Invito ad una
discussione radicale sul marxismo
Di Costanzo Preve
Un primo repertorio di temi
1. Prologo
Un invito all’apertura di una
discussione radicale sul marxismo dovrebbe in teoria essere accolto con
approvazione, piacere e gratitudine. Non è quasi mai così. La diffidenza è
spesso la prima reazione. Si ha paura di una sorta di cavallo di Troia che
vuole entrare con questo pretesto nelle mura delle nostre pigrizie e dei nostri
pregiudizi, su cui abbiamo costruito un’identità, un’appartenenza, delle
abitudini di militanza che crediamo stabili e che sono invece quasi sempre
fragilissime e precarie. Eppure è ormai chiaro che le vecchie forme di marxismo
costituitesi nel Novecento, non importa se maggioritarie o minoritarie,
ortodosse o eretiche, ecc., non sono più in grado di rispondere alle nuove
esigenze conoscitive ed interpretative di questo inizio di secolo XXI°, dalle
nuove forme di potere capitalistico alle ragioni profonde del vergognoso crollo
degli Stati e dei sistemi sociali del comunismo storico novecentesco, dalla
cosiddetta globalizzazione alle nuove forme storico-antropologiche della
soggettività individuale e collettiva, battezzata troppo spesso frettolosamente
in termini di postmodernità. In estrema sintesi possiamo ricondurre queste
difficoltà a tre ordini di ragioni, che voglio indicare subito in questo
prologo.
In primo luogo, occorre vincere
la tendenza distruttiva a tenere insieme la dipendenza della trattazione dei
temi teorici, scientifici e filosofici del marxismo dal far politica quotidiano
organizzato e dalle scelte politiche congiunturali che ne derivano. So
benissimo che per molti a sinistra non esiste alcuna passione teorica, ma tutta
la passione va a finire nelle decisioni cosiddette politico-militanti, se
votare Bertinotti oppure non farlo, se appoggiare i noglobal moderati alla
Agnoletto o i noglobal movimentisti alla Casarini, se bisogna appoggiare
tatticamente l’Ulivo contro il miliardario Berlusconi oppure no, se dentro il
partito della Rifondazione siano meglio i bertinottiani oppure i seguaci del
vecchio togliattismo impropriamente scambiato per leninismo, ecc. Non nego che
tutte queste scelte tattiche abbiano a che fare in ultima istanza e dopo molti
passaggi con una teoria di riferimento, ma nego che da riferimenti teorici
dottrinari si possano "dedurre" linearmente delle scelte politiche
tattiche. Questa è l’illusione di tutte le sette a legittimazione metafisica
dottrinaria, dal bordighismo al trotzkismo, che infatti sono poi condannate a
frantumarsi in correnti antagonistiche. Chi vuole veramente aprire una
discussione teorica sul marxismo deve invece sapere che essa non può essere
limitata ai seguaci politici della propria linea politica tattica
congiunturale, buona o cattiva che sia, ma che essa deve essere invece aperta
ai punti di vista più diversi. E’ infatti possibile concordare con persone che
hanno opinioni politiche tattiche congiunturali diverse dalle nostre, mentre
possiamo dissentire sul piano teorico da individui o gruppi che hanno la nostra
stessa valutazione politica di ordine tattico o congiunturale.
In secondo luogo (ma questo
secondo punto è legato al precedente) il marxismo non deve mai diventare una
barriera identitaria di appartenenza militante, come peraltro avviene sempre
con le sette di ogni tipo, ma deve essere sempre inteso come un luogo aperto e
dialogico di interpretazione e di conoscenza. A costo di correggere
amichevolmente il giovane Marx, è infatti impossibile trasformare il mondo in
modo rivoluzionario, se prima non si è fatto lo sforzo di conoscerlo. Nei
fatti, il marxismo identitario di appartenenza è il nemico principale del
marxismo critico di conoscenza. Più di un secolo di storia del marxismo non
lascia alcun dubbio in proposito. Il marxismo identitario di bandiera è una
semplice risorsa ideologico-psicologica di coesione organizzativa. Mi rendo
conto che per la riproduzione della setta la coesione organizzativa è
un’esigenza primaria, ma questo avviene anche per la teologia dei testimoni di
Geova.
In terzo luogo, e per concludere
su questo punto, una discussione o è radicale ed a tutto campo o semplicemente
non è. Una discussione non può avvenire con il presupposto che alla fine di
essa non dovranno comunque essere messe in discussione le basi di partenza. Non
possiamo discutere in astronomia sul sistema geocentrico con il presupposto che
comunque alla fine saremo ancora geocentrici, perché la Chiesa lo vuole.
Galileo non l’ha fatto. Molti marxisti inneggiano retoricamente a Galileo, ma
poi si guardano bene per viltà e conformismo dal seguire il suo esempio. Le
discussioni addomesticate non esistono.
