, dipende in parte dal capire meglio i nostri più vicini
parenti viventi. Se li distruggiamo, potremmo non arrivare mai a
intuire veramente chi siamo.
Additional data and information sources at
http://www.earth-policy.org
Nelle foreste abita più della metà di tutte le specie della terra.
Le foreste inoltre, svolgono importanti funzioni nell’assestamento
idrogeologico dei territori, nella regolazione del clima globale.
Eppure sono andate perdute quasi la metà delle foreste che, un tempo,
coprivano la Terra e, ogni anno, se ne vanno circa 14 milioni di
ettari di foresta tropicale: un’area che è tre volte più grande del
Costa Rica.
Il commercio del legname non è l’unica causa del declino delle foreste.
Ad esso si associa il disboscamento per scopi agricoli e di allevamento,
il prelievo di legname per usi domestici e come combustibile.
L’attrazione verso la partecipazione ai mercati internazionali, fa si che
molti paesi ricchi di risorse forestali
esportino quantità di
legno molto superiori a quelle utilizzate internamente. Questo è il
caso di Camerun, Canada, Gabon e Papua Nuova Guinea. Ma anche di
Indonesia e Malysia la cui esportazione complessiva, tra il 1975 e
il 1998, è passata da 233.000 a 12 milioni di metri cubi di legno
destinato al mercato del compensato.
Lo sfruttamento commerciale rappresenta il principale pericolo per
le foreste più ricche di risorse biologiche, soprattutto quelle vergini
dell’Alaska, del Canada, della Russia, del Bacino Amazzonico e della
Guyana. Il commercio mondiale di prodotti forestali, tra il 1961 e
il 1998 è più che triplicato. I paesi industrializzati fanno la parte
del leone, coprendo circa l’80% del valore complessivo delle
esportazioni e delle importazioni ma, negli ultimi anni, il Brasile,
l’Indonesia e la Malaysia sono entrati nella top-ten dei paesi
esportatori di legno contribuendo, da soli, a quasi il 40% della
contrazione del patrimonio forestale mondiale (36% nella prima metà
degli anni ’90).
A questi dati vanno associati quelli, ignoti, del traffico illegale che
copre una quota altrettanto grande.
Da diversi anni, le grandi aziende europee, americane, giapponesi
dell’Indonesia e della Malaysia hanno comprato i diritti di abbattimento
su grandi superficie di foresta primaria in Africa, Asia, Nord e Sud
America, spesso a pressi decisamente inferiori al loro valore c
ommerciale, per non parlare di quello ecologico. Alcune di queste
aziende vantano primati nell’elenco dei disastri ambientali e di
corruzione, che non lasciano presagire niente di buono.
La tragica relazione tra globalizzazione e perdita di biodiversità non è
necessariamente irreversibile. Un approccio particolarmente promettente
è quello che punta a sfruttare il potere dei consumatori favorendo un
cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della questione ambientale.
Negli ultimi anni le iniziative finalizzate a rendere più sostenibile
l’industria del legname, ad esempio attraverso programmi di certificazione
e di eco-labeling, sono notevolmente aumentate e, benchè il legname
certificato rappresenti ancora oggi una piccola quota della produzione
totale, la richiesta sta crescendo così come le aree che chiedono e
ottengono la certificazione.
Un’altra strategia che salvaguardia la foresta e le popolazioni che la
abitano, è la promozione del commercio di prodotti forestali non
lignei, come il rattan (steli di palma utilizzati per fabbricare
mobili e oggetti in vimini), caucciù e spezie.
Il turismo controllato è uno strumento utile per convogliare denaro
nella conservazione degli ecosistemi, ma la sua notevole crescita ha
creato problemi di gestione e, spesso, ha convogliato le risorse locali
nelle tasche di investitori stranieri.
La rapida crescita della circolazione di persone e merci in tutto il
mondo ha offerto mezzi di trasporto efficienti anche a migliaia di
specie animali e vegetali che, adesso, stanno mettendo radici fuori dai
loro territori originari. Questa esplosione del trasferimento di
organismi e microbi è un fattore di rischio per la biodiversità del
pianeta e per la nostra salute.
Il processo attraverso cui una specie esterna colonizza un ambiente
diverso da quello in cui vive normalmente, è detto bioinvasione.
Le specie esotiche mettono a rischio circa il 20% dei vertebrati e,
negli USA, questa minaccia arriva al 50%.
Le specie acquatiche si diffondono soprattutto grazie all’acqua di
zavorra delle navi che operano su rotte internazionali: queste portano a
spasso per il mondo circa 10.000 specie esotiche al giorno specie che,
quando vengono scaricate, possono fare danno tremendi. Nella prima metà
degli anni ’80, per esempio, una massiccia emissione di meduse atlantiche
nel Mar Nero, contribuì al crollo dell’industria della pesca. La recente
introduzione di un mollusco bivalve (
Dreissena polimorfa),
probabilmente proveniente dal Mar Caspio, nei Grandi Laghi americani
ha pesantemente perturbato i delicati ecosistemi consumando una enorme
quantità di alghe che sono alla base della catena alimentare. Come se
non bastasse, si moltiplica rapidamente arrivando ad intasare le
tubature dell’acqua e ad incrostare imbarcazioni ed infrastrutture.
