I.
Quell'enorme pontile non era più utilizzato oramai da diverso tempo;
e quei pochi anni d'abbandono erano stati sufficienti a fargli valere quell'aria
trascurata e romantica che pareva tanto affascinare i giovani del luogo.
Era poi che quella mattina d'agosto la spiaggia di
fosse affollata, brulicante
di bagnanti. La ressa, la confusione era tale che qualcuno rischiava persino
di sentirsi male per tutta quell'afa che si generava nello spazio intorno. Il
sole era chiaro e polito nel cielo nudo di nuvole. Spirava, ma solo a tratti,
una calma brezza che addolciva leggermente l'opprimente calura estiva.
Nel pontile pericolante ed abbandonato era divenuta tradizione che ogni anno
vi si svolgesse una gara di tuffi alla quale la gioventù amava partecipare,
questo al fine di mostrare la propria forza e il proprio coraggio. Il vincitore
di quella particolare competizione godeva infine di un prestigio speciale. Con
invidia di lui si sarebbe parlato per un anno intero. Sarebbe stato additato
quasi come un eroe nelle strade del piccolo paesino di
, e le ragazze,
tutte, avrebbero voluto essere in compagnia di quel campione.
Fra i partecipanti a questa inusuale gara vi era un ragazzo che non ambiva certo
a nuove conquiste sentimentali, questo in ragione del fatto che egli aveva già
una ragazza, di cui era innamoratissimo per giunta. Egli voleva però
vincere per saperla orgogliosa di lui, per apparire ancora migliore ai suoi
occhi.
In quel momento Mario seppe che era arrivato il suo turno: doveva tuffarsi da
quei circa sette metri d'altezza, mentre un'improvvisata ed incompetente giuria
osservava attentamente ogni suo gesto e movimento.
Egli, in quei momenti di preparazione, pensava a lei: Anna. Rivedeva con gli
occhi della mente la sua piccola figura. Si disegnava precisamente davanti lui
quel volto ovale ed abbronzato, i cortissimi capelli neri che le stavano così
bene, i piccoli occhi castani dallo sguardo gentile. Egli sentiva, avvertiva
ancora su di sé il morbido abbraccio che si erano scambiati qualche minuto
prima, il contatto con quel corpo caldo e profumato e percepiva ancora quella
sensazione di dolcezza che gli aveva donato, che gli aveva regalato.
Egli amava in particolare modo di lei quella lieve peluria bionda che, sulle
spalle, era solito accarezzare con tenerezza. Era veramente molto innamorato
di Anna e avevano intenzione di sposarsi, forse fra qualche anno, sicuramente
quando sarebbe riuscito a trovare un lavoro.
Ora però non era più il tempo per abbandonarsi a quelle dolci
sensazioni: doveva tuffarsi.
Egli prese la rincorsa e si slanciò da quella grande altezza, tutto pieno
e consapevole della propria vigoria fisica, ma, incidentalmente, scivolò
nell'ultimo tratto del pontile dove il legno era leggermente guasto e marcito.
In questo modo il suo tuffo parve ai più come un capitombolo, come uno
sgraziato ruzzolone. La sua prestazione parve così ridicola che sonore
risate, lunghi fischi e alte strida la accompagnarono. Egli, in verità,
non parve affatto divertirsi di quell'ostile rumoreggiare ed anzi rischiò
quasi di annegare; questo perché in quel punto l'acqua era molto profonda
e lo spavento, seguito da quell'inaspettata umiliazione gli aveva, ad un tratto,
fatto perdere le capacità natatorie che ben possedeva. Fu, in sostanza,
solo la sua prontezza di riflessi ad evitargli il peggio, ma di questo particolare
ovviamente nessuno si accorse.
Raggiunse la riva dalla finissima rena dorata ancora fra i fischi della gente,
ed egli ad un tratto pensò che anche la sua Anna si fosse unita a quel
dileggio. Per la stizza il ragazzo strinse i pugni e gli vennero le lacrime
agli occhi.
Questa idea, però, fu fermamente rifiutata dalla sua mente. Non poteva
pensare una cosa del genere della ragazza che il suo cuore amava così
tanto. Non avrebbe potuto dubitare di lei neanche per un istante.
