Finalmente suonò anche la campana per la pausa del pranzo, e cercai di essere il più veloce possibile per mettermi in fila davanti all'orologio dei cartellini. Purtroppo il mio ufficio era in fondo all'edificio, e quando raggiunsi la fila, notai che ero come al solito uno degli ultimi. Normalmente questo non mi dava fastidio, ma quel giorno avevo la macchina fuori limite orario del parcometro.
Aspettai i soliti quattro minuti, finché la coda non si esaurì per poi finalmente timbrare anch'io il cartellino. Poi di corsa, lungo le tre vie che mi separavano dal parcheggio, per controllare l'auto. Con mio grande stupore vidi che il posto che prima era occupato dalla mia vecchia, ma sempre cara, Skoda era vuoto.
Mi guardai attorno, credendo di aver sbagliato fila del parcheggio, ma più guardavo, più mi rendevo conto che quello era il posto giusto. Ma l'auto non c'era. Mi avvicinai al parcometro e vidi che il tempo era ormai esaurito. Ovvio, le duecento lire mancanti! subito mi venne il dubbio che un vigile troppo zelante avesse notato l'auto in sosta a tempo scaduto, ed avesse chiamato rapidamente un carroattrezzi per portarla via. Mi dissi però che era molto improbabile.
Il vigile sarebbe dovuto passare di lì subito dopo che il tempo era scaduto, ed il carroattrezzi avrebbe dovuto essere già nei paraggi per poter rimuovere l'auto così velocemente. Sembrava tutto così strano, ma un dato era certo: la Skoda non c'era più. Quasi mi venne da piangere al pensiero della mia vecchia utilitaria rossa scomparsa così nel nulla.
Ero indeciso se andare alla stazione dei vigili urbani per controllare un eventuale sequestro dell'auto, oppure denunciarne il furto ai carabinieri. Optai per la prima soluzione, con l'accorgimento di presentarmi al comando dei vigili dicendo loro che non avevo trovato più l'auto e se potessero aiutarmi nel cercarla.
Deciso il da farsi mi incamminai verso la sede del municipio, esattamente dall'altra parte della città (che per fortuna non era una metropoli!). Attraversando le vie del centro provai un senso di disagio che mai prima di allora avevo percepito. Come un sesto senso che mi avvertisse di un pericolo imminente che però non poteva esserci.
Arrivato nella piazza centrale, presi la via del corso, e mi infilai sotto i portici. Come al solito, ogni tre vetrine stavano delle donne mal vestite, con al collo un bimbo mal fasciato, a chiedere la carità. Io non avevo nulla da dare loro, e poi mi ero ripromesso di non lasciare elemosine a chi le chiedeva per strada. Meglio aiutare le associazioni che si occupano dei più sfortunati. Almeno così i soldi servono davvero per dare loro dei vestiti e del cibo da mangiare. E non finiscono a protettori vari, spesi in alcolici o droga.
Ma lo spettacolo, monotono e disgustante, di un’umanità che aveva rinunciato ad essere tale peggiorò il mio già pessimo umore. E mi tornarono alla mente le parole della mia collega: quello stupido oroscopo che mi prediceva un giornata nefasta. Già, nefasta! una volta tanto quegli imbroglioni ci avevano azzeccato. Pensai che dovesse essere logico anche quello. Quanti milioni di persone avevano il mio stesso segno zodiacale? su tutta quella moltitudine, era inevitabile che almeno uno rispecchiasse il proprio oroscopo. Quel giorno era toccato a me. Queste riflessioni non mi risollevarono il morale, anzi!
Intanto ero arrivato al comando dei vigili. Entrai e spiegai loro la situazione. Contrariamente a quanto pensassi, l'addetto allo sportello fu molto gentile e cordiale. Si prodigò di sua iniziativa per contrallare se per caso l'auto fosse stata posta sotto sequestro, indipendentemente dal fatto che ciò fosse giusto o meno, ma non riuscì a scoprire nulla. Si informò presso il collega addetto a quella zona, che era appena rientrato, il quale non seppe dargli alcuna notizia della mia tanto amata Skoda.
Alla fine prese le mie generalità e il mio numero di telefono. Mi disse che se avesse avuto notizie me le avrebbe comunicate immediatamente. Mi consigliò di andare dai carabinieri a denunciare la scomparsa del mezzo, e di non preoccuparmi più di tanto. Prima o poi qualcuno l'avrebbe ritrovata. Stordito, ma per niente rassicurato, m’incamminai velocemente verso la stazione dei carabinieri; ormai si stava facendo tardi, e di li a poco avrei dovuto riprendere a lavorare. Nell'ufficio della Benemerita mi fecero attendere un'eternità.
