Articolo tratto da "Il Manifesto" del 11/04/2003
Pace infernale a Baghdad
Un kamikaze si fa esplodere contro un carro armato
americano: muoiono tre marines. Battaglia furiosa alla moschea al Nidhatra,
soldati Usa contro fedayin e milizie del partito Baath: 20 iracheni e un marine
rimangono sul terreno. In uno scenario desolante, la capitale irachena vive il
primo giorno del dopo Saddam. Saccheggiati edifici pubblici, ospedali, uffici
Onu. I morti restano per le strade. Chiusi i ponti sul Tigri, la città è
letteralmente divisa in due
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Baghdad è divisa in due. Tutti i ponti che collegano la riva
occidentale, molto più distrutta dalla guerra, a quella orientale della città
ieri pomeriggio sono stati chiusi. Non passa più nessuno, inutile anche il
nostro tentativo di convincere i marines a lasciare proseguire alcuni uomini che
sostavano sul ponte Jumuriya e volevano raggiungere la loro casa che sta oltre
il fiume. I marines sono diffidenti: temono che tutte le macchine siano
autobombe e che chi si presenta un po' imbottito, magari con un giubbotto
antiproiettile, sia un kamikaze. I carri e i controlli e la chiusura ermetica
dei ponti tuttavia non sono riusciti ad impedire che ieri sera un kamikaze si
facesse saltare davanti ad un carro armato uccidendo tre marines proprio sulla
riva occidentale del Tigri. E dal pomeriggio è stata presa di mira dai cannoni
che sparavano - e sparano mentre scriviamo - poco lontano dal nostro albergo e
hanno provocato numerosi incendi che stanno rischiarando la notte buia. Oltre il
ponte sono rimaste solo un paio di famiglie e l'avevamo verificato la mattina
quando era ancora aperto ai giornalisti: le strade che attraversano il quartiere
devastato dai bombardamenti e dai combattimenti erano completamente deserte,
avevamo trovato solo cadaveri abbandonati e una donna che si aggirava incredula
con un bambino per mano, poi ancora un vecchio con kefiah che agitava uno
straccio bianco per non farsi colpire dai marines che presidiano la zona con
numerosi carri armati. Tutti gli abitanti del quartiere se ne sono andati prima
dell'arrivo degli americani e della battaglia campale. Anche Ahmed aveva portato
la sua famiglia ad Hilla, prima di andare a combattere con l'esercito di Saddam.
Ma poi, racconta, i comandanti si sono ritirati e loro sono stati abbandonati.
Ora vorrebbe andare a vedere se la sua casa è ancora in piedi, se è stata
saccheggiata, prendere qualche vestito e raggiungere la famiglia. Ma gli
americani non ci stanno. «Ne avevamo lasciati passare alcuni e poi hanno
cominciato a spararci addosso, sono stati lontani da casa finora, possono
rimanerci ancora un po'», risponde uno di loro inflessibile. Dal ponte Jumuriya,
osservando le nubi di fumo che si innalzano - su entrambe le rive del fiume: a
ovest e a nord-est - si possono individuare i punti dove gli scontri sono ancora
in corso, come ci confermano i marines che operano il blocco. Il fumo
improvvisamente investe anche l'hotel Mansour, poco lontano dal ponte a pochi
metri da quello che era il ministero dell'informazione. La battaglia più
importante ieri però si è combattuta nel quartiere Cairo, sulla strada che porta
al-Adhamiya, dove si trova anche la moschea al-Nidha che abbiamo visto
crivellata di colpi perché gli americani pensavano che vi si fosse nascosto
Saddam Hussein. Mentre una colonna di carri armati si stava dirigendo verso
al-Adhamiya si è scontrata con un gruppo di feddayn e di miliziani del partito
Baath che si erano nascosti dentro un piccolo palmeto. La battaglia è iniziata
la mattina alle cinque ed è durata tre ore. Quando noi siamo arrivati, in tarda
mattinata, le case stavano ancora bruciando, così come alcuni camion, altri
mezzi ormai carbonizzati erano completamente accartocciati. Un cratere enorme
provocato evidentemente da una bomba su un lato della strada, mentre la
carreggiata era disseminata dai resti della battaglia, dava il segno della
pesantezza dello scontro. I cannoni hanno colpito anche due case, in una è morta
l'intera famiglia, i genitori e due bambini. Il bilancio della battaglia: 20
iracheni e 1 marines uccisi. «Bush è come Saddam, fa uccidere i nostri bambini.
E per che cosa? Per il petrolio?», dice Mohammed, un uomo sulla cinquantina,
sconsolato, che passava di lì. Mentre chiedevamo informazioni sull'accaduto,
intorno a noi si è formato un capannello: «Gli americani sono alleati dei
sionisti che ci combattono perché siamo musulmani», dice Ali.
Gli americani hanno preso possesso di quasi tutta la città, ma la popolazione -
quella che è rimasta a Baghdad - continua a rimanere in casa e tutti i negozi
chiusi, proprio come durante i bombardamenti. Tra quelli costretti ad uscire si
nota un'ostilità non dichiarata: prima era l'oppressione di Saddam ad impedire
agli irakeni di parlare ora è lo strapotere di Bush. I marines che si sono
installati anche dentro l'hotel Palestine non fanno certo risparmio di
arroganza: ieri uno di loro per comprare una pepsi voleva farsi cambiare dal
barista i dollari a 4.000 dinari, mentre il cambio corrente era di 2.500 (contro
i 3.000 di qualche giorno fa) e di fronte alla resistenza del cameriere lo ha
minacciato di chiamare il suo comandante per fargli chiudere il bar. Comunque il
cameriere è stato inflessibile. E per non parlare della pattuglia che mercoledì
sera, secondo quanto riferito dalla tv del Qatar al Jazeera, ha sparato su
un'autoambulanza provocando due morti e tre feriti. Anche la difficoltà di
reperire il cibo si è accentuata con i controlli americani: ieri mattina in
albergo non c'era la colazione perché le truppe non avevano bloccato il
furgoncino che portava il pane.