Era certo che la sua fidanzata lo avrebbe consolato come solo lei sapeva fare,
con quella sua voce dolce e melodica, con quelle parole tenere che già
cominciava ad immaginare. Dal vecchio molo continuava la gara di tuffi, ma il
ragazzo non pareva più accorgersi di niente. Persino quei fischi che
lo avevano tanto stordito solo alcuni minuti prima, ora non apparivano che come
lontani ricordi, in fondo che cosa gli importava di quella stupida gara.
Anna, addirittura, gli aveva sconsigliato di partecipare. Era forse per quel
motivo che non riusciva a scorgerla nella spiaggia, doveva essersi preoccupata
in maniera tale che non doveva avere voluto vedere quell'assurdo spettacolo
che poteva costare la vita ad una persona. Di certo non ci avrebbe riprovato
l'anno seguente, ora aveva imparato la lezione e non avrebbe commesso lo stesso
errore due volte di seguito.
Egli avanzò nella sabbia arroventata; indossava un costume a pantaloncino
di colore azzurro scuro con dei motivi bianchi. Si mosse in direzione di un
gruppo di scogli in cui solitamente la sua compagnia di amici sostava. Erano
tutti lì, infatti, e loro già avevano per lui parole di consolazione.
Solo qualcuno osò avanzare ironiche battute; ma Mario non se la prese.
Dimostrò proprio d'essere un uomo di spirito.
Chiese di Anna, visto che non riusciva a vederla in giro. Nessuno ne sapeva
niente, però. Vide che neanche Antonello, il suo migliore amico, era
lì. Pensò quindi giustamente che i due fossero andati a fare una
passeggiata ed egli si recò allegramente a cercarli.
Lui e Antonello si conoscevano sin dall'infanzia e avevano condiviso molte esperienze;
ed era proprio grazie a quel suo amico che aveva conosciuto Anna. Lui era molto
timido e soprattutto con le ragazze appariva goffo ed impacciato, ma, questa
volta, invece, tutto era andato bene e lui era molto felice.
Rivide ancora la scena della festa in cui si erano conosciuti e quella naturale
simpatia che era sorta immediatamente. Era stato proprio fortunato ad incontrare
una ragazza così buona.
Si addentrò cautamente entro il dedalo delle rocce appuntite e sentì
davanti a sé proprio quelle due voci: quella di Anna e quella di Antonello.
I due apparivano coinvolti in una fitta discussione su chissà quali argomenti,
rifletté il ragazzo.
In uno scatto li raggiunse, come per fargli una sorpresa spaventandoli. Lo scherzo,
però, non parve riuscire. I due ragazzi apparivano in imbarazzo per quell'improvviso
arrivo e non rispondevano ai facili motteggi di Mario.
Il ragazzo si insospettì e guardò attentamente i due. Era come
se un momento prima si trovassero abbracciati in un atteggiamento intimo. Vide
che Anna tremava e che la spallina del suo costume era abbassata come se i due
"Cosa facevate?" chiese dubbioso. Antonello riuscì solo a biascicare
qualche incomprensibile parola di giustificazione.
Ad un tratto tutto gli parve chiaro. Aveva capito tutto. Guardò con disprezzo
i due amanti e scappò di corsa, senza domandare ulteriori spiegazioni,
e cosa c'era da chiedere, era tutto così evidente; andò via con
il cuore spezzato da quel grande dolore.
II.
Passarono diversi mesi da quel particolare episodio, che aveva lasciato Mario
avvilito in tale maniera che non aveva avuto più il desiderio di uscire
da casa. Si era, per così dire, isolato dal resto del mondo e non voleva
vedere più nessuno. Aveva rotto ogni relazione d'amicizia, anche perché
tutti i suoi più cari amici erano anche amici di quel traditore, "Giuda"
lo chiamava lui, di Antonello che gli aveva rubato la ragazza.
Le prime settimane dopo l'incidente furono le più dure per il ragazzo.
Non riusciva a prendere sonno e per tutta la notte riveniva alla mente quell'immagine,
quella strana espressione di Anna, quel gesto di portarsi la mano sulla spalla
nuda che aveva distrutto tutte le sue speranze e i suoi sogni, e che avevano
portato un'ombra terribile nella sua venerazione per la ragazza.