Finalmente un appuntato mi ricevette, e sembrava decisamente scocciato dalla mia presenza. Cercai di essere il più gentile possibile, ma quello dimostrò tanta ostiità nei miei confronti che alla fine cedetti anch'io, e cominciai a rispondergli a tono. Quello andò su tutte le furie, e senza ultimare gl’incartamenti necessari (eravamo giunti ormai al settimo modulo da compilare!) mi cacciò dal suo ufficio.
Tornato in sala d'aspetto, senza sapere che fare, notai l'orologio appeso al muro. Ormai ero in ritardo di sette minuti sull'orario di rientro, e mi trovavo dall'altra parte della città, o quasi. Altro che giornata nefasta. Attesi un altro poco, che qualcuno mi dicesse che fare, ma visto che nessuno si faceva vivo, cercai di richiamare l'attenzione di qualcuno. Nessuno diede segno di avermi notato, quindi decisi di uscire e di andare a lavorare.
Ripercorrendo a ritroso le stesse vie che mi avevano portato sin là, notai che le donne con i bimbi al collo erano scomparse. Anche i gruppetti di anziani signori si erano dileguati, e la città sembrava essere davvero vuota, priva di ogni suo abitante. Poi, finalmente notai un ragazzo sgusciare in una via laterale, e dall'altra parte della strada un signore, probabilmente medio-orientale camminare alla mia stessa andatura. Intanto ripensavo alla Skoda, al comando dei vigili, e a quell'appuntato idiota che mi aveva fatto perdere tempo per niente.
Arrivai così alla mia ditta con tre quarti d'ora di ritardo sull'orario di rientro dal pranzo. Timbrai in rosso, e cercai di infilarmi nel mio ufficio senza farmi notare, almeno non troppo.
Ci riuscii abbastanza bene, e quando varcai la soglia della piccola stanza che mi faceva da ufficio, pensavo già di essermela cavata, almeno per quel pomeriggio, quando vidi seduto sulla mia umile poltroncina girevole il mio capo. Tremenda visione fu quella. Le gambe mi cedettero, e rimasi in piedi più perché non ebbi il coraggio di svenire di fronte a lui che per la forza che sentivo di non avere nelle gambe.
Quello mi guardò e senza tanti fronzoli mi disse di tornarmene a casa. Quel pomeriggio ed il giorno seguente ero sospeso. In seguito la commissione disciplinare avrebbe deciso sul da farsi. M’aveva avvisato di non timbrare più in rosso, ed ora dovevo pagare le giuste conseguenze. Cercai, molto timidamente, di giustificare il mio ritardo, ma quando lui controbatté che avevo sempre qualche scusa pronta, mi sentii sprofondare dalla vergogna e girai i tacchi per tornare a casa. A metà del corridoio mi venne un dubbio: il cartellino dovevo timbrarlo in uscita oppure no? stavo per tornare nel mio ufficio per chiedere spiegazioni, ma poi mandai mentalmente tutti al diavolo e lasciai l'orologio a riposare come era giusto che facesse a quell'ora del pomeriggio.
Uscito dallo stabilimento decisi di tornarmene a casa. Senza l'auto, e visto che a quell'ora del pomeriggio non c'erano mezzi pubblici che collegassero la città con il piccolo paese dove abitavo, m’incamminai piano piano verso la statale, sulla via del ritorno.
Dovetti ripassare per la piazza centrale, e di nuovo sotto i portici, che nel frattempo avevano riattirato qualche sparuta persona, extra-comunitari soprattutto.
Camminando lentamente, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni pensai di nuovo a quel maledetto oroscopo, e giurai a me stesso che il pri-mo che mi avesse parlato ancora di oroscopi, astri e previsioni del futuro lo avrei massacrato di botte; anche se fosse stata una donna! nel frattempo sentii qualcosa ballare nella tasca di sinistra. Cercai con la mano, ed estrassi una moneta da cinquanta lire, di quelle piccole piccole, che se non le guardi attentamente non riesci a capire quanto valgono.
La feci ballare un po' tra le mani, poi con uno scatto di rabbia la gettai all'indietro, ricordandomi che tutto era inziato quella mattina quando avevo trovato quello stupido cinquanta lire al posto del solito duecento lire. Feci qualche passo quando una voce alle mie spalle richiamò la mia attenzione. Non parlava italiano, anzi sembrava parlasse arabo, ma gesticolava vistosamente nella mia direzione, da ciò dedussi che era proprio a me che si stava rivolgendo.
