Lettere dall'Asia - Bangkok (Thailandia): Concentrati di diario (3 novembre 2008)

Lettere dall'Asia


Bangkok (Thailandia): Concentrati di diario (3 novembre 2008)

Raccolgo in questo post sette brani tratti da alcune pagine del mio diario e condensati in poche centinaia di battute.
Ne potete trovare un altro nella sezione "Italians - Una giornata nel mondo" del Corriere della Sera, dove partecipo alla gara organizzata da Beppe Severgnini.

Potete leggermi e votarmi entrando nell'area dedicata al concorso all'interno del sito www.corriere.it. Scegliete la fascia oraria delle 23:00, poi fate scrolling sulla fascia di sinistra fino al racconto numero 16: "Come una mosca nella tela".

L'alveare

Ramadan al Cairo è un periodo curioso. Passato il tramonto, a causa dell’Iftar, le strade e le piazze sono semideserte. Svaniscono in un sogno il consueto frastuono e quell’atmosfera da San Siro ad un concerto di Vasco. Se attraversi una strada puoi farlo tranquillo, senza scattare come un gatto atterrito tra le auto che sfrecciano sulla tangenziale.

Ma qualche ora più tardi, diciamo all’una, se scendi dall’hotel per mangiare un boccone, varcato l’uscio vieni calamitato da un vortice di suoni, luci ed odori, che osservi impalato con gli occhi strabuzzati. Fino a notte fonda i negozi sono aperti e la gente si accalca davanti alle vetrine, a caccia di scarpe, abbigliamento e dolciumi. La cosa che sorprende è la varietà dei passanti. Non ci sono soltanto uomini maturi, ma pure vecchietti dal passo trascinato e mamme con bambini che fanno la spesa.

Un intreccio di flussi ha invaso ogni spazio. Si scorrono addosso, incrociandosi, attorcigliandosi, scontrandosi e ostacolandosi come mille bisce d’acqua, che fuggono all’infinito, di diametro in diametro, all’interno di una bacinella in un mercato vietnamita. Chi ha un po’ di fretta e in preda all’impazienza ha già picchiato le scarpe contro i tacchi di un passante, decide di effettuare un taglio laterale e condividere la polvere delle corsie stradali con i cordoni infiniti di veicoli ammaccati, leggermente più ordinati di quelli sui marciapiedi ma, manco a dirlo, più pericolosi.

Agli incroci maggiori i flussi si intersecano e, come sullo schermo di un vecchio videogioco, attraversano a scatti con sequenza alternata. Poco prima delle due te ne torni in albergo e l’attività dell’alveare non si è ancora placata. Quando sei al buio, sotto le lenzuola, attraverso le fessurine tra le ante delle finestre filtrano ancora, tra i vapori speziati, gli acuti dei clacson, gli strilli degli ambulanti e il rombo baritonale del rumore di fondo.

Questa è Il Cairo durante il Ramadan, qui la ninnananna la cantano così.

Dignità caparbia sull'isola di Tioman

Nel ristorante entra un uomo di mezza età. Abbigliamento e tratti sono molto dignitosi, quasi aristocratici. Ricorda il signor Higgins, l’amico di Magnum, l’investigatore privato impersonato da Tom Selleck.

Si va a sedere ad un tavolo non ancora sparecchiato. Prende uno dei due piatti e svuota gli avanzi di frittata sopra il riso al pollo rimasto sull’altro. Afferra le posate, con la forchetta spinge il cibo all’interno del cucchiaio e poi se lo mette in bocca. La postura è impeccabile, con la schiena dritta, le spalle aperte e gli avambracci poggiati con eleganza sul bordo del tavolo. Mastica lentamente prima di deglutire con un movimento lieve.

Poi si rilassa, alza lo sguardo e osserva le colline davanti a sé, si volta verso il molo e pensa, sogna, si ricorda. Di quando aveva trent’anni, lassù in Scozia, nel castello in riva al lago, seduto al tavolo in ciliegio già appartenuto al suo trisavolo, il conte William Francis Higgins, il cui ritratto, appeso vicino al camino, sovrastava l’enorme sala. Di quando ancora poteva permettersi il servo indiano, che gli portava un fagiano impallinato da lui stesso, alla battuta di caccia con gli amici duchi e visconti.

