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APPELLO CONTRO LA DESERTIFICAZIONE IN ITALIA
(di Flavio Frontini, 24 febbraio 2006)
O. PREMESSA PRIMA
In presenza di un clima mondiale sempre più caldo,
la maggioranza degli stati ha reagito imponendo – dopo numerosi pronunciamenti
di esperti e vari consessi ufficiali tipo Kyoto – il contenimento delle
emissioni di anidride carbonica, gas ad effetto serra indissolubilmente connesso
alla combustione di ogni tipo.
Ora, poiché petrolio, carbone, metano ed altri combustibili debbono
essere bruciati di continuo, ed in quantità crescenti, per le esigenze
della vita e del lavoro specialmente nei paesi più sviluppati, questi
ultimi si sono trovati davanti al dilemma sviluppo-vivibilità.
Per evitare l’impasse, il mondo industrializzato ha escogitato il pietoso
escamotage dei sink (in inglese: scarico, sentina), cioè dei “i
buchi neri” in cui riversare la tanta anidride carbonica prodotta; in
parole povere, il primo mondo “compra” le foreste da quel terzo
mondo che le ha ancora, facendo sì che non le abbatta, cosicché
esse possano assorbire la detta anidride.
Attualmente dunque l’Italia – pur avendo milioni di ettari di
terre incolte dove poter utilmente impiantare boschi efficienti – paga
il Congo od il Brasile o chissà chi altro per poter continuare ad inquinare,
eludendo altresì un serio impegno verso le energie rinnovabili come
pure per l’impiego delle tecnologie più pulita nella produzione
di base dell’energia stessa.
Per inciso, ricorderemo che, aldilà di ogni impegno, la deforestazione
dilaga in tutto il mondo restringendo la biomassa di cui invece si vorrebbe
sfruttare l’attività fotosintetica.
1. LA SITUAZIONE
Di fronte all’esigenza mondiale di conservare le foreste,
non è assurdo ricordare che qualcuno – non uno stralunato profeta
- ha affermato che nel passato dell’uomo c’era la foresta mentre
nel suo futuro c’è il deserto.
Tuttavia, in attesa di un futuro più tragico, dobbiamo riconoscere
che il deserto c’è già, e ce n’è tanto che
esso, comprese le aree semi-desertiche, ha una superficie di oltre 33 milioni
di chilometri quadrati, pari a circa il 20% delle terre emerse; Sahara, Gobi,
Atacama, Sonora, Takla Makan, Sind, Patagonico, Mojave, Kalahari, Namib, Arabico,
Iraniano, Turkestano, Australiano, Borrego, Negev, Thar, Chihuahua, sono altrettante
terre morte che – nell’indifferenza del mondo – ne stanno
fagocitando altre come ad esempio sta facendo il Sahara, lungo i suoi 8000
km di larghezza, nei confronti del suo sud, cioè il Sahel.
Addirittura, le lande sabbiose stanno incuneandosi anche nel polmone verde
del mondo, cioè in un Brasile dove il disboscamento speculativo –
fatto specialmente per produrre carne da vendere sul mercato statunitense
– in breve porta alla laterizzazione del terreno vegetale, sottile e
leggero per definizione.
Fino ad oggi anche in Europa non esistevano aree desertiche ma purtroppo,
sia per il riscaldamento globale che sta spostando verso nord l’equatore
termico terrestre sia per la vicinanza all’immensa fornace ardente sahariana,
le cose stanno cambiando, specie per i paesi mediterranei.
Si sa infatti dei problemi di aridizzazione che ha la Spagna nel suo versante
orientale, quello cioè che guarda verso l’Italia, dove i venti
atlantici arrivano dopo aver perso l’umidità apportatrice di
pioggia ma ora anche l’Italia, sia per sua la sua centralità
rispetto all’arido Maghreb, sia per la sua carente, se non addirittura
dissennata, politica del territorio nel Mezzogiorno – la terra delle
fiumare, figlie del disboscamento montano – sta entrando nello stesso
tunnel.
E la prova di ciò risiede nel fatto che presso il Ministero dell’Ambiente,
qualche anno fa, è stato istituito un Gruppo di Lavoro sulla Desertificazione.