2. La sacralizzazione
religiosa del pensiero di Marx contro il carattere di opera aperta della sua
teoria
Karl Marx non fu l’edificatore di
una dottrina chiusa e compiuta, ma lo scopritore di un nuovo continente
scientifico (l’espressione è di Louis Althusser, e la condivido
nell’essenziale). Di questo nuovo continente scientifico (la scienza dei modi
di produzione sociali unita con una filosofia della liberazione e della
compiuta realizzazione umana) Marx non scoprì che le coste e alcuni fiumi, e
non ha proprio senso dire che ne portò a termine la scoperta stessa. Forse che
Newton portò a termine la scoperta della fisica, e Lavoisier quella della
chimica ? Nessuno dice queste sciocchezze sulle scienze naturali, ma questa
sciocchezza sulla scienza di Marx è per esempio sostenuta dalla setta
bordighista. Gran parte dei marxisti, tuttavia, praticano implicitamente quello
che la setta bordighista sostiene esplicitamente, e cioè la perfezione e la
compiutezza di tutto ciò che a suo tempo Marx ha scritto e sostenuto. Si giunge
fino all’assurdo di mescolare citazioni di Marx del 1844, del 1858 e del 1875,
negandogli persino il diritto di aver avuto una progressione dialettica della
sua elaborazione di ricerca.
Questo dogmatismo è talmente
assurdo da dover essere spiegato. Ma la spiegazione è a mio avviso
relativamente semplice. L’infallibilità teologica di Marx e la sua insuperabile
perfezione sono una costruzione religiosa delle burocrazie politiche
autodenominatesi "marxiste", prima socialiste e poi comuniste, che in
questo modo sacralizzano sé stesse proiettando la propria pretesa di infallibilità
sull’infallibilità originaria sacralizzata del Padre Fondatore. In questo modo
ai marxologi ed agli studiosi di teoria era data soltanto una sovranità
limitata, e la sovranità limitata consisteva nel discutere all’interno del
ferreo presupposto dell’infallibilità e della compiutezza di Marx.
Chi voleva sottolineare dei
"difetti" dentro Marx aveva allora soltanto tre diverse possibilità.
In primo luogo, poteva dire che Marx si era a suo tempo espresso in modo chiaro
ed inequivocabile, ma che era stato poi interpretato male, o per ignoranza del
cattivo interprete o per malafede politica del malvagio
"revisionista". In secondo luogo (e questa fu la linea teorica scelta
da Louis Althusser), poteva contrapporre il Marx giovane al Marx maturo,
fissando da qualche parte intorno al 1845 una sorta di "rottura
epistemologica", e contrapponendo così il giovane idealista volonteroso ma
confuso al maturo scienziato materialista. In terzo luogo ( e questa fu la
linea scelta dal cosiddetto "marxismo occidentale" dagli anni Venti
del Novecento in poi), poteva contrapporre il buon pensiero di Marx al cattivo
pensiero di Engels, in cui il primo avrebbe espresso una filosofia della prassi
umana e sociale, ed il secondo avrebbe incorporato invece questa stupenda
filosofia della prassi in una metafisica positivistica del determinismo, della
necessità meccanica e della teleologia predestinata della storia.
Noi dobbiamo rifiutare tutte e
tre queste pratiche teologiche. Marx non è un padre fondatore perfetto, ma il
grande ingegnere di un cantiere aperto ed in costruzione. Del resto, a questa
conclusione è anche arrivata la recente ricerca filologica marxista più
intelligente (cfr. Mega. Marx ritrovato, a cura di
Alessandro Mazzone, Laboratorio per la Critica Sociale, Roma 2002).
Lo stesso piano del Capitale
di Marx prevedeva libri che non furono mai scritti, come ad esempio quello
delle classi sociali nel capitalismo. La dicotomia classistica del modo di
produzione capitalistico (Borghesia/Proletariato) è infatti solo un quadro di
massima assolutamente astratto, e di fatto sempre inesistente nelle singole e
concrete formazioni sociali, in cui le classi sono sempre più di due. E non
dimentichiamo mai che sono sempre e soltanto le formazioni storico-sociali, e
non i modi di produzione generali, i punti di partenza concreti per l’azione
politica, sia riformistica che rivoluzionaria (e su questo Lenin continua ad
aver ragione a quasi un secolo di distanza).
In conclusione, se comprendiamo
il carattere di opera aperta del pensiero di Marx, non ci faremo mai ricattare
dalla presunta "ortodossia" delle sette, e ristabiliremo il metodo
socratico del dialogo razionale ed argomentato contro il sistema ecclesiastico
delle citazioni.
3. Il Dubbio Metodico ed il
Dubbio Iperbolico nell’approccio alle teorie di Marx
A suo tempo il grande filosofo
francese Cartesio propose un metodo critico di analisi razionalista, in cui
distingueva una sorta di dubbio metodico, da utilizzare sempre nel corso delle
proprie ricerche, da un dubbio enorme, definito iperbolico, sulla stessa
esistenza del mondo materiale esterno e di Dio. Ebbene, un simile problema di
dubbio iperbolico esiste anche per il marxismo, e può essere formulato così:
nonostante le buone intenzioni di Marx, è possibile che l’intero complesso
della sua teoria sia sbagliato dalle fondamenta, e non possa pertanto essere
corretto e migliorato, ma debba essere del tutto ed integralmente abbandonato?