E gli sembra ancora di sentirla in bocca quella carne saporita, il retrogusto metallico sul foro del colpo, uno dei migliori che avesse mai tirato.

Lo sguardo dal molo ritorna sul piatto. Potrebbe prenderlo lo sconforto, per quel che c’è dentro, per quel che sta facendo; è invece l’appetito ad avere il sopravvento. William Francis Higgins III scrolla le spalle e spinge in avanti il mento, arcuando le labbra in un broncio indifferente.
“A gratis, pure ‘sto pollo non è poi così male”, liberamente tradotto dall’inglese forbito con cui non riuscirà mai a fare a meno di esprimersi.

Il ristoratore non arriva. Higgins finisce la porzione che è riuscito ad assemblare, beve un sorso di succo d’arancia e si pulisce la bocca con una salvietta riciclata.
Quindi si alza, sistema la sedia e poi con calma se ne va.

Mani in movimento

È l’una. Interrompo la lezione e porto i miei studenti alle Torri Petronas. Scegliamo un bel caffè coi tavoli all’aperto, investiti da soffici sbuffi d’acqua fresca. Ci sediamo e apriamo i menu, poi qualcuno chiede: “Ma Huda dov’è?”

Ad un altro tavolo sta seduta una donna, con un velo da cui spunta un viso paffuto e simpatico. Inconfondibile: è Huda, viene dall’Oman.

Mentre noi stavamo scegliendo il posto, lei quatta quatta, attenta a non farsi notare, è scivolata verso un tavolino dalla vista occultata, proprio quello che faceva al caso suo. Di fronte a lei, silenziosa e compunta, si eleva una colonna di metallo opaco.

Io faccio finta di niente e maschero l’imbarazzo con il menu. Faccio finta di niente e non faccio niente, perché ne sono sicuro: è meglio così. Tutto attorno a me si agitano mani. Quelle di Carmen, minuscole e ansiose, che si affannano verso Huda per invitarla a unirsi a noi. Il palmo di Huda che si allunga in avanti, per dirci di girarci e di scordarci di lei. Le manone di Aleksandar, lo studente di Zagabria, che stringono i braccioli come fossero pompette, mentre la sua testa si volta nervosa, verso la compagna auto-emarginata. Strizza le labbra e gonfia le gote. Facciamo qualcosa? È la sua domanda muta. Ma cosa? Come? La risposta che non c’è.
Le dita degli arabi scorrono lungo il menu. Sereni, imperturbabili: Huda? Ma chi è?

Sono a disagio ma non mi stupisco. Anche quando pranziamo in mensa, non si siede mai con noi. All’inizio del corso ha individuato il suo posto: l’unico tavolino appoggiato alla parete. Se non osserva il cibo che si porta alla bocca, può soltanto fissare il muro davanti a sé.

Terminato il pranzo i sauditi vanno in moschea.
Anche Huda ha finito, e attende a testa bassa. Quando gli uomini sono lontani si alza pure lei, con un movimento del capo sembra saluti la colonna, poi ci sorride e finalmente si avvia.

Huda silenziosa, a pranzo con la colonna.
Ce l’ha chiesto con le mani, scordiamoci di lei.

Una flebo di linfa vitale

Non c’è rollio né moto di beccheggio, il traghetto scivola dall’isola alla costa, tagliando lo spicchio del golfo siamese. Il motore sbuffa e la barca rallenta, io scollo la schiena dal sedile in velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa un cono in cui mi rifugio per sfuggire a questo forno. Nemmeno la brezza che fa solletico al ponte indebolisce la presa dell’afa snervante.

Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al molo. Una colonna di pneumatici riveste un pilastro. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli. Con gli altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra d’avvicinamento. Lo scafo arrugginito si appoggia alla struttura stiracchiando le fibre di un pneumatico malmesso. Alcuni frammenti di staccano dal pezzo e si infilano muti tra le piccole onde.