Questo piccolo mollusco, dall’apparenza innocua, è destinato a provocare
perdite per un totale di 3,1 miliardi di dollari.
Gli ecosistemi terrestri non sono meno in pericolo. Un moscerino bianco
resistente agli antiparassitari (
Ephoron leukon) è comparso in
California all’inizio degli anno ’90 provocando danni all’agricoltura
per decine di miliardi di dollari. Quindi si è spostato in Sud America
provocando la diffusione di virus patogeni e l’abbandono forzato di più
di un milione di ettari di terreni. La salcerella
(
Lythrum salicaria) è stata introdotta in Nord America
accidentalmente verso la metà del XVIII secolo. Oggi ha occupato
600.000 ettari di superficie nelle zone umide soppiantando la
vegetazione nativa che offriva cibo e riparo alla fauna locale.
Affrontare il problema delle specie esotiche richiede rigorosi accordi
internazionali che, però, tendono ad entrare in conflitto con le regole
commerciali del WTO. Un esempio è la controversia tra il governo cinese
e gli USA, dovuta al fatto che la Cina accusava gli USA di creare
ingiuste barriere commerciali imponendo il veto all’importazione di
merci su pallet di legno cinese non trattato. Il provvedimento era
stato preso perché ci si era accorti che le pallet erano responsabili
dell’introduzione di un insetto fitofago particolarmente aggressivo che
metteva a repentaglio le foreste di latifoglie degli USA. Recentemente
anche l’UE ha posto il veto su questi materiali mentre la Cina ha fatto
altrettanto con le pallet giapponesi avendo individuato al loro interno
alcune larve di tarme.
da: ECOLOGY
di:
Andrew M. Sugden
traduzione a cura di:
P. Capozzi
Quando gli europei si stabilirono in Nuova Zelanda alla fine del XVIII
secolo, portarono con loro animali da pascolo, principalmente capre e
pecore, dando inizio ad un esperimento di lungo periodo sugli effetti
dell'introduzione di specie di vita aliene sull'ecologia delle foreste
native.
Wardle et al. (autori di questa pubblicazione di cui vi invio una sintesi)
hanno esaminato come gli animali da pascolo introdotti abbiano
influenzato la biodiversità e i processi dell'ecosistema.
Comparando la zona della foresta pascolata da questi animali. Hanno
rilevato che ci sono stati effetti negativi consistenti su particolari
elementi della comunità forestale, soprattutto a carico
delle popolazioni di piante locali e dei piccoli animali residenti
Nello stesso tempo, si è individuato un mosaico di effetti di vario tipo:
sulla biodiversità del suolo e sulle dinamiche dei nutrienti del suolo
che risultano diversamente colpite a seconda delle locazioni.
Questa imprevedibilità sottolinea l'importanza di prevenire lo stabilirsi
di specie aliene.
[Fonte: Ecol. Monogr. 71, 587 (2001)].
La globalizzazione del commercio è anche una globalizzazione delle
malattie. L’OMS calcola che quasi un quarto delle patologie mondiali
va messa in relazione con il degrado e lo scadimento delle condizioni
ambientali. La contaminazione dell’acqua è responsabile del 90% delle
infezioni associate a diarrea (per esempio il colera o il tifo) che
uccidono ogni anno 3 milioni di persone. E il 90% dei decessi per
malaria (1,5-2,7 milioni/anno) sono da attribuirsi a gravi problemi
ambientali come la colonizzazione delle foreste pluviali e la
realizzazione di estesi sistemi irrigui. Recentemente, un’analisi
condotta dalla Cornell University, arriva alla conclusione che sono
riconducibili al declino ambientale il 40% dei decessi che si
verificano ogni anno.
Quando globalizzazione e degrado ecologico agiscono in modo combinato,
gli effetti possono essere davvero tragici. Un esempio è dato
dall’escalation dell’epidemia di AIDS che, a tutto il 1999, aveva
contagiato 50 milioni di persone uccidendone più di 16 milioni. Il
continente africano, con un quarto della popolazione infettata,
risulta oggi il più colpito. L’epidemia emerse nei primi anni ’80,
più o meno contemporaneamente in Africa, in Nord America e nei Caraibi.
L’ipotesi più probabile è che il virus abbia avuto origine nelle
popolazioni di scimpanzè delle foreste pluviali dell’Africa Occidentale
e che sia stato trasferito alla specie umana fin dagli anni 40. Secondo
l’ipotesi avanzata da Jaap Goudsmit dell’Università di Amsterdam,
il virus sarebbe stato indotto a trasferirsi all’uomo dalla diminuzione
dei sui ospiti originari. D’altra parte le differenze genetiche tra la
forma dei primati (SIV) e la variante umana (HIV) sono molto piccole.
Dato che per gli scimpanzè il virus non è letale, lo studio dei primati
infetti è di enorme importanza per la ricerca sull’AIDS. Ma i primati
africani stanno diminuendo rapidamente e molti rischiano di estinguersi
in brevissimo tempo, forse prima che ci abbiano potuto aiutare a trovare
una soluzione.
