Dal "Manifesto" del 9/4/2003
Cannonate sulla stampa
Tre giornalisti uccisi a Baghdad: un giordano, uno spagnolo e un ucraino. Un
carro armato Usa prende di mira l'hotel Palestine. «Si è difeso dai cecchini»,
sostiene il comando americano. Ma tutti i reporter negano. «Ci ha visto, sono
sicuro che ci ha visto», dichiara il corrispondente di Sky News. Impossibile
ormai documentare gli eventi. Gli iracheni ci hanno impedito di filmare le
condizioni disastrose di un ospedale. La nostra inviata fermata e minacciata da
un gruppo di feddayn, probabilmene siriani ed egiziani
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano e,
annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione per
lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di sparare fuori
1.000 proiettili al minuto. E' l'alba, sopra Baghdad. Tareq Ayoub è un giordano
di 34 anni, è qui soltanto da tre giorni e non se la sente di lasciare il tetto
del palazzo dove ha i suoi uffici la televisione per cui lavora, al Jazeera,
nemmeno se il fuoco diviene più intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla
riva del Tigri, dalla parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione
decisiva per fare la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si muove.
E non si muoverà più, perché non appena le cannonate cessano il suo collega lo
trova morto, così, da solo, sul tetto. La giornata peggiore per la stampa
internazionale comincia nel sangue. Testimoniare quel che succede è sempre più
difficile e pericoloso. All'hotel Palestine, dove sono riuniti quasi tutti i
giornalisti del mondo rimasti nella capitale irachena per documentare questa
guerra, l'eco della morte del collega giordano non si è ancora spenta. E' più o
meno mezzogiorno, quando i fatti precipitano.
A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo cannone e lo
punta sull'albergo. Più tardi, il filmato di un collega francese dimostra che il
carro armato non ha dato alcun segno di nervosismo: il cannone si solleva con
calma, resta immobile per un paio di minuti quasi prendesse la mira e poi spara.
Eravamo tutti lì, abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato che
fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze d'angolo al
quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano stati maciullati dal
colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale radio Rai, tra i primi ad
accorrere alle grida: «Josè Couso, di Telecinco, era a terra con un osso di
fuori e una gamba quasi staccata dal corpo». Couso è in una pozza di sangue, e
arriva già morto all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la moglie e due figli. Un
secondo collega, della ufficio Reuters al piano di sopra, Taras Trotsyuk,
ucraino, 35 anni, è ferito in modo gravissimo e non ce la fa. Era un veterano,
tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in Cecenia, in Afghanistan e nei
Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese, altri due giornalisti
dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti i presenti: a fine
giornata, si organizza una fiaccolata.
Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha sparato:
«Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque avevamo avvertito
i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad». Ma qui nessuno ha visti i
cecchini e la versione non viene accreditata. Dice il corrispondente di Sky
News, David Chater: «Non si è trattato di un incidente...non ho sentito un solo
colpo provenire da nessuna zona qui intorno...Devono averci visto, ci hanno
visto, noi li abbiamo visti, non c'è stato assolutamente nessun errore, sapevano
che eravamo lì».
Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se sicuramente
l'informazione che viene da questa parte del fiume è scomoda per Bush. Il
Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei giornalisti presenti a
Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di ieri è stato un ulteriore
avvertimento, rinforzato dal monito che «la capitale è una zona di guerra a
rischio» dove non si può assicurare nulla.
Questa è l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono su una
città di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in ostaggio, senza che
la comunità internazionale si preoccupi nemmeno di chiedere l'apertura di un
corridoio umanitario.
Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere di non
essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena: incontreranno i
soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i miliziani del partito
Baath, i civili che si oppongono all'occupazione. Probabilmente anche cecchini.
La guerra è sempre sporca e questa lo è più che mai. Gli americani dovrebbero
saperlo.
Non che da questa parte del fiume fili tutto liscio, lo abbiamo provato ieri
mattina, quando volevamo andare all'ospedale al-Kindy per testimoniare delle
vittime civili, oltre che militari, della guerra. Ci avevano parlato di scene
tremende, di molti morti e ancor più feriti. Ma all'ospedale non ci siamo
arrivati. Abbiamo preso la Saadoun street, un tempotra le vie più affollate di
Baghdad ed ora sempre più deserta, alla fine della strada, dove si svolta sulla
piazza Tahrir (della liberazione) avevamo notato un movimento di militari e
volontari, volevamo riprendere la scena con una piccola telecamera. Che abbiamo
subito nascosto quando ci siamo resi conto che la situazione era molto tesa.
Troppo tardi. In un baleno ci siamo ritrovati circondati da dieci-quindici
feddayn che ci puntavano addosso bazooka e kalashnikov: «Dammi la telecamera o
ti ammazzo». Inutile negare troppo a lungo, avevano l'aria di voler mantenere la
promessa. Il loro numero aumentava, non c'era via di scampo. Dopo avermi preso
la telecamera mi hanno tirato fuori dalla macchina e sbattuta su un'auto della
polizia arrivata in quel momento, malamente incastrata tra i kalashnikov, dopo
che il poliziotto mi aveva puntato la sua rivoltella. La situazione era
veramente preoccupante, anche perché i feddayn, tutti ragazzi giovani e, a
giudicare dall'accento, non iracheni ma egiziani e siriani, erano
particolarmente assatanati. Dalla piazza al Tahrir, alle loro spalle, parte
infatti il ponte Jumuriya su cui stavano avanzando i carri armati americani. Ce
la siamo cavata solo perché un poliziotto, di grado più elevato, intervenuto per
vedere cosa succedeva, alla fine ha capito che non si trattava di spie ma di
giornalisti e ci ha tratti in salvo. Con le spie o presunte tali, come sempre
del resto in caso di guerra, non si va tanto per il sottile.
La situazione sta degenerando di ora in ora. I rischi sono sempre maggiori. I
cannoni continuano a tuonare, i caccia volano bassi, sempre più visibili. Si
sentono i boati delle bombe. Quando arriveranno da questa parte del fiume? Si
teme un massacro. Quest'agonia è insopportabile.
Intanto, i carri armati Abrahms avanzano, anche se lentamente. La battaglia per
l'occupazione di Baghdad non subisce battute d'arresto, come aveva lasciato
intendere il Pentagono, evidentemente le truppe anglo-americane non hanno la
possibilità di scegliere di entrare e uscire con grande facilità dalla città,
come avevano annunciato. Quindi cercano di mantenere le posizioni conquistate, a
tutti i costi. La mattina, i carri armati hanno puntato verso il ponte Jumuriya,
ma si sono fermati lì, non si sa se perché incontrano resistenza da questa parte
del fiume o perché aspettano i rinforzi che devono arrivare da sud-est.