Questa domanda
"iperbolica" è assolutamente legittima e razionale, ed il fatto che
molti presunti marxisti la censurino e si autocensurino rivela soltanto la loro
refrattarietà al dubbio metodico razionalistico. Il metodo razionalistico, bene
inteso, si interroga sempre sui propri fondamenti ultimi, e non li presuppone
mai. E’ così possibile capire la dinamica psicologica di molti
"abbandoni" del marxismo. Chi non si è infatti mai interrogato
radicalmente sui propri fondamenti ultimi di pensiero è particolarmente
predisposto a quegli abbandoni improvvisi di tipo nichilistico e relativistico
(nichilistico perché non si crede più in niente, e relativistico perché si
pensa che tutto ciò che si può dire sul mondo sia equivalente, perché comunque
personale ed irrilevante), che hanno caratterizzato la ridicola generazione del
cosiddetto Sessantotto.
E invece bisogna proprio
cominciare dalla domanda iperbolica. Ciò che è solo metodico viene infatti
dopo, e di conseguenza. A mio avviso, in brutale sintesi, io conosco due reali
problemi iperbolici, ed un problema iperbolico considerato tale da molti, ma
non da me. I due reali problemi iperbolici sono rispettivamente la questione
della natura umana, della sua esistenza storica ed ontologica e della sua
compatibilità con il comunismo comunque definito, in primo luogo, e poi del
carattere rivoluzionario intermodale della classe operaia salariata, più o meno
allargata e più o meno diretta da un partito politico rivoluzionario marxista.
Il problema iperbolico a mio avviso fittizio sta invece nella natura della
smentita e della falsificazione storica del progetto comunista in base al
fallimento globale dell’esperienza del comunismo storico novecentesco veramente
esistito e non solo gruppettaro e testimoniale (1917-1991). Questi tre temi
"iperbolici" sono talmente importanti da dover essere trattati
separatamente per non fare confusione, e lo farò nei prossimi tre paragrafi.
Per ora (ma questo è del tutto
secondario) ricorderò soltanto due questioni che a mio avviso non sono mai
state veramente fondamentali, e tanto meno iperboliche, ma che sono state
storicamente trattate come tali: la questione della (mancata) trasformazione
dei valori in prezzi di produzione, e la questione della contraddizione
dialettica, nella sua specifica differenza qualitativa con la cosiddetta
"opposizione reale" di tipo aristotelico e kantiano.
La questione della trasformazione
dei valori in prezzi di produzione, legata storicamente alla pubblicazione nel
1894 da parte di Engels del cosiddetto terzo libro del Capitale di Marx,
ha dato luogo ad un dibattito durato più di un secolo, e tuttora in corso. Non
vi è qui purtroppo lo spazio per darne i termini fondamentali. A mio avviso,
sono e sono stati in errore (in un errore simmetrico) sia coloro che hanno
voluto dimostrare la scientificità della teoria marxiana del valore (e del
plusvalore, e della sua trasformazione, sia coloro che simmetricamente al
contrario hanno voluto dimostrarne il carattere non scientifico e solo
ideologico proprio sulla base dell’impossibilità di questa trasformazione. In
questo modo si carica la teoria marxiana del valore e del plusvalore di un peso
insopportabile ed eccessivo, dimenticando che questa stessa teoria è pur sempre
subordinata alla ben più importante teoria della riproduzione complessiva del
modo di produzione capitalistico, che comprende anche elementi non economici,
ma anche storici, ideologici, politici e culturali. Sono d’accordo con
Gianfranco La Grassa sul fatto che questa centralità sia una forma di
economicismo. Tuttavia, aldilà di rilievi di questo tipo, ritengo assolutamente
convincente e degno di essere conosciuto e studiato l’insieme di argomentazioni
che oggi viene riproposto per sostenere la fondamentale correttezza del
problema della trasformazione così come a suo tempo fu posto da Marx (cfr. Un
vecchio falso problema a cura di Luciano Vasapollo, e Karl Marx e la trasformazione
del pluslavoro in profitto, a cura di Giorgio Gattei, entrambi nella
collana Sapere Critico). Riterrei invece sbagliato, ed allora concordo con La
Grassa, far girare tutta la questione della "scientificità" di Marx
su questo punto. Ma a questo intendo riservare più avanti un paragrafo
apposito.
La questione della differenza fra
contraddizione dialettica ed opposizione reale (cattiva e metafisica la prima,
buona e scientifica la seconda) fu posta a suo tempo dalla scuola dellavolpiana
italiana e fu messa a pretesto da Lucio Colletti per il suo abbandono del
marxismo (cfr. O Tambosi, Perché il marxismo ha fallito. Lucio
Colletti e la storia di una grande illusione, Mondadori, Milano 2001).
Non vi è qui lo spazio per
analizzare questa delicata questione. Come peraltro per il caso precedente
della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, anche in questo caso è
possibile pacatamente dimostrare che Colletti si è profondamente ingannato
proprio sulla natura della cosiddetta contraddizione dialettica in Marx, che
non è affatto il ristabilimento finale di un Intero presupposto come originario
e come rovesciato (cfr. AAVV, La contraddizione, Città Nuova, Roma 1977
e E. Berti, Logica aristotelica e dialettica). In altre parole, prima
Colletti si è costruito abusivamente una dialettica marxista di tipo
neoplatonico, e poi l’ha brillantemente stroncata.