Un altro problema è quello di capire come abbia fatto il virus dell’HIV
ad uscire dalla propria condizione originaria di infezione isolata per
diffondersi in tutto il mondo. Ogni ipotesi porta alla massiccia
penetrazione umana nelle foreste dell’Africa occidentale, un fenomeno in
rapida espansione che potrebbe far sì che altre pericolose infezioni
prendano la strada seguita dal’AIDS.
Nel corso degli ultimo 20 anni sono stati identificati oltre 30 nuovi
agenti infettivi della popolazione umana, tra cui i virus dell’AIDS,
dell’ebola, l’Hantavirus, quelli dell’epatite C ed E.
Secondo l’OMS "i mutamenti ecologici hanno contribuito in un modo o
nell’altro alla comparsa di molte (se non tutte)" le nuove malattie.
Spesso il problema è collegato a processi di deforestazione e di
riconversione agricola di terreni che alterano gli equilibri a lungo
mantenuti tra microrganismi e specie ospiti. O a condizioni di povertà
e comportamenti umani che possono creare siti di riproduzione ideali
per gli insetti che veicolano parassiti patigeni.
Un altro problema è la ricomparsa di microrganismi in zone dalle quali
sembravano ormai debellati. Il colera è ritornato in America Latina dipo
che, per quasi un secolo, prima del 1991, non si erano più verificate
malattie: nel 1991 la malattia ricomparve e colpì, in Perù, 322.000
persone uccidendone 2900. I prodotti alimentari provenienti dal Perù
furono banditi dal mercato e il Perù, già poverissimo, perse circa 1/5
delle esportazioni. Dal Perù, il colera si diffuse contaminando le
riserve idriche di tutti gli stati del continente colpendo
complessivamente più di 1 milione di persone e provocando 11.000
decessi. Tra le ipotesi fatte per spiegare la recrudiscenza della
malattia, c’è quella il vibrione sia stato introdotto con le acque
di zavorra di una nave giunta dall’Asia Meridionale, ma l’importanza
delle scarse condizioni igieniche che si accompagnano alla povertà non
è certo da sottovalutare nei termini della diffusione della malattia.
Un’altra ipotesi si rifà al riscaldamento climatico e, in particolare,
al riscaldamento delle acque oceaniche prodotto dal Nino, che avrebbe
indotto una esplosione del plancton che può facilmente ospitare il
microrganismo. In realtà non sono pochi gli scienziati preoccupati
dei possibili effetti del cambiamento climatico sulla diffusione e
sull’ecologia dei microrganismi patogeni.
Il cambiamento climatico sembra essere la principale causa che spinge
verso nord malattie come il Dengue e la malaria.
Questa storia, purtroppo una delle tante, comincia nel 1995: quando,
cioe', l'Universita' del Wisconsin isola, dalla bacca di una patata che
cresce nel Gabon, la
brazzeina, una proteina ulrazuccherina.
La suddetta universita', quindi, deposita quattro brevetti e concede
le licenze per lo sfruttamento della molecola a varie societa'
biotecnologiche che cercano di introdurre il gene della brazzeina nei
legumi e nella frutta. Il successo di questa operazione (frutta e legumi
dolcissimi e ipocalorici) potrebbe fruttare enormi profitti.
Ma certamente non per i contadini del Gabon, che da generazioni
selezionano, migliorano e coltivano questa pianta.
La biopirateria, ovvero il deposito di brevetti su piante coltivate o
utilizzate nei paesi del Sud da parte di industrie o universita' del
Nord, ovviamente senza il consenso delle parti "saccheggiate" e senza
contropartite per i Paesi d'origine delle varieta' coinvolte, e'
diventata ormai una norma.
Lo sviluppo delle biotecnologie ha attratto l'attenzione delle imprese
americane, Canadesi, Australiane, Europee e Giapponesi, sulle risorse
genetiche; i paesi del Sud, per secoli campo di sfruttamento di quelle
risorse "canoniche" tanto necessarie al benessere dell'opulento
Occidente (materie prime, carburanti fossili etc), sono oggi diventate
oggetto di saccheggio genetico. Perchè, se gran parte delle risorse
genetiche sono concentrate nel Sud povero e affamato, le tecnologie,
le sequenze genomiche ed i brevetti finiscono con l'essere di proprietà
esclusiva del Nord, ricco ed opulento.
Per mettere un freno alla biopirateria, l'OUA (Commissione di Ricerca
Tecnica e Scientifica dell'Organizzazone dell'Unita' Africana) ha redatto
un disegno di legge su "la protezione dei diritti delle comunita' locali,
degli agricoltori e dei produttori e sulle regole di accesso alle risorse
biologiche".
Con questo disegno si cerca di avviare un "appropriato sistema di accesso
alle risorse biologiche , alle conoscenze e tecnologie delle comunità,
previo consenso informato preliminare da parte dello stato e delle
comunità locali interessate" predisponendo, inoltre, " meccanismi che
garantiscano una ripartizione giusta ed equilibrata" dei profitti
derivati dall'uso commerciale delle risorse.
Il fondamento giuridico del provvedimento poggia sulla
Convenzione
sulla diversita' biologica (Cdb), adottata nel 1992 al Summit della
Terra di Rio.