Ogni notte si tormentava, si torturava, volendo aggiungere particolari, immaginari
dettagli a quella scena. La sua mente ora immaginava che in quei minuti fossero
accadute sconcezze inaudite, indicibili turpitudini.
La vita gli era divenuta terribile, questo anche se Anna sin dal giorno stesso
gli aveva telefonato perché voleva spiegare al ragazzo cosa fosse successo
realmente. Egli però non volle rispondere anche davanti alle richieste
pressanti del padre, un vecchio piccolo e grinzoso che non riusciva a capire
cosa fosse successo di così grave a quei due giovani che parevano volersi
così bene. Tentava in ogni modo di fargli rappacificare, senza però
mai riuscirci.
Un giorno, mentre si recava a fare delle commissioni, incontrò casualmente
Antonello, il quale lo riconobbe e si fermò in mezzo alla strada per
potergli parlare. Egli molto nervoso ed agitato disse:
"Mario, c'è stato un malinteso, un equivoco. Non è successo
mai niente fra me ed Anna. Come avrei mai potuto fare questo al mio migliore
amico".
"Ravvediti" egli proseguì "Anna ti ama, ti ama tantissimo
e ama solo te".
Quelle furono le uniche frasi che Mario ebbe voglia di udire. Tutta quella ipocrisia
lo disgustava, tutte quelle bugie lo nauseavano profondamente. Egli non rispose
al ragazzo, facendo finta di non averlo neanche visto.
Dopo quell'episodio, eppure, un'incertezza cominciò a farsi avanti nella
sua mente, un dubbio che tanto aveva il sapore della salvezza e della liberazione.
Forse si era sbagliato, forse quello che gli aveva detto Antonello era la pura
e santa verità. Doveva essersi trattato solo di uno stupido fraintendimento,
di una svista. Forse non aveva capito niente di quello che era successo in quella
celebre a suo modo mattina d'agosto.
La sua fantasia, che aveva prima condito quella scena delle più pesanti
perversioni, adesso invece la mondava di ogni bruttura, restituendogli un'autentica
visione di sincera amicizia. Sognava ora che i due ragazzi in quell'occasione
non stessero parlando che di lui e di quanto gli volessero bene. Quell'immagine
gli parve così perfetta, così adatta a quella situazione che fu
preso ad un tratto da una grande sensazione d'allegria. Sentiva proprio il desiderio
di fare la pace con la sua Anna.
Non tutto era perduto, allora egli pensò, ora prendeva a vedere le cose
sotto una prospettiva, da un'angolazione diversa, e non s'aspettava altro che
la ragazza gli telefonasse per potersi scusare di quel suo assurdo comportamento.
Si accorse di essersi comportato proprio come l'ultimo degli imbecilli. Non
poteva permettersi di rovinare la sua vita in quel modo.
Certo esisteva una soluzione ancora più facile ed immediata: telefonare
immediatamente alla ragazza. Una forte resistenza egli oppose a quell'argomento.
In quel modo, infatti, egli si sarebbe sicuramente messo nel ridicolo e poi,
in verità, nutriva ancora alcuni dubbi intorno a quell'episodio che non
erano stati del tutto fugati. A volte gli capitava di pensare ancora alla ragazza
con sentimenti di rabbia e odio.
Fu il fatto che mentre queste contraddizioni agitavano l'animo del giovane ragazzo,
l'anziano padre venne a portargli una strana notizia: Anna aveva appena telefonato,
e come il figlio gli aveva chiesto, l'uomo aveva detto alla ragazza di non richiamare
ancora.
Il padre gli raccontò che la ragazza era scoppiata in lacrime e aveva
detto:
"Tutto è finito, allora".
Questa nuova agitò terribilmente il ragazzo, dando un colpo decisivo
alla sua fragile psicologia. Egli si era, in effetti, dimenticato di avvertire
il padre delle sue nuove decisioni, perché egli, non conoscendone le
ragioni, credeva che egli lo avrebbe capito al volo senza bisogno di spiegazioni.