Tuttavia, ribadisco che queste
due interessantissime questioni teoriche non sono veramente
interrogazioni radicali del marxismo e non sono pertanto dubbi veramente
iperbolici. Discutiamo ora separatamente i veri dubbi iperbolici.
4. Il primo dubbio iperbolico:
la questione della compatibilità fra natura umana e comunismo
Come è noto, la grande e diffusa
obiezione di senso comune contro la possibilità storica del comunismo consiste
nel sostenere che l’uomo è un essere egoistico aggressivo, acquisitivo e
prepotente, e che perciò ogni sogno di comunità pacificamente solidale resta un
sogno ad occhi aperti ed un’utopia semplicemente regolativa, ma non operativa.
I teorici marxisti sofisticati snobbano generalmente questa obiezione,
ritenendola banale, ma si sbagliano di grosso, perché mettendola da parte con
disprezzo e sufficienza non la si discute, ed in questo modo essa continua a
produrre velenosi effetti sotterranei. I marxisti anglosassoni sono più
intelligenti, e generalmente se ne occupano, mentre quelli europei pensano di
essere furbi rimuovendola e non occupandosene. Bisogna proprio su questo punto
invertire assolutamente la tendenza.
Si suole generalmente ripetere
pigramente che l’ipotesi capitalistica sulla natura umana è quella pessimistica
di Hobbes, per cui l’uomo è come un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus),
Aristotele si era sbagliato nel definire l’uomo un animale per sua natura comunitario,
politico e sociale, e che dunque la concorrenza economica spietata fra imprese
ed aziende corrisponde perfettamente alla natura umana originaria, che sarebbe
del tutto inutile provare a cambiare radicalmente. Ma questo non è esatto.
Questa concezione, che definirei animalistica, è in realtà il frutto
tardo-ottocentesco di un innesto della teoria pessimistica di Hobbes sul
darwinismo sociale. In realtà l’economia politica inglese settecentesca (da
Hume a Smith) ha una teoria ottimistica della natura umana, e ritiene che
l’istinto dello scambio (base antropologica del valore di scambio, e cioè del
valore) si basi su di un istinto di simpatia (cioè di immedesimazione
psicologica da parte del venditore nei bisogni del compratore). Occorre
riflettere molto su questa base antropologica dell’economia politica
capitalistica, e non limitarci a dire che si tratta solo di un’ideologia
illusoria di mistificazione. Personalmente, sono convinto che se la base
antropologica del capitalismo fosse soltanto l’addizione del pessimismo di
Hobbes con la concorrenza animalesca del darwinismo sociale, a quest’ora il
capitalismo sarebbe già crollato da tempo, del tutto indipendentemente da
pretese ed economicistiche cadute del saggio medio del profitto. Il capitalismo
è antropologicamente forte proprio perché riesce ad utilizzare strumentalmente
anche componenti positive e generose della natura umana.
In campo marxista vi è tutta una
tradizione (fino sciaguratamente a Louis Althusser) che sostiene che la natura
umana non esiste, e che non è altro che l’insieme sempre mutevole dei rapporti
sociali di produzione storicamente determinati. Non è vero. Questa concezione
può essere definita "sociologismo", o meglio deviazione
sociologistica del materialismo storico. La base antropologica dell’agire umano
(dal lavoro al linguaggio, dall’agire simbolico alla consapevolezza della
propria morte) è il supporto materiale della storia. Una storia senza
antropologia è come un’economia politica senza tecnologia, e cioè un’astrazione
vuota. In proposito molti marxisti sostengono la folle teoria per cui il
comunismo è possibile appunto perché la natura umana è infinitamente
trasformabile, ed anche ammesso che l’esperienza storica l’abbia resa cattiva
ed egoista per natura sarà possibile con mezzi politici ed educativi creare il
cosiddetto "uomo nuovo" comunista e solidale. Si tratta di vere e
proprie sciocchezze. L’uomo nuovo è solo un incubo per burocrati, oppure al
massimo è un errore filosofico di rivoluzionari onesti ma confusionari (come il
Che Guevara). Tra l’altro, se la natura umana fosse integralmente manipolabile
e trasformabile allora il capitalismo sarebbe invincibile, perché dispone di
tutte le possibilità tecniche ed economiche per manipolare gli uomini
riducendoli a consumatori isolati e solo artificialmente risocializzati. In
realtà (e ad esempio Noam Chomsky lo ha capito) la natura umana, proprio per il
suo carattere generico e non specifico, è un fattore di resistenza alla
manipolazione capitalistica, e non il contrario.