Nella Convenzione:
1) si riconosce agli stati il diritto di sovranità sulle proprie risorse
biologiche e genetiche (prima considerate patrimonio comune dell'umanità)
e si stipula che l'accesso a queste risorse debba dipendere dal consenso
degli stati sovrani;
2) si impone ai firmatari di proteggere e sostenere i diritti di comunità,
agricoltori e popoli autoctoni nei confronti delle proprie risorse
biologiche e del loro patrimonio conoscitivo;
3) si richiede un'equa ripartizione dei profitti derivanti dallo
sfruttamento commerciale delle risorse biologiche e dei saperi delle
comunità locali.
Il modello di legge dell'OUA prevede che "l'accesso alle risorse
biologiche e/o alle conoscenze o tecnologie delle comunità locali in
ogni parte del paese, dovrà essere sottoposto ad una richiesta, al fine
di ottenere il preliminare consenso informato e un'autorizzazione
scritta" concessa "dall'autorità nazionale competente" previo consenso
delle comunità locali interessate.
Nel testo e' previsto che "l'autorità nazionale competente" fissi
l'ammontare dei canoni dovuti dal selezionatore che abbia ottenuto
una varietà a partire da una delle risorse biologiche del paese; le
royality, calcolate in base all'ammontare delle vendite, andranno in
un fondo per il finanziamento di progetti elaborati dalle comunità
locali, finalizzati allo sviluppo, alla conservazione e all'uso
duraturo delle risorse genetiche agricole.
Oltre a regolamentare l'accesso alle risorse biologiche, la legislazione
dell'Oua definisce un "sistema di protezione" dei diritti di proprietà
intellettuale per i selezionatori di nuove varietà vegetali.
Questa parte fa riferimento alle esigenze dell'Accordo sugli Aspetti dei
diritti di proprietà intellettuale inerenti al commercio (Adpic)
[Gatt/Trip- Trade Related Intellectual Property]. Questo testo
(1994, Marrakech) obbliga i paesi membri dell'Organizzazione mondiale
del commercio (Omc) a dotarsi di un sistema che protegga questi diritti.
In particolare l'art. 27.1 dispone che "si potrà ottenere un
brevetto per ogni invenzione di prodotto o di processo". L'Omc, pero',
da' agli Stati anche la possibilità "di escludere dalla brevettabilità
vegetali e animali diversi dai microrganismi", ma esige che gli stessi
paesi prevedano "la protezione delle varietà vegetali attraverso
brevetti o un efficace sistema sui generis (cioè adattato alle
situazioni particolari), oppure con una combinazione di entrambi i
"mezzi".
Il sistema "sui generis" definito dall'Oua e' molto meno esclusivo di
quello dei brevetti; al contrario di quest'ultimo, riconosce
all'agricoltore il diritto a conservare parte del raccolto per poterlo
ripiantare l'anno successivo senza dover pagare canoni (privilegio del
coltivatore). La varietà selezionata può anche essere utilizzata
gratuitamente dai ricercatori che vogliano crearne una nuova (esenzione
per la ricerca).
Il sistema sui generis proposto dall'Oua si adatta alla situazione
africana più di quanto non facciano altri sistemi, come il "diritto di
ottenzione vegetale dell'Upov" [Unione per la protezione delle ottenzioni
vegetali] cui aderiscono principalmente gli agricoltori dei paesi
industrializzati.
Resta da vedere se questo "sistema sui generis" sarà riconosciuto
dall'Omc. I paesi africani non si accontentano più della "possibilità"
di escludere animali e vegetali dalla brevettabilità (art. 27.3b del del
Trade Related Intellectual Property), ma chiedono che l'Omc "proibisca"
di brevettare il vivente. Essi chiedono che "l'accordo precisi
che ogni legge sui generis possa contenere disposizioni tendenti a
proteggere le innovazioni delle comunità autoctone e delle comunità
agricole locali dei paesi in via di sviluppo preservando le pratiche
agricole tradizionali, compreso il diritto di conservare e scambiare
i semi e di vendere i raccolti".
Il clima mondiale ha sempre avuto variazioni naturali ma, attualmente,
la grande maggioranza degli scienziati concordano nel ritenere l’attuale
tendenza al riscaldamento globale un effetto dell’aumento nella
concentrazione dei
gas serra atmosferici, aumento che dipende
dalla crescita economica e demografica verificatasi nel corso degli
ultimi due secoli e che sta determinando variazioni che si sovrappongono
a quelle naturali.
Il terzo rapporto dell’
Intergovernmental Panel on Climate Change
(IPCC), rilasciato nel 2001, conferma ulteriormente questa ipotesi
e, aggiornando i risultati del precedente rapporto sui cambiamenti
climatici (1995), conferma che il clima cambierà più rapidamente di
quanto avessero fatto supporre i dati precedenti: secondo le proiezioni
dell’IPCC, infatti, l’aumento della temperatura globale alla fine del
secolo sarà compreso tra 1,4 e 5,8 C: si tratta del più alto tasso di
cambiamento registrato dalla fine dell’ultima era glaciale. A fronte
dell’aumento delle temperature medie, il livello dei mari potrebbe
aumentare tra 9 e 88 cm entro il 2100, la distribuzione delle
precipitazioni andrà incontro a modificazioni con relative conseguenze
sul clima di molte regioni che, in generale, tenderà a diventare più
variabile. Assisteremo ad un aumento sensibile nella frequenza di
manifestazioni climatiche a carattere estremo, ma non siamo ancora
in grado di valutare l’effetto dei cambiamenti su fenomeni di larga
scala ( per esempio la possibilità che si verifichino inversioni a
carico delle principali correnti oceaniche o improvvisi collassi delle
calotte glaciali principali).