Mi fermai ed aspettai che lo sconosciuto si avvicinasse. Quando mi fu proprio davanti, continuando a parlare quella sua lingua così strana e a me del tutto ignota, mi porse una moneta che io subito non rico-nobbi. D'istinto la rifiutai, immaginando chissà quale imbroglio, ma lui continuava a parlare e a gesticolare. Ad un tratto mi prese una mano e mi mise la piccola moneta, davvero minuscola, sul palmo. Allora capii, aiutato anche dal suo continuo gesticolare. Era il mio cinquanta lire, che avevo gettato. Lui lo aveva rac-colto, e me lo aveva riportato.
Era stato un gesto gentile il suo, ma io cercai di spiegargli che non volevo quella moneta, ma l'altro, oltre a parlare quella strana lingua, sembrava che ca-pisse anche solo quella. Tentai con qualche parola in inglese ed in francese; nulla. Alla fine mi lanciai anche con il tedesco e lo spagnolo (che usavano spesso nella mia ditta, e dei quali ri-cordavo solo qualche vocabolo, imparato ascoltando gli altri conversare con i clienti). Peggio di prima.
Quello fece altri gesti, l'ultimo dei quali dovette essere sicuramente un saluto, poi si voltò e se ne andò. Deluso dalla mia inconcludenza, mi rassegnai all'inevitabile e ripresi il mio lungo cammino. Fui tentati di buttare di nuovo quella stupida moneta, ma poi voltandomi un attimo e notando ancora lo strano individuo fermo davanti ad una vetrina mi trattenni e cacciai il cinquanta lire nella tasca dei pantaloni, dove era rimasto per tutto il resto della giornata finché non ebbi l'idea di liberarmene. Arrivai così in fondo al corso, e svoltai in direzione della statale, e ... e quella è l'ultima cosa che io ricordi.
Quando mi risvegliai, non senza provare dolore, mi ritrovai in un ambiente ostile, buio, umido e sicuramente anche molto sporco, a giudicare dal fetore che vi regnava. Pensai subito di essere finito in uno strano incubo, e cercai di svegliarmi, per togliermi da quella scomoda posizione.
Con il passare del tempo, però, mi accorsi che il dolore che sentivo non era frutto d’immaginazione, ma arrivava dalle mie braccia che insensatamente tenevo incrociate dietro la schiena. Cercai di riportarle in una posizione più naturale, senza riuscirci. Provai anche a mettermi a sedere, in quanto mi resi conto di essere sdraiato, ma mi mancarono le forze.
Mi resi allora conto che le mie braccia non si muovevano perché erano state legate dietro la mia schiena, e che certamente quello non era un sogno. Mi venne alla mente lo strano tizio che mi ridiede il cinquanta lire, e il momento in cui avevo svoltato l'angolo. Al ricordo di ciò sentii un dolore lancinante alla testa, e solo allora mi resi conto che quello stato di stordimento che avevo scambiato per sonno altro non era che un tremendo mal di testa.
Provai a muovermi in qualche modo, ma riuscii a girare solo di qualche grado la testa. Tanto bastò per sfregare il mio mento sul collo ed accorgermi che avevo una barba molto lunga. Da ciò dedussi che dovevo essere rimasto svenuto per pa-recchi giorni. Ebbi appena il tempo di abituarmi all'oscurità che caddi nuovamente in un sonno profondo.
Quando mi risvegliai di nuovo mi trovavo seduto, e di fronte a me stava un tizio, arabo di sicuro, che teneva tra le braccia quello che sicuramente era un fucile mitragliatore, anche se one-stamente non è che di armi me ne intenda molto. Nel vedermi sveglio mi indicò una ciottola posta sul pavimento proprio di fronte a me. Tentai di prenderla, ma nel muovermi, caddi malamente a terra.
Nel vedermi in quelle condizioni, il mio carceriere (ero giunto a quella conclusione non appena vidi l'arma che imbracciava) emise alcuni strani suoni, che seppur non capii mi suonarono familiari, e poco dopo un altro paio di suoi simili, addobbati come solo nei telegiornali si possono vedere, mi aiutarono a rimettermi seduto. Uno di loro prese la ciottola, e cercò di farmi bere un po' d'acqua.
Riuscendo a rovesciarne la maggior parte sul pavimento di terra, che in quel punto divenne fango. Terminata l'operazione mi lasciarono sdraiato, con la mia guardia del corpo sempre vigile su di me, e se ne andarono. Passò un po' di tempo, poi mi riaddormentai.