In conclusione, non esiste
nessuna inconciliabilità fra la natura umana ed il comunismo. Se pensiamo che
esso sia semplicemente una sorta di movimento reale che abolisce lo stato di
cose presenti (come scrisse il giovane Marx, ed era del tutto spiegabile
allora, ma non più oggi dopo un secolo e mezzo), allora siamo fuori strada,
Perché l’espressione rimanda ad una sorta di fatalità storica necessitata, che
in realtà non esiste. Se pensiamo che in modo armonico, e senza la mediazione
di organi intermedi come la famiglia, la società civile professionale e lo
stato politico, ognuno darà spontaneamente secondo le proprie capacità, e
riceverà secondo i propri bisogni, allora siamo fuori strada, perché solo i
bisogni naturali primari possono essere soddisfatti senza una mediazione
politica, ma questo non può avvenire per un sistema di bisogni sorti sulla base
di uno sviluppo delle forze produttive: una cosa è mangiare a sazietà e
vestirsi per affrontare il freddo ed il caldo, ed una cosa è prendere il
biglietto aereo per il Madagascar o il Messico. Anche nel comunismo, ci vorrà
una regolazione politica, anche perché la scarsità, sia pure relativa e non
assoluta, sarà sempre presente, ed anzi bisognerà sempre più fare attenzione ai
vincoli dell’ecosistema, cui il capitalismo non riserva alcuna attenzione.
Lo ripetiamo, dipende sempre
dunque da come concepiamo il comunismo. Chi lo concepisce in modo staliniano
come livellamento e proletarizzazione forzata, con alle spalle per di più
l’invidia pauperistica ed il risentimento plebeo scambiati per punto di vista
proletario, ebbene costui non avrà nessun comunismo, perché la natura umana lo
rifiuterà, e sarà un bene. Ma una concezione corretta del comunismo, come
insieme di comunità unite dalla libertà, dalla sicurezza e dalla solidarietà, è
del tutto compatibile con una corretta concezione antropologica della natura
umana.
5. Il secondo dubbio
iperbolico: la questione della capacità rivoluzionaria intermodale della classe
operaia e proletaria
Abbiamo visto nel paragrafo
precedente che il discorso sull’incompatibilità fra natura umana e comunismo
non sta razionalmente in piedi, se ovviamente disponiamo di una nozione
corretta di natura umana e di comunismo. Questo, e solo questo, è il problema.
Passiamo ora al secondo dubbio iperbolico possibile, quello sulla eventuale
capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria.
Tutti i marxisti sanno, o credono
di sapere, che per Marx il soggetto rivoluzionario anticapitalistico
fondamentale è la classe operaia e proletaria politicamente organizzata in
partiti e sindacati. In realtà, non è affatto così semplice. Del resto, è noto
che non furono gli schiavi ad abbattere il modo di produzione schiavistico, e
non furono neppure i servi della gleba ad abbattere il modo di produzione
feudale. Se per Marx il ruolo dei proletari nel capitalismo sarà
qualitativamente diverso da quello precedentemente svolto dagli schiavi e dai
servi della gleba, ciò avverrà soltanto non certo perché "i proletari
hanno da perdere solo le proprie catene" (frase letteraria che tutti gli
sciocchi ripetono incuranti del fatto che non è così da nessuna parte, dagli
Stati Uniti all’Egitto), ma perché i proletari vengono visti come il fronte
sociale avanzato dello sviluppo delle forze produttive e perché la classe
borghese è vista come un soggetto storico originariamente produttivo e creatore
ma poi gradatamente parassitario.
Come ha filologicamente stabilito
Gianfranco La Grassa, per Marx il soggetto rivoluzionario non è affatto
semplicemente la classe operaia e proletaria, ma è il lavoratore collettivo
cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato
con le potenze intellettuali della produzione capitalistica complessiva,
connotata da Marx con il termine inglese di general intellect. Tuttavia
La Grassa aggiunge che Marx conduce il suo ragionamento a livello di fabbrica e
non di impresa, e cioè di unità produttiva e non di rete concorrenziale di
strutture, in cui però non avviene secondo La Grassa una vera socializzazione
"virtuosa" delle forze produttive, e dunque neppure la formazione
storica progressiva e processuale del lavoratore collettivo cooperativo
associato. Se è così, allora il nostro dubbio iperbolico è veramente
giustificato. In breve, ci restano le contraddizioni antagonistiche del modo di
produzione capitalistico, ma ci sfugge via fra le mani il soggetto
rivoluzionario risolutore anticapitalistico. E non si risponde certamente
all’obiezione pertinente di La Grassa con la fuga in avanti dei
"disobbedienti" e delle "moltitudini" di Toni Negri, vera e
propria vergogna scientifica oggi sciaguratamente di moda.
C’è qui molto da discutere.
Personalmente, ho sempre creduto che il modo di produzione capitalistico possa
essere storicamente superato, mentre non ho mai creduto (o almeno non ci credo
più da almeno due decenni) al ruolo strategico della classe operaia e
proletaria. Lo ritengo un comprensibile e scusabile errore epistemologico di
Marx, esattamente come i concetti di spazio e di tempo assoluti in Newton.
Borghesia e proletariato sono per me astrazioni storiche generalizzanti
necessarie per la costruzione di un modello, non realtà sociologiche permanenti
titolari di "grandi narrazioni" dotate di una Origine e di un Fine.