Il clima è un sistema molto complesso e gli scienziati incontrano grosse
difficoltà nello studiarlo, nel comprenderlo e nel prevederne il
comportamento; tuttavia sono ormai pochi quelli che sottovalutano i
rischi connessi con tale cambiamento. Ammesso che possano esserci aree
avvantaggiate dal cambiamento climatico, nella maggior parte delle
regioni esso avrà impatti drammaticamente negativi sulla salute umana,
sulla sicurezza alimentare, sulle attività economiche, sulle risorse
idriche e sulle infrastrutture fisiche. In molte regioni l’agricoltura
potrebbe risentirne fino alla distruzione e in molte altre si andrebba
incontro ad una diffusione di malattie tropicali da tempo sconfitte o
completamente sconosciute.
La disponibilità d’acqua, che già rappresenta un grosso problema per
molte popolazioni della Terra, diminuirebbe ulteriormente; l’incremento
del livello dei mari e la conseguente inondazione di ampie fasce
costiere, porterebbe allo spostamento di centinaia di milioni di persone
verso le aree più interne.
Infine, anche se nessuno potrà evitarlo, gli effetti del cambiamento
climatico sulle popolazioni più povere e più vulnerabili saranno più
drammatici che altrove.
Con l’aumento dei dati scientifici sul legame esistente tra attività
umane e riscaldamento globale, e in seguito all’aumento dell’interesse e
delle preoccupazioni della società civile nei confronti dell’argomento,
verso la metà degli ani ‘80 il cambiamento climatico viene inserito
nell’agenda politica internazionale. Riconoscendo l’importanza e la
necessità di informare ed aggiornare i politici sull’argomento, nel
1988 la
World Meterological Organization (WMO) e l’UN Environment
Programme (UNEP) promuovono la nascita di una commissione scientifica
per la raccolta dati sul cambiamento climatico, l’International Panel
on Climate Change (IPCC:
http://www.ipcc.ch/). Lo stesso anno l’argomento viene affrontato,
per la prima volta, in seno all’Assemblea Generale dell’ONU che adotta
la prima risoluzione sulla "Protezione del clima globale per le
generazioni umane presenti e future" (risoluzione 43/53).
Il primo rapporto di valutazione sul cambiamento climatico, viene
presentato dall’IPCC nel 1990 l’IPCC: il rapporto conferma l’esistenza
di un problema globale chiamato "cambiamento climatico" e
lancia un appello per la creazione di un trattato globale in grado di
affrontare il problema. L’appello viene rinnovato nella Dichiarazione
Ministeriale della Seconda Conferenza Mondiale sul Clima, tenutasi a
Ginevra tra Ottobre e Novembre dello stesso anno; l’assemblea Generale
dell’ONU risponde nel Dicembre del 1990, attraverso la risoluzione
45/212, aprendo ufficialmente i negoziati su una bozza di convenzione
sul cambiamento climatico e stabilendo una Commissione Intergovernativa
(INC) destinata a condurre i negoziati.
L’INC si riunisce per la prima volta nel febbraio 1991 e dopo appena
15 mesi, il 9 maggio 1992, adotta la
United Nations Framework Convention
on Climate Change che viene aperta alle sottoscrizioni il 4 giugno 1992
in concomitanza con la Conferenza dell’ONU su Ambiente e Sviluppo (UNCED),
il così detto Summit della Terra di Rio de Janeiro. La Convemzione sul
Cambiamento Climatico entra in vigore nel marzo del 1994.
Attualmente sono "Parti alla Convenzione" 186 paesi più
l’Unione Europea. Per divenire
Parte un paese deve ratificare,
accettare, approvare o accedere alla Convenzione che si riunisce
regolarmente una volta all’anno alla Conferenza delle Parti (COP);
la COP ha lo scopo di fare il punto sulla messa in opera della
Convenzione da parte dei singoli stati aderenti e sui nuovi dati
dell’IPCC relativi al cambiamento climatico.
L’obiettivo finale della Convenzione è la stabilizzazione delle
concentrazioni atmosferiche di gas serra; in sostanza, la quantità di
gas serra emessi nell’atmosfera dalle attività umane non dovrebbero
eccedere certi limiti di sicurezza che non sono quantificati ma che
dovrebbero essere fissati in modo tale da permettere il naturale
adattamento degli ecosistemi al cambiamento climatico in atto,
assicurando che non venga messa a rischio la produzione alimentare
e permettendo allo sviluppo economico di procedere in modo sostenibile.