Di questa iniziativa pochi sanno qualcosa; d’altronde non potrebbe essere
che così dato che la stampa nazionale ha del tutto ignorato questa
allarmante novità nel panorama delle notizia di carattere ecologico
nonché economico. Pertanto, così stando le cose, la pubblica
opinione non ha avuto alcuna occasione di dibattito su responsabilità
e rimedi, e ciò è più che grave, visto che gli interventi
– come insegna la quasi secolare lotta di Israele per ricuperare le
proprie aree desertiche – non possono essere certo di breve momento.
2. LA SITUAZIONE ITALIANA
La gran parte dei deserti è il risultato di processi
naturali, durati talvolta milioni di anni, sui quali le attività antiecologiche
umane in generale non hanno avuto un’influenza significativa.
Tuttavia – secondo gli studiosi – almeno per quanto riguarda il
Vicino Oriente e l’Iran, l’eccesso di pascolo caprino ha certamente
concorso alla riduzione della copertura arborea – l’unica “pompa”
in grado di mantenere le falde idriche a contatto con la superficie –
aprendo la via alla comparsa del deserto.
Abbiamo parlato specificamente delle capre perché, mentre le pecore
brucano l’erba a fior di terra, le prime si cibano normalmente dei germogli
di alberi e di arbusti, condannandoli prima al disseccamento poi alla morte.
Nel caso italiano non si può parlare di prevalenza del pascolo caprino
bensì di uno storico eccesso di legnatico e nella riduzione –
da bosco a seminativo – di vasti territori marginali utilizzati durante
la Battaglia del Grano, di autarchica memoria.
Le prove di questa situazione di dissesto consistono nel vasto fenomeno nostrano
delle frane (oltre 3000 frane in atto che interessano più di 150.000
ettari, specie nel Sud) e quello, più che gravoso per i bilanci pubblici,
delle ricorrenti alluvioni autunnali che hanno invariabilmente origine in
montagne scarsamente boscate o francamente brulle.
Ora, considerato che il legname ed suoi derivati, fino alla pasta di cellulosa
– ricordiamo che tra l’altro siamo grandi produttori di mobili
– è una delle più consistenti voci all’importazione
dopo petrolio e carne, di fronte all’assoluta immobilità di stato
e regioni, per non parlare delle Comunità Montane, la cui unica funzione
sembra quella di aprire strade in montagna, facendo da battistrada alla speculazione
edilizia in quota, si resta senza parole.
Ed a chi chiede il perché di questa mancanza di azione, si risponde
che un serio programma di rimboschimento costa troppo, non “rende”
nel breve periodo, e che comunque la cosa è – lasciamo stare
la produttività delle migliaia di forestali calabresi – in mano
alle regioni.
Perché invece non tenere presente che ogni 50 ettari di bosco ad alto
fusto si crea un posto di lavoro assolutamente non precario, che non teme
nulla salvo gli incendi, cioè quella tragedia a cui nessuno vuol porre
seriamente rimedio.