Al mio nuovo risveglio trovai un altro tizio, che imbraccia-va pure lui un'arma, anche se diversa da quella del predecessore, e mi guardò incuriosito quando cercai di muovermi. Di nuovo i soliti strani suoni, che certamente corrispondevano a parole in una lingua a me perfettamente ignota, e altri due arrivano per aiutarmi ancora. Questa volta portarono anche qualche cosa da mangiare.
Sul principio cercai di ingurgitare il cibo, sicuramente qualche schifezza locale che non saprei descrivere, con avi-dità. Ma ben presto sentii lo stomaco stringersi e farmi un male tremendo.
Capii che dovevo essere rimasto a digiuno per lungo tempo, così decisi di limitarmi nel cibo, e cercai invece di non perdere neanche una goccia d'acqua. In quell'ambiente, così umido, faceva anche molto caldo.
Terminato il misero pranzo, i due scomparvero dalla mia vista; la stanza sembrava essere molto lunga perché non riuscivo a vederne la fine con tutto quel buio in-torno a me, e poco dopo ricaddi nel sonno, ormai a me così abituale.
Ripetei parecchie volte la sequenza di svegliarmi, vedere un carceriere armato, sentirlo chiamare gli altri, mangiare qualcosa, bere il più possibile e tornare a dormire.
Cercai di calcola-re il trascorrere dei giorni dai pasti che consumavo, ma mi resi presto conto che i miei non erano certo una normale sequenza di colazione, pranzo, merenda e cena. Il buio intorno a me, alleviato solo in uno stretto raggio intorno al mio carceriere da una fioca lampada proababilmente a petrolio, non mi aiutava certo.
Finestre non ce n'erano. Il mondo esterno m’era proibito, ed ero nell'impossibilità di capire quanto tempo fosse trascorso da quel pomeriggio. Provai anche a parlare con qualcuno dei carcerieri ed anche con coloro che mi portavano da mangiare e da bere, ma quel-li sembravano non sentire.
Forse non capivano davvero le mie parole. Intanto il ricordo di quell'idioma che m'era parso subito familiare si fece più limpido. Proprio ripensando all'ultimo po-meriggio trascorso in un luogo a me noto, mi tornò alla mente quello strano tizio che mi riportò le cinquanta lire, maledette quelle cinquanta lire, e mi resi conto che proprio da lui avevo sentito per la prima volta quella strana lingua. Si, mi avevano teso un'imboscata, ed io c'ero cascato fome un fesso.
Perché rapirmi? un semplice impiegato di una ditta di spedizioni, cosa poteva valere? e cosa volevano da me? e chi erano loro?
A questa domanda potei darmi una risposta parziale. Sicuramente erano medio-orientali. Di dove non potevo saperlo, ma il loro modo di vestire, quei copricapo inconfondibili mi davano la certez-za che dovevo trovarmi da qualche parte nel vasto e purtroppo tormentato Medio Oriente.
Inoltre quella lingua, che di primo acchito avevo scambiato per arabo, poteva essere benissimo siriano o curdo, o qualunque di quegli strani idiomi che si parlano nei deserti di quelle regioni. Si, deserti. Ma io sentivo l'umidità penetrarmi nelle ossa. E nonostante facesse molto caldo, il pavimento, di terra, era sempre umido, ed anche la parete sulla quale stavo appoggiato quando non dormivo era quasi sempre bagnata.
Se ero in Medio Oriente dovevo trovarmi presso un fiume o un lago. Forse nei pressi del Nilo in Egitto, o marari lungo le sponde del Mar Morto in Israele, prigioniero di una falange armata di pale-stinesi. Ma cosa volevano da me?
Passarono ancora dei giorni, e me ne resi conto dal fatto che cominciavo a stare meglio. Riuscivo a mangiare abbastanza, ed ormai non dormivo più così tanto. Durante i lunghi periodi di silenzio assoluto, interrotti solo dal mio respiro e da quello del sorvegliante armato, pensavo, a me, alla mia casa, alla mia famiglia, e a quello che mi era successo.
Un giorno, o forse era anche notte, arrivò un tizio con un'altra lampada, e con gesti evidenti mi fece alzare in piedi. Mi indicò di caminnare lungo un cerchio che aveva tracciato, ed io obbedi anche contento di poter sganchire un po' le gambe. A dire il vero non feci molta strada. Dopo qualche passo caddi malamente, e qualcuno mi aiutò a rimettermi seduto.