Il paradosso è che noi giornalisti già presenti a Baghdad, non quelli
militarizzati arrivati con le truppe con tanto di divisa, per farci riconoscere
usiamo il sudato accredito ottenuto dagli iracheni che negli ultimi tempi invece
non ci controllavano nemmeno più. Una presenza così massiccia di carri armati
davanti all'albergo, la totale assenza di iracheni, tranne quelli che si
prestano a qualche sceneggiata in esclusiva per i giornalisti, come prendere a
calci la testa della statua di Saddam fatta crollare mercoledì sera, ci fanno
sentire come delle comparse sul set di un film di scadente qualità. E dal finale
sicuramente poco lieto. Haider, regista frustrato perché doveva iniziare a
girare un film proprio quando è scoppiata la guerra e per fare qualche soldo si
è riciclato come barista, scuote la testa: «Sono felice perché è finito un
regime che non sopportavo, ma sono triste per il modo in cui è finito». E' la
sensazione che avvertiamo in molte delle persone che incontriamo. Sono ben pochi
ad illudersi che sia una liberazione, la maggioranza è cosciente che si tratta
di una occupazione.
Ad inneggiare a Saddam sono invece i saccheggiatori che non vengono certo
fermati dagli americani. Anzi. Di fronte ai carri armati, si fermano con la loro
refurtiva, salutano con un «viva Bush» che funge da salvacondotto e si
allontanano tranquillamente. I marines si creano così l'alibi di essere bene
accolti e i saccheggiatori un alibi per il furto. Ieri è stata ancora una
giornata di completa anarchia e di saccheggi ovunque: magazzini da dove venivano
portati via computer, pezzi di ricambio, mobili. Spesso trascinati e perdendo i
pezzi per strada. Incredibile, tanto da far pensare ad una regia dietro questi
saccheggi oltre che a provocare la protesta della Croce rossa internazionale,
l'assalto agli ospedali, in particolare al-Kindy, quello più importante nella
zona orientale della città, dove sono state ricoverate anche molte vittime
civili dei bombardamenti. E poi il saccheggio nell'ambasciata tedesca e nel
centro culturale francese, proprio le rappresentanti dei due paesi contrari alla
guerra.
Ma spettacolare è stato soprattutto l'arrembaggio allo shopping center che
rifornisce al-Shaab, il quartiere già colpito da un bombardamento americano che
aveva fatto una quindicina di vittime. Dal quarto piano del magazzino la merce -
tappeti, stoffe, tendaggi, biancheria, pugnali eccetera - veniva scaraventata
giù nella sala centrale e poi arraffata dagli avventori che caricavano
all'inverosimile le loro macchine, oltre a carretti trascinati da asini, che
creavano un ingorgo del traffico. Non di solo saccheggio si tratta, le ville sul
Tigri dei dignitari del regime sono state completamente distrutte: vasi in
ceramica, specchi, suppellettili, scalinate di marmo, lampadari di cristalli,
mentre venivano portati via tappeti, mobili, poltrone, divani, cuscini, spesso
abbandonati per strada in mezzo alla polvere. C'era persino chi arrivava in
autobus a sfogare la propria razione di vendetta. Abbiamo visto smontare prima
le tre residenze delle ville di Saddam, poi la casa di Watman, il fratellastro
del rais, quella del vicepresidente Taha Maruf, e poi molte altre sulla riva del
Tigri, nel punto in cui è attraversato dal ponte Double Roof (si tratta di due
ponti, uno sopra l'altro, coperti). I carri armati proteggevano solo la
residenza del vicepremier Tareq Aziz e il vicino palazzo di Saddam. Uno dei
tanti. Nel giardino di quello più imponente, il Salam, chiaro esempio di culto
della personalità con le quattro teste del rais che sovrastano le colonne più
alte del palazzo visibili in lontananza, invece i marines si sono proprio
acquartierati. Dopo una furente battaglia a giudicare dalla montagna di
proiettili, pezzi di armi, cadaveri, puzza di morti, che incontriamo sul viale
che porta al palazzo. Quando siamo passati una ruspa stava portando via uno dei
cadaveri, dall'abbigliamento non sembravano nemmeno soldati ma solo guardiani o
inservienti dell'immenso palazzo che è stato abbandonato completamente vuoto:
sono rimasti solo i pregiati lampadari che, in mancanza di elettricità, non
possono più nemmeno illuminare i sontuosi pavimenti in marmo e legno intarsiato.
Ieri è iniziata la sepoltura dei «martiri» caduti nella battaglia di al-Dora, il
quartiere meridionale della città. Sono rimasti invece abbandonati alle
intemperie quelli che abbiamo visto intorno all'hotel Rashid. Non solo
combattenti, ma anche autisti di macchine che erano evidentemente finiti sotto i
bombardamenti: alcuni sono rimasti carbonizzati, altri diventeranno presto
putrefatti. E probabilmente finiranno nel novero degli scomparsi.