In senso storico, sia la borghesia che il proletariato sono veramente esistiti
(nell’Ottocento), si sono a poco a poco trasformati fino all’estinzione (nel
Novecento), ed oggi non esistono più se non come parolette per indicare degli
agenti attivi e passivi della riproduzione della produzione capitalistica. Ma
il capitalismo va avanti lo stesso, perché esso non è una macchina guidata da
Soggetti, ma una struttura impersonale tecnoscientifica e tecnoeconomica che
ristruttura e rinnova continuamente le proprie soggettività sociologiche.
Il venir meno del "mito del
proletariato" non è allora una falsificazione iperbolica del comunismo
marxista. Nuovi soggetti premono, si classificano e si riclassificano. La causa
storica del comunismo non dipende affatto dalla permanenza della cosiddetta
"centralità operaia".
6. Il terzo dubbio iperbolico:
il crollo implosivo catastrofico del comunismo storico novecentesco
Vi è poi un terzo dubbio
iperbolico molto diffuso, che però per me non è tale e si basa su di un
equivoco radicale. Si tratta del fatto che l’indiscussa dissoluzione,
tragicomica e grottesca, vergognosa e senza onore, del comunismo storico
novecentesco come sistema internazionale di stati, partiti e società
(1917-1991) avrebbe smentito e falsificato alle fondamenta ogni progetto
alternativo al capitalismo di tipo socialista e comunista. Non è così, ed è
anzi il contrario. Il comunismo storico novecentesco, anzi, è un fenomeno
storico cui è possibile integralmente applicare l’apparato concettuale di Marx.
Il discorso sarebbe lungo. Per farla corta, limitiamoci all’applicazione dei
quattro concetti scientifici fondamentali di Marx (modo di produzione, forze
produttive, rapporti di produzione, ideologia).
In primo luogo, a proposito del
modo di produzione, le società guidate dal partito-stato del comunismo storico
novecentesco (abbastanza simili nonostante le varianti, da Cuba alla
Jugoslavia, dalla Cina all’URSS) devono essere interpretate non come un modo di
produzione post-capitalistico, ma come una particolare ed inedita formazione
economico-sociale. Questa è la chiave concettuale per risolvere il famoso
problema della "natura sociale" dell’URSS e dei sistemi a cosiddetto
"socialismo reale". Bisogna dunque utilizzare due diversi concetti,
uno risalente a Marx (modo di produzione) ed uno a Lenin (formazione economico-sociale).
La separazione fra i produttori associati e le condizioni della produzione,
mediata da un apparato burocratico di tipo partitico-statale (al di là del
fatto, su cui ritornerò più avanti, che questo apparato separato debba essere
definito una nuova classe sfruttatrice oppure un semplice ceto politico a
carattere non-classistico) non permette di parlare di modo di produzione
post-capitalistico, se vogliamo usare i concetti nel senso marxiano autentico.
Ma non si trattava neppure di una semplice variante del modo di produzione
capitalistico (e quindi a suo tempo ebbe ragione Sweezy, non Bettelheim),
perché questa nuova formazione economico-sociale mancava di troppe
caratteristiche strutturali del capitalismo (mercato dei capitali e della forza-lavoro,
disoccupazione strutturale ed esercito industriale di riserva, trasformazione
del plusprodotto in plusvalore, trasformazione del plusvalore in profitto,
ecc.). Insomma, si trattò di una inedita formazione economico-sociale uscita
dalla congiuntura storica irripetibile del 1917, che comprendeva diversi
elementi modali, di tipo asiatico (proprietà dello Stato e non dei privati, con
connessa mummificazione sacrale dei faraoni fondatori come simbolo dell’unità
simbolica proprietaria dello stato sacerdotale), schiavistico (lavoro forzato
di massa di milioni di persone private di ogni diritto), feudale (casta
separata signorile dei membri del partito separati dal resto della popolazione,
inquisizione ideologica con connessa separazione fra ortodossi ed eretici) ed
infine capitalistico (permanenza, sia pure deformata, della forma di valore e
del feticismo della merce). Il punto fondamentale è che questa formazione
economico-sociale (e non modo di produzione) è inedita. Chi ne ripropone il
modello, in modo esplicito ed implicito, non fa che fare perdere tempo ed
energie.
In secondo luogo, a proposito
dello sviluppo delle forze produttive, è ormai chiaro che Marx (e soprattutto
Engels) era in errore quando pensava che il capitalismo sarebbe stato superato
perché incapace di svilupparle oltre ad un certo punto. Il capitalismo è il
sistema economico-sociale ideale per svilupparle, ed il problema non sta nel
fatto che è incapace di svilupparle, ma che le sviluppa in modo barbarico, cioè
catastrofico sia verso le comunità sociali particolari che verso l’ecosistema
complessivo. Resta infatti vero che il Rosso ed il Verde devono trovare
un’unità, ma questo per ora non può avvenire sulla base dei ceti politici
analfabeti attuali. La storia del Novecento dimostra che le formazioni
economico-sociali del socialismo reale furono in grado in un primo momento di
fare una sorta di "accumulazione primitiva" della base industriale
(Russia 1929-1956, Cina 1949-1966), ma in un secondo tempo, dovendo passare
all’industria leggera di consumo di massa non riuscirono più a farlo, e questo
non certo per incapacità tecnica o gestionale, ma per il semplice fatto
marxista che l’industria dei consumi crea e rafforza nuovi ceti sociali
potenzialmente incontrollabili dal partito. La vittoria del capitalismo
"normale" sulle formazioni economico-sociali del socialismo reale
(che mi rifiuto di chiamare "di transizione", secondo un uso
improprio diffusosi fra i confusionari fra il 1956 ed il 1991, dal momento che
non stavano proprio transitando da nessuna parte), compiutosi nel fatidico
1991, è proprio avvenuta sulla base delle forze produttive, secondo il più
classico modello di Marx. La controprova è la Cina dopo il 1976, che ha deciso
di competere con il capitalismo sulla base dello sviluppo capitalistico delle
sue forze produttive.