Per raggiungere questo obiettivo, tutti i paesi hanno l’indicazione
generale di controllare il Cambiamento Climatico, di adattarsi ai suoi
effetti e di riportare le azioni fatte ai fini di rendere la Convenzione
operativa.
La Convenzione divide i paesi in due gruppi: quelli indicati
nell’Allegato I (Annex I Parties) e quelli che non vi vengono indicati
(non-Annex I Parties)
Annex I Parties
Sono i paesi industrializzati (Vd tavola sotto), che hanno contribuito e
continuano a contribuire alla maggior parte delle emissioni.
Essi includono sia i paesi che, nel 1992, erano membri della Organization
for Economic Cooperation and Development (OECD), sia quelli dalla così
dette "economie in transizione" (EITs) cioè della Federazione
Russa e dell’Europa Centrale ed Orientale. Questo gruppo ha emissioni
pro capite di gran lunga più elevate di quelle della maggior parte dei
Paesi in Via di Sviluppo (PVS) ed ha anche maggiori mezzi per far
fronte al cambiamento climatico. Per il "principio di equità"
e di "responsabilità comuni ma differenziate", sancito dalla
Convenzione, a questi paesi viene richiesto di guidare la modifica dei
trends di emissione a lungo termine e di adottare politiche e misure,
non legalmente vincolate, finalizzate a riportare entro il 2000 le
proprie emissioni di gas serra ai livelli del 1990.
La Convenzione è più flessibile nei confronti degli EITs che, nel 1990,
avevano livelli di emissione molto più bassi del normale a causa della
crisi sopravvenuta in seguito del cambiamento del sistema economico.
Le Parti dell’Allegato I devono presentare regolari rapporti
(National Communications) che descrivano le politiche e le misure da esse
messe in atto al fine di affrontare il problema (il termine fissato per
la presentazione della III relazione nazionale è fissato al 30 novembre
2001); esse devono, inoltre, presentare una relazione annuale che includa
i raffronti tra le emissioni del 1990 e quelle dell’anno trascorso: ciò
significa che nel 2002 le Parti dovranno presentare un rapporto di
raffronto tra le emissioni del 2000 e quelle del 1990.
Tali rapporti vengono quindi valutati da commissioni di esperti.
Gli ex appartenenti all’OECD (indicati anche nell’Allegato II: Vd tavola
sotto), hanno l’obbligo di fornire risorse finanziarie addizionali ai
paesi in via di sviluppo, per aiutarli a far fronte al cambiamento
climatico e di facilitare il trasferimento di tecnologie amiche del
clima dai paesi più avanzati a quelli più arretrati.
Non-Annex I Parties
In questo gruppo sono inclusi principalmente i paesi in via di sviluppo
soggetti ad obblighi meno stretti degli altri. Per esempio,
la presentazione delle Comunicazioni Nazionali da parte di questi paesi
è stata posticipata rispetto a quella prevista per i paesi dell’Allegato
I (attualmente più di 50 paesi in via di sviluppo hanno presentato
l’anno presentata per la prima volta). Nel 1999, inoltre, è stato creato
un Consultative Group of Experts (CGE) che ha il compito di aiutare i
paesi di questo gruppo a rendere operativi gli strumenti per la stesura
di queste Comunicazioni
Per mettere a punto dei meccanismi atti a garantire il rispetto degli
impegni presi alla ratifica della Convenzione, le Parti si incontrarono
per la prima volta a Berlino nel 1995 (Conference of the Parties: COP 1)
dove, in una delibera nota come
Berlin Mandate, risultarono
d’accordo sulla inadeguatezza degli obblighi fissati alla Convenzione
per il gruppo dell’Allegato I. Dopo due anni e mezzo di intensi
negoziati, la COP si riunisce a Kyoto per la sua terza Conferenza
(
COP 3) e, l’11 Dicembre del 1997,
adotta il Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo obbliga le Parti dell’Allegato I a rispettare target
individuali legalmente vincolanti al fine di limitare o ridurre le
proprie emissioni di gas serra. Il Protocollo obbliga le Parti
ratificanti a riportare, entro il 2000, le emissioni globali di gas
serra ai livelli del 1990 e a ridurle ulteriormente del 5% tra il 2008
e il 2012.
Le quote di riduzione individuale per il gruppo dei paesi
industrializzati (fissate nell’Allegato B del Protocollo) vanno dal
–8% dell’UE e di altri paesi, al + 10% dell’Islanda
(l’UE può ridistribuire la sua quota su tutti i suoi stati membri).
I target coprono le emissioni dei sei principali gas serra:
- Anidride Carbonica (CO2);
- Metano (CH4);
- Biossido di Azoto (N2O);
- Idrofluorocarburi (HFCs);
- Perfluorocarburi (PFCs); and
- Solfuro di Esafluoro (SF6).
Il Protocollo introduce anche il concetto di
sinks, cioè di s
erbatoi per l’Anidride Carbonica; in linea di principio, sono
classificabili in questa categoria tutte i processi naturali e le
attività umane che promuovono la rimozione di gas serra dall’atmosfera.
