Ascolto
sempre con grande emozione la sinfonia della Norma proprio perché fra le sue
note mi perdo nel ricordo e nelle emozioni della mia Sicilia.
Una
sinfonia appassionata e coinvolgente dai grandi contrasti, con il sapore della selvaggia
bellezza della natura e la drammaticità ed il mistero dell’attesa, per questo
composta da un siciliano, morto giovanissimo di sifilide, consumato dalle
donne, dopo aver bruciato la sua vita in pochi anni creativi, passionali ed
intensamente vissuti.
Chiudo
gli occhi ed ascolto l’attacco dei tre pieni orchestrali in accordo minore,
seguito dai violini in un inquietante crescendo, e poi ancora il largo
acquarello campestre dei flauti e poi ancora i toni travolgenti e drammatici
dei violini.
Chiudo
gli occhi e le note mi portano su per le bianche strade polverose di campagna,
segnate da sassi e fichi d’india, sotto un cielo turchese ed un sole
implacabilmente caldo e luminoso che dipinge la natura intorno di colori
assurdamente intensi: l’ocra della pietra arenaria, testimone della millenaria cultura, il bianco delle rocce
gessose, anima delle case più antiche, la terra scura, il giallo della “ristuccia”,
lo splendente azzurro del mare.
Tutto
è contrasto forte ed intenso: il caldo dominante, il sapore del vino fresco,
fortissimo, spillato dalla botte e bevuto in una tavola imbandita sull’aia,
davanti ad una casa bianca, murata in gesso, il sapore della “pasta cu i
milinciani” e “a sasizza”, l’odore del gelsomino e dei ”muluna d’acqua”.
Gli
uomini segnati dal sole e dalle rughe, in camicia bianca e “coppola”
scura, si muovono lentamente nella campagna assolata, odorano di sudore e vino
ed ostentano un atteggiamento forte e virile, poche parole in dialetto, una
gestualità che sottolinea rispetto, onore, dignità, coraggio e sacrificio,
figli di una antichissima civiltà.
E
il tempo sembra fermarsi: nell’esplodere del tramonto in una mirabilante
varietà di colori che solo la Sicilia sembra darti, Turidduzzu, Totò, Carmilinu
e Rosalia si confondono con i loro avi: Achille, Aiace, Ulisse, Penelope. E per
un istante, con un brivido, li vedi lì, stagliarsi sull’acropoli, fra le
colonne dei templi resi più rossi dall’ultimo sangue che il sole spende al
giorno che muore, sullo sfondo del mare, con le loro misteriose armature,
ultimi miti di coraggio, dignità, lealtà, onore, sacralità.
No,
no, no ! Drammaticamente non è vero, sto sognando, ho bisogno di trovare le mie
radici, i miei ricordi e le mie origini, di sentirmi uomo.
No,
crudelmente non è così. Siamo nella più
squallida periferia dell’Europa e della economia di mercato: gli eroi di questo
mondo sono uomini di plastica, senza storia e ricordi, muovono capitali
digitando pochi comandi su un PC portatile, comunicano con i cellulari, si
scambiano informazioni via Internet, viaggiano in jet, misurano il tempo in millisecondi, mangiano
frettolosamente nei fast-food.
Achille,
Aiace e Ulisse, trafitti a morte da armi che non conoscono neanche, da cui non
sono riusciti a difendersi, travolti da Mips, MHertz, Mbytes ed HP, agonizzano
nella polvere.
Neanche
i loro Dei li proteggeranno travolti anche loro da spots pubblicitari che
continuano senza tregua a proporre nuove Dee prosperose e nuovi miti
invincibili.
La
tradizione meridionale, incapace di adeguarsi alla nuova etica del mercato che
richiede competitività, efficienza, gestione dell’immagine, tecnologia della
comunicazione, arranca pesantemente, si contraddice, reagisce inefficacemente,
cerca una sua identità e finisce impietosamente nel tramutare gli antichi e
profondi valori in disorganizzazione, delinquenza, violenza, vuoto morale.
Splendide
città segnate dalla storia, da tradizioni e culture antichissime lasciano
svanire la loro magnificenza nello squallore di costruzioni impersonali e senza
gusto, immemori del fasto degli antichi templi o della dignitosa povertà delle
loro case di gesso; luoghi a misura d’uomo stridono in pietosi contrasti con
scadenti prodotti della moderna civiltà; giovani svuotati si perdono nella
droga e nella violenza cercando di emulare miti e modelli di una cultura che
non è la loro.
Ed
io ? Si, io sono “u tradituri”, sto uccidendo Aiace ed Ulisse, li sto uccidendo
dentro di me con le armi maledette di cui io stesso sono artefice per il Dio
Mercato e soffro contraddicendomi nell’ansia e nel vuoto, soffro delle ferite
che sto loro procurando, soffro fingendo di dimenticare ogni giorno le radici
che ho troncato dietro di me.
Ma
lo so, non ho scordato nulla: forse è per questo che, in qualche istante di buon
senso, cerco ancora Ulisse in un bicchiere di malvasia o in una folle
immersione in quel mare azzurro dove perigliosamente l’eroe inseguì la sua
essenza di uomo fra avventure e battaglie, dietro ciclopi e sirene, finendo
sempre con il perdersi fra le braccia di donne il cui solo nome evocava
sensualità: Circe, Nausicaa, Calipso, Penelope.
E
ho tanta voglia di restarci.