In terzo luogo, a proposito della
natura dei rapporti di produzione, la formazione economico-sociale del
comunismo storico-novecentesco mi sembra un modello classistico al 100%. Chi lo
nega, o si limita a parlare di deformazioni burocratiche, di corruzione o di
ceti degenerati, mostra di non disporre di un concetto veramente marxiano di
classe. Perché una classe sfruttatrice esista non c’è necessariamente bisogno
della trasmissibilità ereditaria familiare della proprietà, o di un corpo di
commercialisti e notai. L’antico Egitto non disponeva di commercialisti e
notai, eppure era egualmente una società classista, simbolicamente sanzionata
dalla mummificazione dei suoi faraoni (da Tutankhamen a Lenin, Stalin e Mao).
Su questo punto ritengo che la nuova classe sfruttatrice dell’apparato del
partito-Stato si sia formata sotto Stalin su basi sociologicamente proletarie
ed operaie (cosa che i trotzkisti non capirono mai), si sia stabilizzata e
consolidata sotto Krusciov e Breznev, ed infine si sia riconvertita sotto
Gorbaciov e Eltsin in settore locale di una nuova classe capitalistica
globalizzata, ovviamente con specifiche ed irripetibili caratteristiche russe,
sioniste e mafiose. La stragrande maggioranza dei militanti comunisti, ottusi
ed ingannati, non ha mai neppure lontanamente capito la dinamica sociale
dialettica di questo maestoso processo sociale, perché non hanno mai saputo e
voluto applicare il metodo marxista al marxismo stesso, o almeno a chi si
dichiarava ideologicamente tale, che pretendeva così di sottrarsi alla legge di
gravità. Una storia complessivamente tragicomica, in cui però il comico, ed
anzi il grottesco, prevale nettamente.
In quarto luogo, e per finire, a
proposito dell’ideologia, anche in questo caso il concetto marxiano di
ideologia come falsa coscienza socialmente organizzata (e dunque non solo come
illusione personale) appare integralmente applicabile. Ci si chiede come sia
stato possibile che in 74 anni (1917-1991) la formazione economico-sociale inedita
del comunismo storico novecentesco non sia mai riuscita a rendere l’ideologia
flessibile (e cioè pluralistica), cosa che tutti i normali capitalismi non
fascisti riescono tranquillamente a fare. Anche a questa domanda è possibile
rispondere sulla base di una corretta applicazione del metodo di Marx. Il
normale capitalismo imperialistico di tipo liberaldemocratico sottomette a sé
la famosa opinione pubblica della società civile attraverso un Campo
Pluralistico Amministrato (CPA), che è come una struttura antisismica
flessibile nelle costruzioni, in quanto permette alle contraddizioni
intercapitalistiche di venire allo scoperto, ed in più permette di cooptare nel
sistema attraverso la ben nota triplice gratificazione (potenza, ricchezza,
onori) la stragrande maggioranza del ceto intellettuale potenzialmente di
opposizione o almeno di protesta e contestazione. La formazione
economico-sociale del comunismo storico novecentesco non può invece permettersi
un campo pluralistico amministrato, per il semplice fatto che il monopolio del
potere economico-politico della nuova classe dei burocrati del partito-stato
verrebbe messo in pericolo (contestazione dei piani quinquennali, contestazione
del sistema dei salari che paga l’operaio più del medico, ecc.), ed allora si
instaura una sorta di Flusso Ideologico Omogeneo (FIO), che scorre
quotidianamente dall’alto verso il basso. Questo flusso ideologico omogeneo è
darwinianamente molto più debole e rigido del campo pluralistico amministrato,
ed alla lunga deve darwinianamente soccombere di fronte ad esso, perché aliena
integralmente gli intellettuali come gruppo sociale sottomettendoli a burocrati
ignoranti e crudeli.
Concludiamo allora su questo
punto. Mentre due dubbi iperbolici sono giustificati (natura umana e capacità
intermodale operaia e proletaria), questo terzo dubbio iperbolico è
ingiustificato, perché l’uso delle quattro categorie marxiane principali basta
ed avanza per spiegare quello che è avvenuto nel Novecento.