Tra le attività naturali "serbatoio", al primo posto c’è la
fotosintesi che trasforma in
biomassa l’anidride carbonica
presente nell’atmosfera. Tutte le variazioni a carico delle emissioni,
comprese quelle dovute alla rimozione operata dai
sinks,
vengono calcolate come un tutto unico indipendentemente dalle cause
che le hanno prodotte.
Il Protocollo introduce tre meccanismi innovativi noti come:
- implementazione congiunta;
- commercio delle emissioni;
- sviluppo pulito
Questi meccanismi hanno lo scopo di aiutare le Parti dell’Allegato I
a ridurre i costi necessari al raggiungimento dei propri target, in
particolare attraverso la compravendita di "quote" di gas
serra da quei paesi che hanno già raggiunto e superato i propri target
di emissione o che hanno margini d’incremento rispetto agli altri
(commercio delle emissioni). Il meccanismo di sviluppo pulito dovrebbe
aiutare i PVS nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile,
promuovendo gli investimenti eco compatibili dei governi e delle
industrie dei paesi sviluppati nelle aree non industrializzate.
Nel 2005 le Parti dell’Allegato I devono aver dimostrato di aver fatto
sensibili progressi verso il raggiungimento degli obiettivi cui sono
obbligati dal Protocollo I e saranno avviati negoziati sui target per
il secondo periodo.
I negoziati per il Protocollo di Kyoto, comunque, avevano lasciato
aperta la definizione di moltissimi aspetti di primaria importanza ai
fini di un concreto raggiungimento dei suoi obiettivi, aspetti che
avrebbero dovuto essere affrontati nel corso dei negoziati successivi.
In particolare non vengono definiti i dettagli operativi relativi al
sistema di valutazione del rispetto degli obblighi assunti dai singoli
paesi e i provvedimenti da prendersi nei casi di mancato rispetto di
tali obblighi (responsabilità penale). Inoltre non viene specificato
quali categorie debbano essere associate alle attivià "sink"
coperte dal Protocollo. Mancano ancora le linee guida per l’elaborazione
dei rapporti annuali presentati dalle Parti e per la loro revisione da
parte delle autorità preposte; infine non è affatto chiaro come debba
essere trattato il problema della maggiore vulnerabilità dei PVS:
alcuni si sentono più vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento
climatico, mentre altri si sentono più a rischio relativamente alle sue
ripercussioni economiche o alle misure di risposta.
Nel corso della COP 4, tenutasi a Buenos Aires nel Novembre 98,
le Parti hanno adottato il così detto
Buenos Aires Plan of
Action con lo scopo di mettere appunto un programma di lavoro
per risolvere le questioni non definite del Protocollo e di
avvantaggiarsi sui problemi operativi fissati dalla Convenzione,
tra cui quelli relativi all’assistenza finanziaria ed al trasferimento
tecnologico ai PVS. Il termine per i negoziati previsti dal Piano
d’Azione erano fissati alla data in cui si sarebbe riunita la COP6
(Aia, novembre 2000) ma, a tale sessione, le parti non sono riuscita
a trovare un accordo (Vd capitolo specifico). Esse hanno così deciso
di continuare i negoziati convocando COP 6bis (Bonn, luglio 2001),
durante la quale, con gli Accordi di Bonn sono giunte ad un accordo
sui punti chiave presentati dal Piano d’Azione di Buenos Aires.
In particolare sui seguenti:
- assistenza finanziaria
: con l’accordo di costituire tre nuovi
fondi: un fondo speciale di cambiamento climatico e un fondo stabilito
dalla Convenzione per i paesi meno sviluppati, un fondo di adeguamento
al Protocollo di Kyoto gestito dalla Global Environment Facility
che rappresenta l’entità operativa del meccanismo finanziario della
Convenzione;
- trasferimento tecnologico
: con l’accordo di mettere appunto un
nuovo Gruppo di Esperti sul Trasferimento Tecnologico;
- impatti avversi e misure di risposta dei paesi in via di
sviluppo al cambiamento climatico:
che include un accordo di
assistenza finanziaria indirizzato agli impatti avversi e un obbligo
per le Parti dell’Allegati I di riportare gli sforzi fatti per
minimizzare tali impatti;
- meccanismi del Protocollo di Kyoto:
che include un accordo
su:
- eleggibilità di progetti soggetti ad implementazione congiunta e
al CDM;
- come rendere operativo l’obbligo imposto dal Protocollo a chè
l’uso dei tre meccanismi (implementazione congiunta, commercio delle
emissioni e sviluppo pulito) sia supplementare all’azione interna delle
singole Parti;
- misure per prevenire una vendita eccessiva di quote di emissione
attraverso il meccanismo di commercializzazione delle quote e
- la composizione del tavolo esecutivo del CDM;
- uso del suolo, cambiamenti nell’uso del suolo e forestazione:
che include un accordo per espandere la lista delle attività eleggibili
a sink e;
- rispetto degli obblighi: con il raggiungimento di un accordo
sulla struttura istituzionale che soprassiede al rispetto degli obblighi
al Protocollo ed alle conseguenze per le Parti che non raggiungono i
propri obiettivi
Il Protocollo di Kyoto è stato aperto alle adesioni tra marzo ‘98 e
marzo ‘99; in questo periodo è stato firmato da 84 paesi ma, per diventare
operativo, esso deve essere ora ratificato (o adottato, o approvato o
accettato) da almeno 55 Parti alla Convenzione, incluse quelle
dell’Allegato I che contribuiscono alle emissioni totali
per il 55%.