Intanto il sorvegliante stava parlando animatamente con il nuovo venuto, e spesso entrambi m’indicavano, senza però aspettare da me alcun segno di risposta. Probabilmente stavano decidendo del mio futuro, ed io non potevo nemmeno capire quello che s’eran detti.
Approfittai di quei momenti di maggiore illuminazione, erano due le lampade accese, per cercare di capire dove mi trovassi. L'entrata di quella che ormai avevo accettato come la mia prigione non era ancora visibile. Mi resi conto che dovevo trovarmi in una grotta, probabilmente naturale, che veniva usata co-me carcere. Il muro era una costruzione umana, forse di tufo, come alcune case che avevo visto alcuni anni prima in Sicilia. Per il resto non c'era nulla da poter osservare, tranne i due uomini che parlavano.
Gettai allora uno sguardo a me stesso: negli ultimi tempi mi ero visto poco, e sempre nella penombra. Notai quanto fossi sudicio. Portavo gli stessi vestiti di quando mi avevano rapito, anche se a prima vista non si sarebbe detto. Ebbi l'impulso di annusarmi, e notai che puzzavo tremendamente. Un odore strano, nauseante, m’accorsi allora.
Probabilmente quando continuavo a svenire nessuno si era preoccupato di farmi soddisfare i più elementari bisogni, che certamente il mio corpo prima o poi avrà pur dovuto espletare; in un modo o nell'altro. Riconobbi allora il tanfo dell'urina, e mi sentii vile e sporco come non mai.
Poi pensai, con mia grande sorpresa, che molti uomini, in molte parti del mondo, vivono tutti i giorni in condizioni peggiori, e mi sentii meglio. Il tanfo sembrò diminuire, e quando il visitatore se ne andò portandosi via la seconda lampada, anche il lordume che mi ricopriva svanì come d'incanto. Tornai a dormi-re, come ormai mi ero abituato a fare. Era l'unico modo per non impazzire di noia; ed ormai ero diventato un vero maestro nell'arte di prender sonno.
Quando mi risvegliai l'ambiente intorno a me era cambiato. Mi trovavo in una stanza, sempre poco illuminata, ma al centro della quale stavo io, seduto su di una scomoda sedia di legno, con davanti a me un rozzo tavolo, di legno anch'esso, e sopra una lampada molto forte accesa. Questa era elettrica, però.
Di fronte a me stava certamente qualcuno, ma riuscivo solo a scorgerne i contorni, tanto era accecante la luce che mi avevano puntato contro. Mi sentivo stordito e capii che mi dovevano aver drogato, per portarmi sin lì.
Mi venne anche il sospetto che la mia faci-lità a prender sonno fosse dovuto proprio a droghe o sonniferi che i carcerieri mi somministravano con il cibo o l'acqua. E nel pensare ciò mi rattristai molto.
Non so perché, ma mi ero sempre compiaciuto nel constatare che potevo prender sonno così facilmente, e quindi estraniarmi da quella tremenda condizione. L'apprendere che facevo ciò solo perché drogato, anche se non ne ero certo, mi tolse gran parte della fiducia che ero riuscito a crea-re dentro di me.
Temetti, per la prima volta durante la mia prigionia di non tornare mai più a casa, ed ebbi voglia di piangere, anche se trattenni le lacrime, forse solo perché mi vergogna-vo di mostrarmi così vile davanti a loro, chiunque essi fossero.
D'improvviso una voce richiamò la mia attenzione. Era la figura seduta di fronte a me che parlava. Nel solito idioma a me fami-liare, ma anche del tutto sconosciuto. Parlò per un po', ed alla fine mi decisi a rispondergli un po' in tutte le lingue che io non parlavo la sua lingua.
Alla fine dovette capire, perché smise di parlare, ed se ne uscì con una strana frase in inglese, formu-lata malissimo, zeppa di errori, ma almeno in una lingua che conoscevo, anche se non benissimo.
Cercai di afferrare il nesso di quello che aveva detto, ma mi parve assurda la domanda. Gli chiesi di ripeterla, e quello, senza mostrare alcuna alterazione diede di nuovo sfoggio del suo pessimo inglese, peggiore persino del mio. Notai subito che la frase non era la stessa di prima, probabilmente non se l'era ricordata alla lettera, ma il significato combaciava.