7. Conclusioni provvisorie.
Note sul rapporto fra marxismo, scienza, filosofia ed ideologia
Con le note precedenti il
discorso è appena cominciato, ma lo spazio è tiranno, e bisogna avviarsi alla
chiusura. Ci sarà tempo e modo in altra sede di approfondire e completare il
discorso. Per chiudere qui desidero toccare un punto di grande importanza
teorica ed esprimere un mio meditato convincimento personale. A mio avviso il
marxismo è un inestricabile intreccio di filosofia e di scienza, e questo porta
ad almeno due conseguenze. Primo, la filosofia nel marxismo non può essere
ridotta ad epistemologia e/o ad ideologia, ma il suo statuto è molto più
fondante, strutturale, decisivo e fondamentale. Secondo, è insensato credere
che lo statuto scientifico del marxismo sia analogo e/o omologo a quello delle
scienze naturali moderne nate con la cosiddetta rivoluzione scientifica del
Seicento. Non è così. Nella storia del marxismo ci sono state tre ondate
storiche successive di questa illusione positivistica. La prima è stata quella
di Engels, che intendeva legare le sorti del marxismo a quelle delle scienze
della natura, credendo così di garantirne meglio la credibilità, ed ha creduto
di poterlo fare suggerendo una (a mio avviso inesistente) omogeneità
ontologica, fra la dialettica della natura e la dialettica sociale. La seconda
è stata quella di Stalin e del suo materialismo dialettico imposto come
filosofia obbligatoria di stato a partire dal 1931, in cui però la pretesa
scientifica copriva con falsa coscienza ideologica socialmente necessaria il
suo esatto contrario, e cioè l’arbitrio soggettivistico della sua costruzione
del socialismo. La terza ed ultima è stata quella di valorosi e stimabili
studiosi marxisti occidentali indipendenti (da Galvano Della Volpe a Louis
Althusser a Ludovico Geymonat), che però a mio avviso hanno imboccato una
strada assolutamente sterile, fuorviante e sbagliata.
Il discorso sarebbe lungo, ma
cercherò qui di compendiarlo in modo chiaro ricordando solo il punto
essenziale. Nel lontano 1794 il grande filosofo Fichte, vero e proprio fondatore
della filosofia della prassi (la realtà è data dalla prassi di trasformazione
dell’Io verso il Non-Io, cioè dell’umanità pensata come soggetto attivo verso
il mondo della natura e della storia precedente), stabilì metodologicamente la
differenza di principio fra logica formale e quella che propose di
chiamare dottrina della scienza. Nel primo caso la logica, come scienza
dell’uso corretto delle categorie del pensiero, si basa sulla separazione
metodologica fra forma e contenuto, e soprattutto fra osservatore e osservato.
E’ così infatti che funzionano scienze come l’astronomia, la fisica, la
chimica, la biologia e la stessa scienza sociale alla Max Weber quando
l’osservatore non deve trasformare quello che osserva (questo semmai dà luogo
alla separazione fra scienza e tecnica, contesto della scoperta e contesto
dell’applicazione, ecc.), ma semplicemente scoprirne la struttura oggettiva
interna. Nel secondo caso, invece (non la logica formale, ma la dottrina della
scienza) vi è un rapporto organico fra un soggetto che progetta, agisce e
modifica ed un oggetto sociale che ne viene agito e modificato. Quando Marx nel
1845 scrisse che i filosofi avevano fino ad allora soltanto interpretato il
mondo, e si trattava ora di trasformarlo, egli non lasciava dubbio alcuno di
voler riprendere, in una nuova intenzionalità anticapitalistica e comunista, il
programma filosofico proposto da Fichte nel 1794 di una dottrina filosofica
della scienza, e non certamente di una scienza della natura
galileiano-newtoniana. Antonio Gramsci chiamò tutto questo correttamente
filosofia della prassi. György Lukács chiamò tutto questo correttamente
ontologia dell’essere sociale.
Il marxismo, correttamente
inteso, non è dunque né un materialismo dialettico, né uno storicismo. Il marxismo
non è un umanesimo metodologico ed epistemologico, perché rifiuta il fondamento
soggettivistico di un soggetto collettivo della storia (l’Uomo, l’Umanità), ma
è invece pienamente un umanesimo filosofico, perché si basa su un’idea di
libera individualità da liberare (libertà = liberazione). Althusser e gli
althusseriani non capiscono nulla su questo punto, perché facendo un’equazione
indebita fra filosofia ed epistemologia (cioè fra il tutto e la sua parte)
confondono l’antiumanesimo epistemologico (che Marx ebbe veramente) con
l’antiumanesimo filosofico (che Marx invece non ebbe per niente).
Il lettore può vedere che abbiamo
messo molta carne al fuoco per la discussione. Per discutere bisogna però
essere in molti, o comunque almeno in due. Il fondatore della filosofia,
l’ateniese Socrate, concepì la filosofia come attività dialogica, o ancor
meglio come dialogo veritativo (e dunque non come educato dialogo relativistico
e nichilistico, come i post-moderni attuali, da Rorty a Vattimo). Bisogna che i
marxisti riprendano a discutere. Mi si permetta però di concludere con un
educato scetticismo su questo punto. Decenni di cieco attivismo militante e di
disprezzo per la teoria non si cancellano facilmente.
http://edu.supereva.it/sitoaurora/Chefare/chefare.htm