Nel Luglio 2001, il Protocollo risultava ratificato da una
quarantina di paesi tutti appartenenti alla fascia dei PVS. Delle
Parti elencate nell’Allegato I (paesi industrializzati) ha aderito
solo la Romania: tutte le altre si sono riservate di farlo entro il
Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, che si terrà a Joannesburg
nel settembre il 2002. Sarà il decimo anniversario dall’adozione e
dalla firma della Convenzione.
Intanto la COP 7 che si è riunita a Marrakesh nel novembre 2001, doveva
definire le questioni rilevanti ancora aperte ed adottare formalmente
il Piano d’Azione di Buenos Aires.
Tabella riassuntiva dei fatti
Data |
Evento |
1988 |
Il WMO e l’UNEP fondano l’IPCC.
L’Assemblea Generale dell’ONU affronta per la prima volta il problema del Cambiamento Climatico. |
1990 |
Pubblicazione del Primo Rapporto di Valutazione dell’ IPCC. Appello per il lancio di un round negoziale su un Accordo per il Cambiamento Clamatico.
Ulteriore appello al lancio di negoziati nel corso della Seconda Conferenza sul Clima Mondiale
L’Assemblea Generale dell’ONU apre i negoziati su una disegno di Convenzione sui Clambiamenti Climatici e crea una Commissione Intergovernativa per i Negoziati (INC) deputata a condurli |
Febbraio 1991 |
Primo incontro dell’INC. |
9 Maggio 1992 |
Nel corso della quarta sessione dell’INC, viene adottata a New York la UN Framework Convention on Climate Change |
4 Giugno 1992 |
La Concenzione è aperta alle adesioni nel corso del Summit della Terra di Rio de Janeiro (Brasile) . |
21 Marzo 1994 |
Entrata in vigore della Convenzione. |
7 Aprile 1995 |
La Prima Conferenza delle Parti (COP 1), a Berlino, lancia un nuovo round negoziale "per la creazione di un Protocollo o di un altro strumento legale". |
11-15 Dec 1995 |
L’IPCC approva il suo Secondo rapporto di Valutazione. I suoi risultati sottolineano la neccessità di un’azione politica forte. |
19 July 1996 |
La COP 2, a Geneva, prende nota della Dichiarazione Ministeriale di Ginvra che rappresenta un’ulteriore spinta al processo di negoziato |
11 Dec 1997 |
La COP 3, nel corso del suo incontro a Kyoto, adotta il Protocollo di Kyoto alla UN Framework Convention on Climate Change. |
16 March 1998 |
Il Protocollo di Kyoto viene aperto per le firme al quartiergenerale dell’ONU a New York. Nel corso di un anno viene firmato da 84 paesi. |
14 Nov 1998 |
La COP 4, nel corso del suo incontro a Buenos Aires, adotta il "Buenos Aires Plan of Action" mettendo a punto un programma di lavoro sui dettagli operativi del Protocollo e sulla messa in vigore della Convenzione. Alla COP 6 viene fissato un termine per l’adozione di molte importanti decisioni. |
13 24 Nov 2000 |
La COP 6 si riunisce a The Hague, ma non riesce a raggiungere un accordo sul pacchetto di decisioni relative al Buenos Aires Plan of Action. |
16 27 July 2001 |
La COP 6 parte II si riunisce nuovamente a Bonn. Le Parti adottano gli "Accordi di Bonn", e ottengono il consenso sui punti chiave del Buenos Aires Plan of Action. Completano anche i lavori su una serie di decisioni dettagliate, ma alcuni punti rimangono in sospeso. |
29 Oct 9 Nov 2001 |
La COP 7, che si tiene a Marrakesh è volta a finalizzare le decisioni in sospeso della COP 6 parte II, e ad adottare formalmente tutte le decisioni relative al Buenos Aires Plan of Action. |
2 19 Sept. 2002 |
Sunnit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile |
200? |
Entrata in vigore del Protocollo di Kyoto? |
2005 |
Le Parti dell’Allegato I devono avere fatto "progressi dimostrabili" nel raggiungimento dei propri impegni soggetti al Protocollo.
Lancio dei dialoghi per gli impegni del round post-2012. |
2008-12 |
Primo periodo di impegni soggetti al Protocollo di Kyoto. |
2013-17? |
Secondo periodo di impegni? |
- D.H. Meadows, D.L. Meadows. Beyond the Limits: global collapse or a sustenable future. Earthscan Publications, 1995.
- L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’98. Edizioni Ambiente
- L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’99. Edizioni Ambiente
- L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’00. Edizioni Ambiente
- L.R. Brown, C. Flavin, H. French. State of the world ’01. Edizioni Ambiente
- H. French. Ambiente e Globalizzazione. Le contraddizioni tra neoliberismo e sostenibilità. Edizioni Ambiente, 2000
- G. Moriani. Ecologia Domestica: una guida pratica per il consumatore intelligente. Muzzio Ambiente, 1997