Solo che la domanda era assurda. Mi chiedeva dove avessi nascosto i documenti segreti. Ma di quali documenti parlava? Io non ne sapevo niente, e cercai di spiegarglielo. Gli dissi anche che dovevano aver commesso un errore, che dovevano aver preso la persona sbagliata. Ma quello insisteva, e continuammo così per lungo tempo.
Ad un certo punto cominciai a vedere la lampada girare intorno a me. In realtà era la mia testa che girava. Forse l'influsso della droga stava per finire, o forse l'effetto allucinante della lampada fissa sui miei occhi aveva avuto la meglio. Comunque sia svenni. E quando mi risveglia mi ritrovavo nel mio solito carcere, steso sul pavimento come la prima volta.
Nel tempo che seguì (dire giorni sarebbe improprio, perché durante la prigionia non ho mai avuto la percezione del tempo che passasse) gli interrogatori si susseguirono ininterrottamente, alternati solo a periodi di riposo che però non sapevo quantificare.
Provai anche a non mangiare e a rinunciare all'acqua, per sottrarmi all'effetto della droga, che dovetti ammettere venirmi somministrata periodicamente, ma l'effetto che ottenni fu peggiore di quello della droga.
I carcerieri, per la prima volta, si dimostrarono tesi e nervosi nei miei confronti, e la fame, ma so-prattutto la sete, in un ambiente così caldo, mi fecero cedere ben presto. Accettai mal volentieri di tornare sotto l'effetto della droga, qualunque essa fosse, ma almeno potei tornare a bere un po' d'acqua, e ne avevo davvero bisogno.
Nel frattempo colui che mi aveva interrogato la prima volta era stato sostituito da un altro, e poi da un altro ancora. Infine ne arrivò un quarto, che con mia grande sorpresa parlava un inglese scorrevole e molto chiaro. Per me fu un sollievo e gli ripetei quanto avevo già detto ai sui predecessori.
Con lui tenni tre sedute d'interrogatorio, poi al termine del terzo incontro, così come li chiamava, mi disse che il giorno se-guente sarei stato trasferito in un altro posto e che un'altra persona si sarebbe occupata di me.
Quella notte (o almeno io immaginai fosse notte, dato che quel tizio aveva parlato di giorno seguente) tentai di restare sveglio, ma l'effetto della droga ebbe ancora una volta la meglio sulla mia voglia di resistere.
Quando mi risvegliai mi trovavo in un luogo che non faticai a definire un albergo. Non è che fosse un granché, ma dopo il lordume di quella caverna, anche la più infima delle bettole mi sarebbe apparsa come una reggia imperiale. Un tizio, sempre armato, mi indicò un piccolo bagno e dei vestiti puliti, di cattivo gusto, ma almeno di taglio occidentale.
Capii quello che mi stava indicando, e con sommo piacere mi apprestai alla mia prima doccia da non ricordavo quanto tempo.
Con mia grande delusione l'acqua scendeva solo a scatti, e comunque in quantità assai limitata. Cercai di spiegare al tizio armato che non ci si poteva lavare in quelle condizioni, ma quando quello mi puntò la canna del fucile al petto ammisi che in fondo l'acqua poteva anche bastare. Bastava raccoglierla nelle mani messe a scodella, e poi gettarsela addosso.
Impiegai un'eternità ad ultimare quella doccia, ma almeno quando uscii dal bagno puzzavo di sapone e non più di urina. Anche se l'odore del sapone che avevo usato non era poi tanto diverso da quello che avevo prima di lavarmi. Pazienza. In fondo potevo guardare fuori dalla finestra, anche se l'unica cosa che potevo vedere era un muro bianco posto a neanche due metri di distanta dalla finestra della stanza dove stavo io.
Doveva esserci un viottolo in mezzo, ed a giudicare dai rumori che salivano piuttosto attutiti dovevamo trovarci su di un piano piuttosto rialzato rispetto a terra. Indicai al mio nuovo carceriere la mia barba incolta, e feci il segno di volermela radere, ma quello negò con forza e tornò a pun-tarmi il fucile.
Intuii subito che un rasoio può anche essere un arma, e fintantoché fossi stato prigioniero mi sarei dovuto ras-egnare ad avere quella folta peluria sul viso. Chissà che non mi desse anche un aspetto più virile. Peccato non aver avuto uno specchio. Ebbi anche la tentazione di fuggire. In fondo un uomo solo potevo anche sperare di prenderlo di sorpresa, e buttarlo a terra e di fuggire dalla stanza.
Da qualche parte avrei trovato un europeo, e certamente quello mi avrebbe condutto in qualche ambasciata o consolato. Ma quando vidi aprirsi la porta, e fuori stazionare quattro uomini armati, mi passò ogni velleità di far l'eroe tentando la fuga.