Facendo perno sulla colonna di legno il traghetto si mette in linea con il molo. Si abbassa il portellone da cui sfilano le auto. Sopra il pontile un blocco di juta e terriccio sbuffa nuvolette ad ogni passaggio. Tutto riflette il grigio del cielo.

Borse in spalla barcollo sulla passerella, attraverso il ponte che cigola e traballa e percorro il corridoio che ci collega al piazzale. Passo dopo passo, senza volare, percorro a ritroso la penisola malese. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, poi l’ultimo pulmino che mi porta a Bangkok, zigzagando tra caldo, palme e baracche, con l’acqua e la polvere sotto le scarpe.

Il viaggio è noia, pensieri e paragrafi, il viaggio è una flebo di linfa vitale.

Scatto d'orgoglio

Patong per reputazione non è un atollo sperduto ma alle 5, alle volte, ha uno scatto d’orgoglio. Un fremito scorre sul profilo della spiaggia. Dopo aver sopportato il caldo, i venditori e bambini, il grosso dei bagnanti fa i bagagli e se ne va.

Giovani thai, pelle scura e tatuaggi, chiudono gli ombrelloni e impilano i lettini. C’è chi fa ancora un bagno, chi ormeggia il motoscafo e chi con le cuffiette sgambetta sulla battigia. I colleghi gay delle squillo di Bangla giocano a pallavolo con i clienti di ieri.

Finalmente la spiaggia è larga più di cinque metri. Mi siedo, apro il libro e mi sdraio sulla sabbia. Qualche minuto più tardi finisco un capitolo, punto il segnalibro e osservo il golfo. Just in time. Il sole cala solido e fa splash come un uovo sulla schiuma delle nuvole che farciscono la baia. Acciaio e fiammate fanno a fette il cielo, giocando in parallelo con l’orizzonte sfumato. Con la ritirata dell’orda d’alta stagione, sono riapparse nella foto la sabbia e le piante, un groviglio di foglie arcuate e fluorescenti. Una nuvola d’oro ci avvolge gradualmente: è tornata l’atmosfera, la magia del tropico.

L’incantesimo è rotto da un tonfo e delle grida. Un thai con un sidecar ha investito due straniere. Accorrono i soccorsi, si scusa il thailandese, poi ne arriva un altro e scatta un putiferio. Rotolano sulla sabbia, cadono in acqua, tra sibili di pugni e parole grosse. La situazione si calma quando arriva un gigante, due parole delle sue e gli sguardi sono a terra. Nessuno è umiliato, tutti soddisfatti: in Thailandia l’importante è salvare la faccia.

Sulla via del ritorno mi affianca un pick up. Sul cassone sta in piedi un nervoso elefantino. Tra gente, luci e musica, sembra spaventato. Piazza le zampe sopra la cabina, che cede con rumore di lamiera divelta.

Quando cala sul tetto anche una zampa posteriore, i finestrini esplodono e il parabrezza si crepa. L’animale scivola verso l’esterno, atterra con una capriola e scudisciate di proboscide, poi comincia a correre lungo la viuzza. Alcuni turisti, che scattavano foto, si spaventano e scappano dentro un ristorante.

L’elefantino ora trotterella tranquillo, un uomo lo raggiunge e lo afferra per l’orecchio. Ridono tutti, tranne il pilota del Toyota, che controlla i danni e scuote la testa.

Mi avvio verso la doccia, sono già le 6. A Patong l’ora migliore termina così.

Cremona-Padova, furia distruttiva

Laggiù in fondo lucine bianche brillano ad intermittenza, mentre rombi di acciaio flesso ruotano come nel sistema surround. Ero in un sogno, ma dopo aver aperto gli occhi non mi sembra ancora di essermi svegliato. Sopra di me c’è uno scorcio di cielo lombardo, la sua versione estiva, tersa e frizzante. Sto seduto su un sedile in finta pelle nocciola, in un vagone riciclato delle Ferrovie dello Stato. Invece che a lato, oltre il finestrino, il cielo lo osservo in alto, attraverso uno squarcio sul tetto.