Da un serio rimboschimento delle tante tantissime montagne nostrane non potrebbero
derivare che benefici; tanti che stentiamo – sapendo bene che il lavoro
in pianura si difende in montagna – ad elencarli, seppure disordinatamente
come invece facciamo:
. poiché la maggior parte delle zone sub-aride o disboscate sono nel Mezzogiorno; il rimboschimento, progettato anche con la supervisione congiunta del Corpo Forestale dello Stato e delle associazioni ambientaliste, potrebbe essere un piccolo ma serio atto di solidarietà tipo Nord-Sud, molto più efficace dei tanti altri che si sono succeduti dalla Cassa del Mezzogiorno in poi;
. se gli italiani, come accade, non vorranno sporcarsi le mani con la terra, potremmo impiegare stagionalmente gli immigrati che, provenendo massicciamente dal desertico Maghreb, potrebbero riportare nei rispettivi paesi semidesertici un cultura ambientale di grande valore;
. in presenza di crisi economiche, si propone subito una politica keynesiana di deficit spending anticongiunturale, basata su lavori pubblici. Ora, quale migliore occasione di questa per dare lavoro senza il vincolo dell’importazione di risorse, anzi con la seria prospettiva di ridurre un’importante voce all’import?;
. una buona copertura boschiva è preziosa – specialmente per rilievi acclivi – perché quando piove essa assorbe la quasi totalità della prima acqua e buona parte di quella successiva, facendola percolare nel terreno, dove essa si accumula, per riaffiorare poi gradatamente. Questa preziosa funzione del bosco, chiamata regimazione delle acque, è assolutamente importante per montagne aguzze come le nostre ed ha una certa importanza anche per il migliore esercizio della centrali idroelettriche; questo “imbrigliamento” delle acque meteoriche ne contrasta altresì la corrivazione, cioè il radunarsi di tutte le acque verso i fossi e, dopo, i fiumi, ciò che ne causa il rapido ingrossamento, fino all’esondazione, che è la madre di tutte le alluvioni;
. il bosco, oltre a svolgere un’importante azione di filtraggio dell’aria, arricchendola altresì di ossigeno, riduce le escursioni termiche e, abbassando comunque la temperatura, concorre a contrastare il riscaldamento generale indotto dall’effetto-serra;
. il bosco attiva l’evapotraspirazione, cioè l’immissione, tramite le foglie, di umidità nell’atmosfera, così da favorire la formazione di nubi e la conseguente pioggia; in altre parole, laddove mancano gli alberi la pioggia si fa scarsa od è del tutto inesistente. I deserti sono l’esempio massimo della nocività della mancanza di tale preziosa fonte di umidità, proprio per l’assenza di copertura arborea. Per inciso, si può ricordare che nei deserti l’acqua non manca ma, senza alberi che la tengano aderente alla superficie, essa sprofonda a decine di metri di profondità, cioè là dove non è più raggiungibile;
. sebbene la macchia mediterranea sia un buon ecosistema,
in quanto si conserva nel tempo e, anche
se percorsa dal fuoco, si rigenera naturalmente, un buon bosco ha tutta un’altra
positività perché protegge il terreno dall’erosione, dà:
. legname da lavoro (ora noi ne importiamo grandi quantità da tutto
il mondo, tenendo in Russia, in Scandinavia, in Canada o nei Balcani i relativi
posti di lavoro). Si sa che sono esistiti paesini svizzeri o tedeschi od austriaci
i cui gli abitanti non pagavano le tasse, facendovi fronte con i proventi
dei propri boschi, religiosamente conservati;
. cippato, cioè sfridi e ramaglie sminuzzate da utilizzare come combustibile
ecologico anche in impianti di media taglia per la produzione di energia;
. tutta la serie di frutti del sottobosco, anche molto pregiati come i mirtilli,
i lamponi, le more, i funghi, o del sottosuolo, come i tartufi;
. miglioramento del paesaggio con le relative opportunità di turismo
– sono pochi coloro a cui piace il deserto o l’aridità
- e, da ultimo, ricovero e nutrimento per numerosissime specie animali, spesso
minacciate di estinzione;
3. COSA SI FA ALL’ESTERO
Anche se, come abbiamo già detto, nessuno opera concretamente
come Israele che ricupera il deserto sviluppando al massimo la ricerca delle
tecniche più efficienti in fatto di irrigazione ovvero l’impiego
delle piante più resistenti sia alla salinità sia alla siccità,
cosa per cui andrebbe apprezzato, specie dagli arabi che sono un po’
i padri dei propri deserti, in genere gli stati di cultura protestante germanica
od anglosassone sanno conservare il proprio patrimonio arboreo.
Altrove – dei paesi mediterranei di cultura latina e cattolica abbiamo
detto – specie nel Terzo e Quarto Mondo, la deforestazione – fatta
soprattutto per vendere legname, anche raro, come ad esempio il teak, al Primo
Mondo consumista, e principale causa del declino o dell’estinzione di
tantissime specie animali – è una delle maggiori fonti di reddito
e perciò difficilissima da contrastare.
Solo in casi molto rari, come quello della ministra dell’ambiente keniota
Vangary Maathay – per questo, Premio Nobel – che sembra abbia
messo a dimora milioni di alberi, si sa di seri programmi di protezione delle
foreste e, men che meno, di investimenti nella riforestazione.