Quello che era entrato, nel frattempo, mi chiese come stessi, e se fossi riuscito a farmi la doccia. Gli spiegai che fare la doccia con delle gocce d'acqua non è mica facile, e quello, stupendomi, si scusò, e mi chiese di capire la situazione. Da quelle parti l'acqua scarseggiava, ed era un bene preziosissimo. Innanzituttto da bere. Non se ne poteva sprecare troppo per lavarsi.
Purtroppo, mi disse, quella non era l'Europa. E a quel che ricordo fu il primo a darmi la conferma che non ci trovavamo più nel Vecchio Continente. Mi disse inoltre che non dovevo temere nulla. Che dovevo solo aspettare. E che presto mi avrebbero trasferito in un posto più confortevole.
Quel tizio fu di parola. Due giorni dopo capii che stava succedendo qualcosa di strano, e quando mi risvegliai il posto non era più lo stesso. Ormai c'ero abituato a quei cambiamenti.
Mi bastò una rapida occhiata per rendermi conto che avevo migliorato ancora la mia condizione. Mi trovavo in un'altra stanza d'albergo. Molto più ampia e più comoda della precedente.
Trovai anche un bagno deci-samente più spazioso, e con la doccia, con mia grande soddisfazione, perfettamente funzionante. Uscito dal bagno trovai anche dei vestiti nuovi, simili a quelli che indossavo quando ero stato rapito, e prodotti quasi certamente in Europa. Mi vestii ed attesi.
Nel pomeriggio arrivò un altro tizio (credo che li cambiassero sempre cosicché non potessi riconoscerli dopo, tanto poco li vedevo, e tanto si assomigliavano l'un l'altro) che mi spiegò alcune cose.
Nel frattempo era arrivata anche una troupe televisiva, che stava preparando la stanza come un set. Quel tizio mi diede dei fogli, scritti in inglese, e mi disse che avrei dovuto leggerli davanti alla telecamera.
Se avessi fatto ciò il giorno seguente sarei stato libero. In caso contrario sarei tornato nella mia prima prigione, e gli interrogatori sarebbere continuati con l'ausilio di alcune torture che mi avrebbero certo fatto rivelare quello che loro volevano sapere.
Riflettei un poco, ed alla fine decisi. Avevo retto bene, sino ad allora, ma ero sicuro di non poter resistere ad un mio ritorno nella caverna. Ed anche se quello delle torture era solo un bluff, non capire quanto tempo fosse trascorso, immerso nel buio di una grotta, riempito di droghe e fetido come un sacco delle immondizie, non potevo più sopportarlo. Non avrei certamente retto.
Decisi di fare quello che voleva. Ed anche se non capii tutte le frasi che dovevo leggere, non esitai neanche un istante. Quando la telecamera fu pronta partii spedito, ed una volta terminato, dopo circa un quarto d'ora, mi sentii più libero, anche se la mia paura crebbe.
La notte la trascorsi insonne, almeno finché non mi sentii le braccia pensanti e capii di essere tornato sotto l'effetto di una qualche droga. Prima di ripiombare nel sonno, ebbi il tempo di pensare se non fossi ormai assuefatto, e mi preoccupai di quando sarei stato di nuovo libero. Mi chiesi se sarei stato capace di dormire senza prendere un sonnifero, o anche peggio. Poi il sonno ebbe il sopravvento, e lasciai quei pensieri in sospeso.
Al mio ennesimo risveglio mi trovai in un ambiente alquanto diverso dai precedenti. Sentivo molti rumori intorno a me, e soprattutto un vocio continuo, anche se indistinto. E quando sentii un rombo, ed il rullare di una coppia di motori, capii di trovarmi in un aeroporto.
Cercai di capire dove mi trovassi, in quale parte del mondo, ma i miei carcerieri, che erano ancora presenti, anche se questa volta indossavano tute mimetiche, troppo comuni per capire a quale stato appartenessero, mi avevano segregato in una saletta dove io ero l'unico ospite.
Pensai, e credo a ragione, che quella dovesse essere la saletta VIP, e quel pensiero mi ridiede un po' di allegria. In fondo se stavo in un aeroporto era perché mi volevano rispedire a casa, e forse la promessa di libe-rarmi non era solo di circostanza.
Ad un certo momento due militari mi presero sottobraccio e mi condussero verso la pista. In mezzo ad un aeroporto certamente dissimile da quelli che avevo visto sino ad allora, stava un grosso Jumbo di una compagnia aerea araba, o almeno così pareva dalle scritte sulla coda.