Il suo rancore, la sua indignazione, per tanto tempo soffocata, allora esplose
all'improvviso come un turbine, come una tormenta, ferocemente disse:
"Sei solo un vecchio imbecille, un fallito. Ti devono far ricoverare in
una clinica. Non solo hai rovinato la tua vita." e qui il ragazzo alludeva
al fallimento del matrimonio del padre che ancora tanto lo faceva soffrire "Ora
vuoi rovinare anche la mia".
Egli proseguì la lunga invettiva per diversi minuti, condendola degli
insulti più aspri e sprezzanti che mai il padre aveva udito pronunciare
dal figlio. Mario poi uscì da casa a riflettere. Doveva stare da solo.
Pensò che tutto fosse perduto. Non poteva proprio più rimediare
a quella situazione; non poteva.
Certo avrebbe potuto chiamare Anna ma non se ne sentiva l'animo per quanto era
sfiduciato in quel momento. La lunga passeggiata poi lo fece ragionare meglio.
Comprese di avere sbagliato di nuovo: in fondo che colpe ne aveva il padre di
quello che era successo, vedeva che in fondo c'era ancora una possibilità
di riconquistare la ragazza ed egli doveva sfruttarla.
Tornò a casa correndo, senza fiato, umile, con il pane del perdono fra
le mani, con il cuore puro che gli avrebbe permesso di giungere ovunque. La
sua voce era quasi dolce mentre chiamava il padre per riconciliarsi, ora aveva
capito tutto, ora sapeva come fare.
Stranamente però non rispose nessuno. Egli cercò il padre in ogni
dove, poi infine lo trovò. Il suo corpo era riverso in una poltrona marrone,
col petto sanguinante. L'uomo si era sparato con una delle carabine che usava
per andare a caccia, ed era morto, oramai non c'era più nulla da fare.
III.
La storia che ne venne fu necessaria come ogni effetto segue la propria causa.
Mario rimase da solo, senza nessun amico o parente che lo potesse aiutare, e
lui era diventato così timido e modesto che gli era impossibile domandare
soccorso ad alcuno. In lui si era creata, generata una specie di diffidenza
generale verso le persone, e gli appariva sempre che qualcuno lo volesse ingannare,
e immaginava che ogni atteggiamento ne celasse sempre uno dietro più
oscuro e malvagio.
Egli però volle fare un tentativo di cambiare vita. Provò a fare
fortuna in città. Si trasferì la con i pochi soldi che gli erano
rimasti e cercò un lavoro. Lui però era svogliato e non possedeva
un genuino spirito d'iniziativa. Lavorò solo come cameriere per due mesi
in un lugubre ristorantino di periferia, pagato in nero e male anche, poi fu
licenziato.
Quell'ennesimo fallimento fu fatale alla fiducia che portava verso di sé.
Pensava oramai di essere un fallito, senza alcuna possibilità di riscattarsi
e si lasciò andare.
Il denaro terminò presto. Egli non poteva più permettersi di pagare
l'affitto e così fu spedito fuori dalla modesta abitazione, uno squallido
monolocale, in cui risiedeva.
Finì in strada, senza un soldo in tasca, disperato. Rischiò diverse
volte di morire di fame. Meditò a lungo sul suicidio, poi uno strano
ed inquietante istinto di sopravvivenza lo assalì e si mise a chiedere
l'elemosina in strada e riusciva a campare solo grazie a questi miseri espedienti.
Qualche volta si permise pure di rubare qualcosa da un supermercato, un formaggio,
un pane, ma lo fece veramente solo poche volte perché la sua natura rimaneva
quella di sempre: timida e vergognosa e la sua coscienza non poteva reggere
ad atti di quel genere.
Era trascorso molto tempo quando riprese a pensare ad Anna, non l'aveva ancora
dimenticata. Volle pensare che se l'avesse rivista forse egli si sarebbe salvato.
Era solo un sogno, e lui lo sapeva, e lui se ne rendeva perfettamente conto,
un'illusione che non lo avrebbe portato a niente. Eppure non poteva smettere
di pensarci anche se rimandava sempre quel viaggio di ritorno nel passato.
Alla fine si decise. A piedi e a fatica per lunghi giorni camminò fino
ad arrivare nel suo vecchio paesino con il cuore stretto dal dolore, con gli
occhi lacrimanti, nelle strade che bene egli conosceva. Nessuno lo riconobbe
e come avrebbero potuto, con quegli stracci che portava indosso, con quella
barba lunga ed incolta, e soprattutto con quella magrezza indicibile che spaventava
la gente, con quell'aspetto indecoroso che si possono permettere solo le persone
che vivono ai margini della società e non devono rispondere alle sue
inesorabili regole.
