Articolo tratto da "Liberazione" del 30/4/2003

Nuova strage, i marines sparano sulla folla in piazza a Falluja: 13 morti, 40 feriti. In arrivo altri 4mila soldati a Bagdad
Iraq, poligono di tiro
Daniele Zaccaria
 
Falluja, piccola città circa 50 chilometri a ovest di Bagdad. Qui la morte arriva quando la guerra è finita. La dinamica è quella logora delle occupazioni militari in terra straniera. Uno scenario ampiamente anticipato da chi vedeva nella gestione atlantica del post-Saddam l'ennesimo fattore di destabilizzazione dell'area mediorientale. Le ultime cronache sembrano dar ragione ai più pessimisti.

Gli abitanti scendono in piazza per manifestare contro le truppe alleate che nei giorni scorsi avevano requisito degli edifici pubblici, tra cui alcune scuole. Nel neo Stato satellite le legioni Usa fanno così, si prendono quel che gli serve senza chiedere il permesso. Nelle strade della cittadina slogan duri rivolti agli invasori, i consueti «Yankee go home» s'intrecciano con le invocazioni religiose che scandiscono da settimane i cortei della popolazione irachena (soprattutto sciita) in tutte le città del paese. La folla si avvicina a un postazione di soldati senza però arrivare al contatto, c'è tensione ma nulla lascia presagire il sanguinoso epilogo. A un certo punto i "Gi" aprono il fuoco e compiono una strage. I morti sono almeno tredici, i feriti quasi cinquanta. Il giorno precedente a Mosul, nel nord dell'Iraq, le truppe statunitensi avevano ucciso sei uomini, sempre nel corso di una manifestazione estemporanea contro l'occupazione. «La manifestazione era pacifica urlavamo versetti del Corano urlando agli americani di andarsene, tutto qui», dice in lacrime un sopravvissuto, che nella carneficina ha perso un fratello. «E' questa la loro democrazia - grida un altro reduce della sparatoria all'inviata della Rai- prendere a fucilate le persone inermi, sono degli assassini li odio, qui tutti odiano gli americani». La gente è inferocita ma ha voglia di parlare, di sfogarsi, anche ai microfoni di una televisione occidentale: «Ci trattano come bestie, ma non sanno che colpendo uno di noi colpiscono tutta la nostra comunità, non dimenticheremo questa strage». Un gruppetto di coraggiosi prova a parlare con un ufficiale Usa; si sbraccia chiedendogli «perché?». Il soldato non risponde, rimane impassibile come una statua di gesso con il dito che carezza nervosamente il grilletto. Forse la sua consegna è quella di non parlare con i civili, ma il monologo dell'esasperato abitante di Falluja è la metafora stessa del rapporto tra il popolo iracheno e le forze d'invasione.

I funerali, come da tradizione, si sono svolti poche ore dopo l'eccidio. Le scene sono impressionanti, anche perché sembrano una fotocopia dei rituali funebri dei Territori occupati: stessa frustrazione popolare, stessa incontenibile rabbia, e inevitabili appelli alla vendetta. Questo è l'Iraq "liberato"; una terribile incubatrice di conflitti, alcuni già in corso, altri sul punto di esplodere.

Il Comando centrale di Doha fornisce naturalmente una versione del tutto opposta dei fatti: «Un gruppo di uomini ci ha tirato delle pietre poi si è avvicinato e hanno sparato: noi abbiamo solamente risposto al fuoco», la stringata velina militare. Ma ben pochi credono al candore degli alleati. Che stavolta non sono stati molto fortunati. Una troupe della rete satellitare Al-jazeera ha infatti assistito al massacro, raccontando che dal corteo un piccolo gruppo ha lanciato, senza colpirli, qualche sasso in direzione dei marines, i quali hanno tempestato di piombo il corteo senza una giustificazione apparente. Dinamica confermata da un fotografo dell'agenzia francese Afp e da un corrispondente della Reuters. Ma si tratta di dettagli per chi può godere dell'assoluta immunità da ogni crimine: «Può succedere che in un contesto così complicato accada qualche incidente», afferma con sconcertante cinismo l'influente consigliere del Pentagono Richard Perle, commentando le eroiche gesta dei fanti americani.

Gli Stati Uniti non chiedono venia. Al contrario decidono di rafforzare il controllo del territorio, annunciando l'invio nella capitale di quattromila nuovi soldati entro due settimane: «Serviranno a proteggere la città e a garantire la sicurezza, pattugliando i quartieri a rischio» ha annunciato ieri il generale Glenn Webster.

Nelle ronde notturne, oltre ai comodi bersagli civili gli capiterà d'incontare anche qualche lucciola. Tra gli effetti della "liberazione" c'è infatti la ricomparsa delle prostitute nei marciapidei di Bagdad: «Questa è libertà», esulta il raffinato gestore del cinema Atlas, una sala che da quando il regime non c'è più, proietta solo film pornografici.

 

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