Dietro di noi, un tizio vestito con i classici indumenti da arabo (ma sono poi davvero tutti uguali quei vestiti?) urlò qualcosa alle nostre spalle. Un militare, voltandosi. fece segno a quell'uomo di avvicinarsi.
Questi si fece appresso, e mi ha allungò la mano. Nel pugno stringeva qualcosa, e mi faceva segno di aprire la mia mano. Dopo un po' d'incertezza lo feci, e lui vi depose una moneta, ritraendo subito dopo la sua mano, sorridendonmi mentre se ne andava. Guardai la moneta che stava sul palmo della mia mano, e subito la riconobbi: uno stupido cinquanta lire italiano, di quelli piccoli piccoli, che vedi a fatica.
Mi venne la tentazione di buttarlo il più lontano possibile, ma poi notando i militari che mi fissavano con aria attonita e stupita, pensai fosse meglio non rischiare d’irritarli. Feci un cenno di saluto a quello che solo allora riconobbi come quel tizio che mi ridiede la stes- sa (?) moneta molto tempo prima in Italia, quando tutta questa storia era solo al principio. Mi girai e finalmente i militari mi accompagnarono sulla scaletta, e uno stewart mi fece sedere nell'unico posto libero dell'aereo.
Capii che avevano atteso che tutti i passeggeri fossero a bordo per farmi salire. Erano stati davvero prudenti. Poco dopo il Jumbo cominciò a rullare, e ben presto lo sentii sollevarsi da terra.
Dopo alcune ore di volo, una voce, prima in arabo, poi in inglese, annunciò il nostro imminente atterraggio. Ero curioso di sapere la destinazione. Fui accontentato quando l'aereo virò per approssimarsi all'aeroporto, e da uno dei finestrini riconobbi l'inconfondibile sagoma di Burckingam Palace; stavamo atterrando a Londra.
Lo stewart che mi aveva indicato il posto a sedere, subito dopo l'atterraggio mi fece segno di aspettare. Così scesi per ul-timo, ed in fondo alla scaletta trovai alcuni agenti di Scotland Yard ad aspettarmi. La cosa non mi parve sospetta finché uno di essi non mi ammanettò.
Chiesi spiegazioni, ma nessuno me le volle dare. Mi portarono in una saletta riservata, e lì mi fecero a-spettare, sorvegliato da un paio di agenti in borghese e da un nugolo in uniforme. Chiesi se potessi avere un caffé e un giornale italiano. Il primo mi venne concesso, il secondo negato.
Dopo un paio d'ore mi caricano su un aereo dell'aviazione militare italiana che decollò immediatamente dopo che mi fui imbarcato. Intorno a me stavano solo soldati dell'aeronautica. Chiesi loro cosa stesse succedendo, ma nessuno mi volle dare ri-sposte. Ad una mia ennesima domanda, quello che doveva essere un capitano, se ho riconosciuto bene le mostrine, mi disse che loro stavano solo eseguendo gli ordini; e che i loro ordini erano di prelevarmi a Londra e di portarmi in Italia.
E finalmente arrivammo anche in Italia; a Pisa per l'esat-tezza. Quando scesi dall'aereo, scortato dai militari, trovai i carabinieri ad attendermi.
Il seguito è facile immaginarlo. Fui portato in un carcere di massima sicurezza (credo si tratti di Pianosa, ma nessuno me lo ha mai confermato), e da ormai due mesi mi stanno interrogando giorno e notte.
Vogliono sapere perché sono fuggito a Bagdad, perché ho portato con me dei documenti segreti, perché ho regi-strato quel videoclip, e perché sono tornato quando sapevo che sarei stato arrestato. Ho cercato di spiegare loro che a Bagdad (ecco dove ero finito, in Iraq) mi ci avevano portato con la fo-za ed a mia insaputa. Il videoclip l'avevo girato per ottenere la liberazione.
Di documenti segreti non ne sapevo nulla, ed ero tornato perché credevo di poter tornare a casa, e che comunque là ero prigioniero, e nessuno mi aveva informato di quello che stava accadendo.
Tantomeno si erano degnati di farmi guardare un noti-ziario o leggere un giornale. In fondo, mi sarebbe piaciuto aggiungere, esattamente come stavano facendo loro, che erano italiani e non iracheni! Ma meglio ho fatto a tacere. Comunque loro non mi hanno creduto, e continuano ad interrogarmi.