Dovevano essere forse passati dieci anni da quando era stato per l'ultima volta
in quei luoghi. In quella mattina d'inverno Mario camminava con nel cuore quella
strana commozione che lo straziava. Arrivò nella strada in cui abitava
Anna, lei era sempre stata molto più ricca di lui, e lui si chiedeva
se ella abitasse ancora in quella via, se avrebbe avuto la possibilità
di rivederla almeno una volta ancora.
Aspettò sotto la pioggia che scrosciava fino a quando non smise di cadere,
con quel tempo rigido che spirava in quella terribile giornata invernale, vedendo
gli uomini che si recavano al lavoro e alle loro occupazioni abituali, e voleva
immaginare che tutti fossero tristi per qualche motivo come lo era lui. Vedeva
un dolore in ognuno di loro e non osava alzare lo sguardo verso quella gente
timoroso di disturbare.
Aspettò e aspettò ancora fino a quando quel miracolo avvenne ed
Anna, proprio la sua Anna uscì dalla porta. Che sorpresa fu per lui,
come era diventata bella, sempre di più da quando l'aveva vista per l'ultima
volta. Non era per niente invecchiata. Gli pareva ancora più giovane,
ancora di più di allora, ma forse si ingannavano i suoi occhi ancora
innamorati che erano coperti da quel dolce sottile velo di lacrime che gli impediva
di comprendere esattamente la realtà.
Lei accompagnava verso una vettura nera una bambina che pareva la copia esatta
di lei. E come era bella quella piccola bambina, come era bella e vivace, ed
egli avrebbe voluto abbracciarla, stringerla a sé almeno una volta, almeno
una volta, ma non poteva.
Arrivò poi anche Antonello, lo riconobbe subito, quindi si erano sposati,
forse in chiesa come voleva lei. Erano proprio una bella coppia. Si era sbagliato
ad offendersi, a adirarsi con loro. Ora il suo cuore era puro e perdonava, perdonava
tutto quello che c'era da perdonare, incantato, commosso da quella scena di
perfetta felicità familiare.
L'uomo e la bambina andarono via con la macchina sfrecciante. Anna rimase da
sola e si aggiustava la cintura del vestito, che forse le andava troppo largo.
Ora erano rimasti solo loro due in mezzo alla strada, forse ella si sarebbe
ricordata di lui. Si avvicinò a lei tremando, con il cuore che gli scoppiava
nel petto e con le gambe molli per la fatica del lungo vagabondaggio.
Sapeva di non avere coraggio, di non averne mai avuto, eppure si accostò
a quella delicata figura.
"Scusi" disse con una voce roca e stentata che neanche lui distingueva,
per quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui aveva proferito parola.
"Certo, signore" disse Anna interrompendolo e gli diede una grossa
elemosina, quindi non l'aveva riconosciuto e forse, egli pensò, era meglio
così. Non voleva rovinare quella loro felicità e lui in fondo
era contento così vedendo la sua Anna piena di gioia e contentezza.
Vagò ancora per tutta la notte col pensiero di lei che lo ossessionava,
che lo tormentava, che a volte gli impediva di camminare e lo faceva piegare
a terra pieno di lacrime e di dolore. Raggiunse la spiaggia che era molto cambiata,
colma com'era di costruzioni abusive e senza più il vecchio ed enorme
pontile. Ma gli occhi appannati di Mario non vedevano nessuno di quelle innovazioni
e dove c'era il buio vedeva la luce, e nella sua solitudine si sentiva in compagnia
e si immaginò di tornare ragazzo, quel ragazzo di ieri che si sentiva
vivo e felice.
Ritornò a quella mattina, a quella scena ed ora poteva cambiare, poteva
cambiare tutto anche il tempo. Si avvicinò ai due amici che lo aspettavano.
"Cosa c'è, Mario? Cosa c'è?" dissero vedendolo arrivare.
"Vi voglio bene!" disse lui smarrito: "Vi voglio bene!"