Né – e questo è una vera bestemmia – progetti per
contenere o ricuperare il deserto provengono dal mondo musulmano, che pure
avrebbe da investire i suoi stratosferici proventi dalla vendita del petrolio.
4. AVVERTENZA IMPORTANTE
Sebbene la lobby petrolifera lo neghi a spada tratta, la
gran parte degli esperti conviene sul fatto che esista un effetto-serra e
che ciò influisca negativamente sul clima e, indirettamente, sulle
disponibilità di acqua, anche potabile.
Ovviamente, le modificazioni indotte dall’abnorme aumento della concentrazione
di anidride carbonica nell’atmosfera vanno nel senso di un sempre maggiore
riscaldamento; non per caso, si dice che – l’abbiamo già
detto – il 2005 sia stato l’anno più caldo dal 1800.
Se questo è vero, piantare alberi e fornire loro la necessaria irrigazione
di soccorso durante le prime estati dall’impianto, diventerà
sempre più problematico e costoso. E, poiché procrastinare nel
tempo questa iniziativa non farà che renderla più costosa e
meno sostenibile per la sempre più fragile finanza statale e locale,
l’imperativo è fare qualcosa subito.
Noi che bazzichiamo da tempo ed in buona compagnia i problemi del mondo futuro,
diciamo che ogni albero piantato subito significa modificarlo seppure impercettibilmente
in meglio, vorremmo che si attivassero uomini come quello descritto da J.
Giono nel suo volumetto “L’uomo che piantava gli alberi”.
5. CONCLUSIONE
In periodi di stasi o di recessione economica gli stati varano
piani di grandi lavori pubblici destinati a sostenere il reddito globale;
ora, essi non hanno solo il normale vincolo dell’importazione di macchinari
e di combustibili dall’estero ma anche la triste conseguenza di erodere
il già risicato terreno agricolo pregiato di pianura, impermeabilizzandolo
sempre più a danno delle falde idriche.
Se occorresse, basterebbe ricordare l’esempio del traforo del Gran Sasso
che, avendo intercettato grandi vene d’acqua sotterranea, ha provocato
l’inaridimento delle terra a monte del foro, costringendo la Regione
a rifornire gli abitati rimasti in secca con le autobotti.
Nel caso di programmi di rimboschimento questo tipo di vincoli e di strascichi
non esiste, anzi il reddito prodotto andrebbe direttamente nelle tasche dei
lavoratori senza – cosa non ultima da considerare – il pericolo
di ingerenze criminali.
Così stando le cose, le Regioni che pur avendo aree da ricuperare –
chi scrive ha sempre davanti agli occhi zone come quelle attraversate dalla
S.S. 17 dell’Appennino Aquilano, ovvero quelle in perenne frana, vanamente
contrastate con lunghe travi di ferro confitte nel terreno, visibili lungo
la ferrovia Napoli-Metaponto – che non si attivassero dovrebbero essere
esautorate dallo Stato con uno specifico atto di surroga, in vista del superiore
interesse nazionale.
Altrettanto poi dovrebbe essere fatto, nei modi opportuni, nei confronti dei
comuni che, pur avendo nel proprio territorio vaste zone montane prive di
copertura arborea si opponessero, per ragioni estetiche, all’installazione
di impianti eolici per la produzione di energia rinnovabile.
In pratica, il semplice fatto che un comune lasci senza copertura arborea
– e perciò in preda all’erosione ed al dilavamento –
propri terreni, magari anche già percorsi dal fuoco, deve costituire
una nota di demerito tale da ripercuotersi anche sui rimborsi provenienti
dallo stato o dalla UE.
6. LA NOSTRA PROPOSTA
Nessuno, specie se giovane, può sottovalutare la nostra
proposta che invece apre una serie incredibile di opportunità, seppure
scaglionate nel tempo.
Noi ci rivolgiamo proprio a questa fascia di cittadini, chiedendo loro di
unirsi a noi per porre il problema alla nostra ignorante classe politica.
Solo da un movimento popolare culturalmente attrezzato può venire una
“domanda politica” che possa essere seriamente presa in considerazione.
Aspettiamo di sentirvi .
Per contatti:
Flavio FRONTINI, 0744 / 42.35.61 (ore pasti)
Michelangelo NITTI, 0744 / 42.95.44 “ “