Articolo tratto da "Il Manifesto" del 16/04/2003

Strage americana a Mosul
I marines sparano sulla folla che protestava contro il nuovo governatore: almeno dieci morti, centinaia di feriti
ORSOLA CASAGRANDE
Sono dieci, forse dodici i morti. Almeno cento i feriti. Civili, gente che partecipava ad una manifestazione. Ieri a Mosul i marines americani hanno sparato sulla folla che ascoltava (protestando) il discorso del governatore della città (scelto e imposto dagli Stati uniti) Mashaan al-Juburi. E' successo tutto all'improvviso, dicono i testimoni alle agenzie di stampa: i soldati hanno sparato ad altezza d'uomo. Senza ragione. O meglio, per i marines le proteste della folla che ascoltava il discorso pro-coalizione del governatore targato Usa di Mosul sono state una ragione sufficiente ad aprire il fuoco. Per uccidere. Non hanno dubbi i testimoni del massacro: i soldati hanno sparato sulla gente, c'erano donne e bambini. C'è chi dice che i marines sono saliti sul tetto del palazzo del governo e hanno sparato da lì, mirando alla folla. Quindi hanno impedito i soccorsi. I dottori dell'ospedale cittadino confermano che i morti sono almeno dieci. I feriti un centinaio.

La versione dei marines arriva nel pomeriggio: «C'erano cento, centocinquanta persone che protestavano davanti al palazzo del governo. Poi ci sono stati colpi di arma da fuoco. Abbiamo risposto al fuoco». Che secondo il portavoce militare proveniva proprio dal tetto dell'edificio governativo. «Non abbiamo sparato sulla folla - ha detto - ma in direzione degli spari. C'erano uno, forse due uomini armati - ha continuato - abbiamo risposto al fuoco, non sappiamo se i cecchini sono rimasti uccisi». Nessun cecchino però è stato trovato sul tetto del palazzo di Mosul. La città è da giorni ormai scenario di tensioni soprattutto tra kurdi e arabi, con i marines a dare man forte ai peshmerga nel tentativo di «ripristinare l'ordine». Almeno venti erano stati i morti soltanto lunedì.

Le tensioni di Mosul riflettono quelle di Kirkuk, l'altra città strategicamente (ed economicamente) importante per i kurdi così come per gli arabi. E per i turchi che la settimana scorsa hanno inviato alcuni osservatori militari nella città petrolifera per verificare il ritiro dei peshmerga. Ritiro che non è ancora avvenuto completamente. Un certo numero di combattenti kurdi, infatti, resteranno - l'hanno detto gli stessi partiti kurdi. Kirkuk è la città del nord Iraq più ricca di petrolio. I kurdi la rivendicano come capitale della zona kurda liberata. I turchi hanno detto agli americani che se i kurdi manterranno il controllo della città invieranno l'esercito. Gli Usa hanno risposto che la città rimarrà in mano alla coalizione. Ma il segretario dell'Unione patriottica del Kurdistan (Puk), Jalal Talabani nella sua visita storica a Kirkuk sabato scorso ha detto di essere venuto a «chiarire alcune verità» con i rappresentanti delle comunità kurda, araba, turcomanna e assira. «La Turchia è un nostro vicino - ha aggiunto Talabani - così come la Siria e l'Iran. Noi vogliamo un Iraq unito e federato. Se la Turchia aprirà la questione di Kirkuk, dicendo che è una città turcomanna, allora noi apriremo il capitolo Diyarbakir. Nessuno può porre veti». Quanto alla presenza dei suoi uomini Talabani ha confermato che «un certo numero di peshmerga rimarrà a Kirkuk per proteggere le aree che la coalizione ci chiederà di difendere». Il Puk ha proposto la creazione di «un comitato formato da rappresentanti di kurdi, turcomanni, arabi e assiri, sotto la supervisione degli Stati uniti». Nelle intenzioni del leader kurdo questo comitato dovrebbe assumere il governo della città fino a quando non si svolgeranno elezioni locali o nazionali.

A Kirkuk come a Mosul continuano i saccheggi ma la cosa più preoccupante è l'escalation che stanno subendo le vendette personali e le lotte interetniche. Se la notizia del massacro dei marines ha fatto rapidamente il giro del mondo, altri attacchi rimangono sconosciuti. Il quotidiano inglese The Independent raccontava ieri la storia di un giovane kurdo, Sami Abdull, che da Dibbis, una cittadina kurda a pochi chilometri da Kirkuk, si stava recando a Hawaijah per assicurarsi che la sua famiglia stesse bene. A Hawaijah però Sami Abdull non è mai arrivato. Dopo aver accettato l'offerta di un gruppo di peshmerga che l'avrebbero scortato fino al villaggio, Sami e i suoi accompagnatori sono stati vittima di un'imboscata, secondo l'Independent, organizzata da un gruppo di miliziani arabi. Dodici peshmerga e Sami sono stati uccisi. La stessa tragica storia, di morti e vendette, è quella raccontata da un gruppo di arabi che accusano i peshmerga di aver scatenato una vera e propria caccia all'uomo, casa per casa, in alcuni villaggi, a maggioranza arabi, nei pressi di Kirkuk.

 

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