Ore 19, manca poco al tramonto, la nuvola che mi passa sopra, panna su un gelato al puffo, scorre su un mondo senza internet e cellulari. Ci sono invece le bande di ultrà, che trascorrono già le loro domeniche devastando treni in compagnia.

Una furia distruttiva si è impossessata del convoglio. L’esempio dei “capi” e la notizia che i poliziotti sono stati rinchiusi nel vagone di testa, sono bastati ad animare un secchione magrolino, che con tanto di occhialetti, zazzera e brufoli, si sta spezzando la schiena per rimuovere una parete. Si ferma, ha il fiatone, si guarda le mani solcate di viola, lascia andare il legno, strappa un poggiatesta e lo getta dal finestrino come se fosse una bomba a mano.

La notizia ci precede: le stazioni sono deserte, le porte di ingresso ai binari sono sbarrate e nelle città più grosse al di là delle vetrate si ammucchiano gli hooligan delle squadre locali. Si dimenano e ruggiscono come belve in un film muto. Sembrano un branco di cani randagi, rinchiusi all’interno di una gabbia di plexiglas, mentre un carro attraversa il loro territorio esponendo dei bastardi accalappiati altrove. Il macchinista non si ferma. Se un ferroviere a terra esce allo scoperto viene ricacciato nel proprio bunker a colpi di sedili e lavandini.

Corre il treno, la Lombardia è alle nostre spalle. Alla periferia di Padova strilla il freno d’emergenza: mezzo treno si disperde, noi ripartiamo lentamente. Entriamo in stazione tra le sirene della polizia.

Quello del globo

Quello del globo, ecco chi era! L’avevo sniffato da qualche secondo, l’olezzo pungente sbucato come un fungo tra gli aromi di spezie nel bazar di Kuala Lumpur. La folla si apre scorrendogli attorno come flutti di fiume attorno a un isolotto, ma il globo, quello scudo che lo circonda, lo scopri col naso e non con gli occhi.

Si avvicina al tuo tavolo con l’espressione di un pazzo che per passare inosservato si finge rimbambito e allunga la mano come per toccare un alieno. Ti accorgi che d’istinto sei entrato in apnea, mentre alzi di scatto lo sguardo dal libro, poi ignori anche lui come chi l'ha preceduto.

Ma quando cerchi il segno che hai perduto, con la coda dell’occhio continui ad osservarlo mentre percorre il marciapiedi con passo strascicato. Ti chiedi se quell’espressione da matto o deficiente gli stia incollata al muso in maniera permanente o se se la scrollerà di dosso con la stessa lentezza con cui ritira la mano che ha chiesto l’elemosina.

Lo osservi ipnotizzato col dito sul libro, dimenticato su una riga che non c’entra nulla, mentre col movimento di un robot antiquato lui gira il collo e punta il pavimento. Raccoglie qualcosa con l’agilità di un vecchio, tu pari la zaffata con l’airbag delle guance e ti chiedi al contempo cosa avrà trovato; che se ne potrà fare dell’incarto di una caramella, di un mozzicone o di un tappo di bottiglia?

Poi lo osservi mentre scruta l’oggetto: se non sapessi che il suo sguardo allucinato è l'espressione naturale con cui compie ogni gesto, sospetteresti che tra le dita regga l’artiglio di un mostro. Abbassa la mano e ti fissa sbalordito, ma sai che non sei tu ciò che sta osservando. Quindi riparte con la solita flemma, trova un cestino e vi getta il rifiuto.

Ora la bocca si è aperta pure a te. Ti riprendi di scatto e ti irrigidisci sulla sedia, frughi nella tasca e gli dai qualche spicciolo.

Quello del globo puzza di brutto. Credo che una doccia non l’abbia mai fatta, ma alla pulizia della sua città sembra tenerci parecchio.

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© 2008 Fabio Pulito

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